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Pesh Merga: il peso delle foglie
Pesh Merga: il peso delle foglie
Pesh Merga: il peso delle foglie
E-book457 pagine6 ore

Pesh Merga: il peso delle foglie

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Info su questo ebook

Milano, fine anni '80. Un giovane uomo di successo vive il proprio malessere esistenziale senza comprenderne le motivazioni. L'arrivo di un pacco strano ed inatteso, e l'incontro casuale con un coetaneo, psicologo francese trasferitosi in cerca di affermazioni personali, lo proietteranno in un viaggio fantastico verso una Direzione dell'essere lontanissima, eppure distante solo un passo. I due viaggeranno attraverso questo nuovo mondo, accompagnati da creature impensabili che li riavvicineranno alla loro stessa umanità, tra guerre e pericoli, piaceri inattesi e drammi improvvisi.
Nello scorrere di avventure, situazioni tragicomiche ed una moltitudine di personaggi vividi, il racconto si dipana fino all'inevitabile epilogo.
"Pesh Merga - il peso delle foglie" è la storia di un disagio personale, divenuto lo spunto per un percorso verso la riscoperta dei valori e delle ricchezze dell'animo umano.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2017
ISBN9788827514955
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    Anteprima del libro

    Pesh Merga - Maximilian Elliot Gillespie

    M. E. Gillespie

    Pesh Merga

    il peso delle foglie

    UUID: ec70708e-b27a-11e8-88c1-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Prefazione

    Il romanzo che state per leggere ha visto la sua prima stesura intorno al 1996, rivista e corretta nel corso dei diciotto mesi successivi. Possiamo quindi affermare che Pesh Merga-Il Peso Delle Foglie ha ormai vent'anni, e solo oggi raggiunge la pubblicazione grazie a questa auto-pubblicazione per conto terzi curata da Cultit. Si tratta di una storia di ambientazione fantasy e contenuti fortemente intimisti ed introspettivi che, d ietro la facciata di favola fantastica dipinge vividamente due mondi, quello che l'autore avrebbe voluto e quello che prevedeva. Pesh Merga è la storia di una serie di riscoperte: dell'amicizia, della famiglia, dell'amore, delle senso delle cose e del proprio Io.

    Questo romanzo, per molti versi profetico, è un'analisi -ed auto-analisi- delle pieghe che la mente umana può prendere; le moltitudini di personaggi e avvenimenti, piccoli e grandi, nascondono metafore ed esempi di queste pieghe. L'intera narrazione ruota intorno alle vicende di due protagonisti, primi attori in balia degli accadimenti, che possono solo seguire la corrente degli eventi, che li trascina sino alla conclusione di questa storia.

    L'autore; Maximilian Elliot Gillespie, italo-americano di seconda generazione, dal suo eremo estero ha accettato di veder prodotto il suo romanzo in cambio del rispetto per la propria riservatezza, che ha definito violata in altra sede.

    Ultima annotazione di carattere stilistico. Per i cultori del tecnicismo, godetevi le variazioni di intonazione dei dialoghi, non aggiungiamo altro.

    Godetevi le mille sfumature di Pesh Merga-Il Peso Delle Foglie. Buon divertimento.

    la rivelazione

    "L’abbaiare insistito del mio cane mi convinse ad alzarmi, nonostante fossi costretto a sorreggere le palpebre con le dita per riuscire a tenere gli occhi aperti. Volevo capire cosa diavolo stesse succedendo, quale fosse il motivo che aveva spinto il mio convivente quadrupede a svegliare l’intero condominio alle quattro meno un quarto del mattino: credo sia umano e comprensibile voler conoscere i motivi del proprio, prossimo, probabile linciaggio.

    Snebbiata da improvvisi timori, la mia mente si liberò svelta dei fumi del sonno. Ladri! Nel mio quartiere erano ormai frequenti i casi di appartamenti svaligiati; forse un qualche bel prototipo di delinquente, di quelli con il naso schiacciato tra gli zigomi deformi e la mascella sporgente, gli occhi infossati e porcini, stava cercando di introdursi in casa mia. L’illuso, però, ignorava la presenza di quel fedele ed indomito difensore della pace domestica che, pur d’avvisarmi del pericolo incombente, stava abbattendo ogni barriera legale di diffusione sonora nelle zone abitate.

    Mai m’era capitato di dover affrontare un simile contingente pericolo nel corso della mia esistenza e la paura, avvinghiata alla spina dorsale, sembrava volermelo ricordare a tutti i costi. Afferrai una stampella, ricordo di trascorsi da sportivo mancato, e trascinai le gambe tremule ed esitanti verso la cucina, sede del putiferio che mi aveva risvegliato poco prima. Il buio in cui mi muovevo era a malapena scalfito dalla debole illuminazione stradale, incapace di scavalcare le finestre, figuriamoci di rischiarare i miei passi.

    Acquattato contro il muro, stringendo forte tra le mani l’arma impropria a cui mi aggrappavo, presi alcune lente ma profonde boccate d’ossigeno , surrogato del coraggio di cui ancora non scorgevo traccia. Il chiasso proseguiva, incessante, arricchendosi di nuovi clangori metallici, ma nessun segnale lasciava trasparire indizi sulla natura dell’intruso .

    Stufo di contemplare il tremolio delle mie ginocchia, decisi di entrare in azione. Con un balzo cieco, più a causa degli occhi serrati dalla paura che del buio, mi lanciai all’interno della cucina urlando come un ossesso. Avevo appena messo piede sul pavimento di cotto del locale, che istantaneamente sentii il mio corpo volteggiare per un lungo secondo a mezz’aria, e ricadere poi pesantemente al suolo tra i guaiti del malcapitato trovatosi suo malgrado a farmi da rete di salvataggio.

    Intontito e disorientato, ormai privo della stampella finita chissà dove, provai dolorosamente a rimettermi in piedi braccando con lo sguardo un nemico che ancora non riuscivo a vedere: un po’ una costante, questa, nella mia vita. Ma non cambiamo discorso.

    Togliendomi di dosso la passatoia in fibre di cocco su cui ero scivolato finendo con l’aggrovigliarmela agli arti, mi guardai attorno. Solo, ero completamente solo. A parte Yuk, naturalmente, che di sotto il tavolo mi guardava sfoggiando il suo miglior sorriso canino. Teneva ancora una zampa nella ciotola d’acciaio in cui era uso consumare la colazione, incurante di quanto ciò provasse la sua totale colpevolezza riguardo ai fatti sin lì avvenuti. Avrei dovuto punirlo severamente, invece dopo pochi istanti passati a fissarci negli occhi, lo chiamai a me ed insieme attendemmo l’alba dedicandoci al nostro passatempo casalingo preferito: sgranocchiare dolcetti per cani al cioccolato, comodamente adagiati sul divano a guardare la televisione.

    Aver iniziato con questo episodio la mia terapia di autoanalisi non è casuale. Rimuginando intorno alla radice dei miei problemi, la mente è subito corsa ad un episodio felice capace, nella sua grottesca sostanza, di rappresentare l’immagine del periodo che considero il più sereno e libero dei miei anni su questa terra. Saltando a piè pari un’infanzia normale ed un’adolescenza di sogni e propositi comuni a qualsiasi ragazzo, si giunge ai giorni in cui la mia malattia ebbe origine; se inizialmente potevo essere definito ‘un caso clinico tipico’, gli eventi di cui fui vittima in seguito compromisero la situazione, proprio quando la fortuna sembrava aver allungato un dito nella mia direzione. A questo punto, credo sia meglio proseguire ripartendo dall’unico momento che può servire a riassumere l’intera situazione: era il ventuno marzo di due anni fa.

    Sembrava un tranquillo sabato mattino, il primo di riposo da parecchi mesi. Gustavo placidamente la prima sigaretta della giornata, gli occhi e la bocca ancora impastati dagli ultimi residui della notte appena trascorsa, lasciando che i miei pensieri seguissero oziosamente gli sbuffi e le spire di fumo che con ostentata lentezza salivano in larghe volute verso il soffitto, ormai ingiallito, della mia camera da letto. Certamente avrei dovuto fare qualcosa per quella situazione, non potevo andare avanti in quel modo, senza neppure abbozzare una reazione. Probabilmente con un paio di mani di bianco avrei risolto il problema in poche ore, anche se ero ben conscio del fatto che sarebbe stato meglio smettere di fumare, considerato soprattutto il costo di sigarette ed imbianchini al giorno d’oggi. In realtà stavo solo provando ad ironizzare riguardo a quello che era il problema reale: la situazione di disagio personale in cui m’ero trovato a vivere, non certo quella di degrado del soffitto. A ventisei anni avevo risolto ogni mio problema economico, grazie al lavoro di mediatore presso una’ agenzia immobiliare specializzata nella vendita di abitazioni di prestigio. Sfruttando la spigliatezza di cui la natura mi aveva dotato ed il diploma di geometra con cui m’avevano cacciato dalla scuola superiore, in breve avevo accumulato un ragguardevole conto in banca ed un’abitazione consona alle mie necessità. A qualcosa, però, avevo dovuto rinunciare. Mediare vendite in cui gli zeri fanno un allegro trenino, significa rendersi disponibili a qualsiasi ora del giorno e della notte, pronti a tutto pur di portare a termine l’affare. In sintesi, non avevo più tempo per coltivare la mia vita sociale e spesso neppure ne avevo voglia. Non dovevo affannarmi neppure a cercare compagnia femminile, mi bastava condividere quella che procuravo ai clienti. Dopo pochi anni, però, quei ritmi iniziarono a portare a galla i primi sintomi della malattia: inappetenza sempre più frequente, incubi, pensieri macabri sempre più intensi e focalizzati, fino a vere e proprie crisi d’ansia .

    Giusto una di quelle crisi sopraggiunse la mattina di cui avevo iniziato a parlare. Non ricordo quale fu la causa scatenante, probabilmente un pensiero futile ma , in qualche modo ricollegabile al concetto di morte. Poi, forte ed ineluttabile, ebbe inizio. Agitazione, irrequietezza, le mani iniziano a sudare, vampate d’improvviso calore alternate a brividi capaci di scuoterti da capo a piedi come un bambolotto di pezza, il cuore accelera e batte, batte nello stomaco, nella testa negli occhi umidi e dilatati mentre la pelle si accappona all’inverosimile e nella testa turbina, sbatte ribolle esplode quell’unico pensiero: vuoto morte buio morte annullamento totale dell’io io non esisto più morto e sciolto. Le mie dita erano ancora serrate intorno a lembi di lenzuolo, in un annaspante gesto di dolore, quando venni richiamato alla realtà dall’impertinente e continuato trillo del campanello. Fradicio del mio sudore e con gli occhi ancora spalancati e pesti, sforzandomi di scacciare quella sensazione d’impotenza che segue ogni crisi, quasi ne fosse il retrogusto, andai controvoglia ad aprire la porta. Dinanzi alle mie pupille si estendeva in ogni direzione il largo, infinito torace di un postino alto ben più d’un metro e novanta, con lo sguardo, unica cosa visibile del suo volto dalla mia posizione, trucemente fisso su di me.

    Lei è il signor Marco Galidi? Ho qui due colli da recapitarle. Firmi la ricevuta e sono suoi. Non lì, qui in basso. Perfetto, la ringrazio. Arrivederci.

    Le ultime parole mi giunsero come un tutt’uno, quindi lo vidi girare velocemente sui tacchi ed allontanarsi con aria non propriamente allegra. A quanto pareva non ero l’unico ad essersi svegliato male quella mattina. Non me ne felicitai più di tanto, dopodiché portai i due pacchi dentro casa, controllando chi fosse il mittente. Trovai scritto in un angolo il nome di tal Kay Koshrow, con tutta probabilità residente nella città di Halabja; indicazioni riguardo al paese da cui i pacchi erano stati spediti, impossibile trovarne. Inutile dire che non avevo mai sentito nominare né il nome, uomo o donna che fosse, né il posto. Ricontrollai così che fossi proprio io il destinatario e, una volta messami a posto la coscienza, iniziai ad esaminare ed aprire le due scatole; una era di dimensioni piuttosto contenute: l’altra, una cassa di legno grezzo forata in più punti, avrebbe potuto contenere comodamente un pianoforte verticale, pur essendo curiosamente leggera. Mi dedicai immediatamente all’apertura della cassa più grossa che tanto mi incuriosiva. Afferrai dallo stipetto in cui tenevo gli attrezzi un robusto cacciavite ed il martello, quindi mi misi all’opera . Non appena riuscii a schiodare il coperchio, vidi gli occhi curiosi di un meraviglioso cucciolo di levriero persiano che mi scrutavano dal fondo della cassa. Un cane! Non riuscivo a focalizzare la situazione; perché un perfetto estraneo avrebbe dovuto regalarmi un cucciolo così raro e di tale valore, facendomelo recapitare, oltretutto, da un luogo che neppure sapevo in quale continente si trovasse. Accantonai le domande cui nessuno pareva poter rispondere per dare libero sfogo alla mia cinofilia repressa. Versai del latte in un’insalatiera di gusto vagamente sudamericano e la offrii al mio piccolo ospite, visibilmente soddisfatto di quel gesto. Lasciai che continuasse a lappare tranquillamente la sua colazione e tornai sui miei passi per controllare il contenuto del secondo pacco, nel quale speravo di trovare una qualche spiegazione. Speranza vana. La scatola conteneva solamente un biglietto sul quale era scritta un’unica frase,Si chiama Yuk, ed un libro, certamente antico, dalla copertina in cuoio indurito ed intagliato con motivi floreali, arricchita da borchie e finiture d’argento sbalzate e cesellate. Certamente il particolare che più attirò la mia attenzione fu l’intarsio centrale, anch’esso d’argento, a forma di stella a tredici punte. Sfogliando delicatamente le pagine scoprii miniature di ispirazione fantastica, mostruosa e sensuale. Il testo era scritto in un idioma a me totalmente sconosciuto, ma di evidente origine orientale. Ciò che più mi stupì furono le sensazioni che quella grafia per me senza senso riusciva ad evocare. Dicono che nel nostro patrimonio genetico sia insita una memoria atavica, in grado di risvegliarsi all’improvviso per suscitare in noi particolari sentimenti e sensazioni. Avevo sempre considerato simili teorie eccessivamente surreali e lovecraftiane per essere meritevoli di una seria e scientifica considerazione, eppure in quel momento non riuscivo a trovare altre spiegazioni per giustificare la ressa di emozioni che si accavallavano dentro di me; rabbia, disagio, paura ed impazienza si susseguivano turbinosamente, graffiando e strapazzandomi le viscere.

    Senza alcun motivo chiamai a me il cucciolo, quasi fosse un gesto quotidianamente ripetuto da sempre: Yuk, vieni qui. e lui, come se capisse le mie parole, subito arrivò trotterellando. Appoggiai il libro sul tavolino che solitamente utilizzavo da dimenticatoio e, sedutomi in terra, iniziai a coccolare il cane, vezzeggiandolo in ogni modo. Volevo tenerlo con me, conscio di quanto quella decisione avrebbe significato in termini di difficoltà e sacrifici, ma decisi che in un modo o nell’altro sarei comunque riuscito a coniugare il lavoro con i tempi necessari ad accudire un animale domestico. Forse, un cane di tale prestigio avrebbe potuto addirittura tornare utile e fare colpo su clienti appassionati d’animali. Per me ebbe inizio da quel momento un periodo di grande serenità, oltre che un regresso professionale né graduale, né reversibile che in breve mi avrebbe portato sull’orlo del licenziamento. Ma non avrebbe potuto importarmene di meno.

    Vivevo felice con Yuk, sbrigando solo qualche affare di poco conto e passando la maggior parte del tempo gironzolando con il mio compagno per i viali del parco adiacente la mia abitazione: Non mi ero più chiesto chi fosse Kay Koshrow. Semplicemente, di tanto in tanto rivolgevo verso quello sconosciuto un pensiero di ringraziamento per aver scelto me quale tutore di quel fagotto dagli occhi vivaci capace di cambiarmi in meglio. D’altronde, avrei dovuto sapere che nessuno ti dà niente per niente, soprattutto quando si parla di felicità. Ma i fatti che mi condussero oltre la paura, oltre il terrore, fin dentro quello stato d’essere che ora, con piena cognizione di causa, posso definire lucida, attiva incoscienza e di cui, ancor oggi devo subire...basta."

    Marco, dove diavolo ti sei cacciato? Sono quasi due settimane che sei partito ed io non faccio che ripensare a quel Basta finale scritto in fondo ad un foglio sulla tua scrivania. Ero convinto che le terapie a cui ti stavo sottoponendo stessero sortendo l’effetto desiderato. I miglioramenti erano ormai palpabili; insieme alla demagogica ironia di cui avevi fatto il tuo vessillo, stava tornando a galla quello che amavi definire il tuo personalissimo sense of humor. Credevo di aver fermato il fenomeno di involuzione caratteriale in cui ti eri intubato. Mettendo per iscritto tutto quanto avresti dovuto fare il passo finale verso la più completa guarigione ed invece hai ricominciato ad autocommiserarti. Accidenti a te, sei il più ostico testone che io abbia mai avuto la disgrazia di curare. In fondo sei stato tu a coinvolgermi in questa storia, quello con i nervi scossi dovrei essere io. In questo momento dovrei starmene sdraiato al sole dei tropici in perpetua vacanza, ed invece eccomi qui, a guardare i tuoi calzini come al solito adagiati su quel che resta di un divano Luigi XV e ad arrovellarmi il cervello per cercare di capire che fine hai fatto. Probabilmente ho sbagliato a pensare che affrontando i ricordi da solo saresti riuscito ad essere più obiettivo. Avrei dovuto presentarmi alla tua porta con un paio di bottiglie di quel vino che tanto ti piace sorseggiare nelle sere di noia e di riposo, per rievocare insieme gli incredibili fatti che abbiamo vissuto, a cominciare dall’uggioso ed umido giorno in cui c’incontrammo per la prima volta.

    Da quando abitavo a Milano non avevo più fatto una passeggiata tra i viali di un parco cittadino, nonostante ne avessi uno praticamente sotto casa. Quel sabato pomeriggio avevo deciso di sgranchirmi un po’ le gambe, tanto più che l’autunno era -ed è ancora- la mia stagione preferita per questo genere di cose. Non che io sia un malinconico amante delle foglie che ingialliscono e cadono pigramente. Il fatto è che per mia disgrazia, ho sempre avuto il pessimo vizio di sognare ad occhi aperti, occupazione questa che richiede la totale assenza di bambini fracassoni ed improvvisati atleti della domenica, caratteristici delle giornate primaverili ed estive. In fondo devo ammettere che non ho mai amato molto i miei simili, così egoisti ed autodistruttivi, tanto lontani dal mio fantasticare di premi Nobel e ricerche che avrebbero rivoluzionato il modo di intendere la psicologia moderna. Così rimuginavo, attraversando un prato costellato di pozze fangose più o meno piccole, a proposito di quanto, nella realtà, gli animali siano migliori degli uomini, come, ad esempio, quel cane che correva, scodinzolante, rapido e libero come l’aria, nella mia direzione. Troppo rapido, troppo libero. Sapevo di avere un certo feeling con gli animali, ma mai e poi mai avrei sospettato di poter risultare così simpatico da attirare una tanto repentina e sfrenata reazione. Rimasi immobile, letteralmente impietrito quando l’orecchiuto quadrupede mi si catapultò addosso leccandomi e scaraventandomi giusto nel mezzo di una di quelle buche melmose sopra citate -che ora mi sembravano molto meno quiete e inoffensive- con una precisione che rasentava il calcolo premeditato. Preso alla sprovvista ed intontito dai fulminei e vorticosi colpi di quella lingua tutt’altro che fragrante e profumata, non riuscii a comprendere le prime parole dell’uomo avvicinatosi nel frattempo. A fatica frenava le risa per quella che doveva essere apparsa una scena alquanto comica e, contemporaneamente, mulinava frasi di scuse e di mortificazione.

    ...non so veramente come scusarmi. Yuk è sempre stato vivace, ma non è mai arrivato a simili atti di terrorismo.

    A quest’ultima frase, evidentemente compiaciuto del suo stesso umorismo, il giovane scoppiò in una fragorosa risata, alla quale, devo ammettere, mi sarei unito anch’io. Se nella mia situazione si fosse trovato un altro.

    Mi perdoni, ma è stata una scena troppo divertente. Avrei voluto che potesse vedere la sua espressione mentre cadeva. Comunque, non si preoccupi. Abito qui vicino e, se lo desidera, la mia doccia è a sua disposizione.

    Accetto le scuse e la disponibilità, ma rimangono due problemi fondamentali: non ho un cambio di abiti puliti qui con me ed il suo cane è ancora seduto sul mio stomaco.

    Entrambi i problemi sono risolvibili. Forza, Yuk, spostati.

    Fortunatamente il cane obbedì all’istante, anche se a malincuore.

    Lei ha più o meno la mia stessa corporatura, quindi se ha fretta può lavarsi ed indossare qualcosa che potrà scegliere personalmente dal mio guardaroba. Altrimenti potremmo avvalerci della tintoria che sta giusto di fianco al mio portone; fanno il lavoro in un’ora e stirano meravigliosamente le camicie. A mie spese, è naturale. Noi, nel frattempo, se ha voglia potremmo scambiare quattro chiacchiere.

    Volentieri, vivo a Milano da cinque mesi ed ancora non conosco nessuno. Piacere, Luc Amiez.

    Piacere mio, Marco Galidi.

    Ci incamminammo.

    Effettivamente Marco abitava molto vicino al punto in cui ci eravamo, per così dire, incontrati. Mantenendo un’andatura sufficientemente sostenuta da permettermi di non soffrire troppo dei vestiti zuppi d’acqua, arrivammo in poco più di due minuti. Lungo il tragitto non avevamo scambiato che poche frasi, lui scusandosi ancora per l’accaduto, io rassicurandolo con gli usuali: Si figuri, cose che capitano. Quando aprì la porta del suo appartamento rimasi letteralmente atterrito di fronte all’orrida praticità ed al disordine dell’inconfondibile casa di single; monumentali pile di indumenti accatastate con tale maestria da far arrossire di rabbia Cheope in persona, imponenti torrioni di giornali ingialliti, sconfinate lande di bottiglie di acqua minerale ornate di spessi svolazzi di polvere. Non voglio neppure ricordare le drammatiche immagini della cucina, dalla quale stoviglie imbrattate di chissà quale immondo intruglio cercavano di fuggire per evitare una prossima contaminazione batteriologica. Informatomi dove fosse il bagno, mi diressi indugiando verso quella doccia che solo pochi attimi prima era sembrata tanto allettante e che ora, chissà perché, aveva perso gran parte del suo fascino. Aprii la porta con gli occhi quasi chiusi, temendo il peggio; scoprii invece che almeno quel locale era in perfetto stato.

    Quando si è bagnati da capo a piedi, torturati da quantitativi ingenti di fango penetrati fin nella biancheria, potersi lavare non è solo una necessità, ma un vero piacere fisico. Rimasi parecchio a crogiolarmi sotto il carezzevole tocco della tiepida acqua corrente, per lo meno mezz’ora. Non ho mai capito le persone che si accontentano di una doccia rapida di pochi minuti. Uscii dal bagno indossando un morbido accappatoio multicolore e trovai Marco che mi aspettava giocando con Yuk sul divano. Il mio ospite doveva essersi dato parecchio da fare mentre mi raschiavo di dosso quella fetida melma; ora almeno il salotto aveva acquistato un aspetto abitabile, pur rimanendo ammobiliato senza alcun criterio. Mi fece cenno di sedermi in un’ampia e variopinta poltrona che, se non altro, trovai molto comoda; mi porse un bicchiere di brandy dal sapore caldo ed accomodante. Solo allora iniziò a parlare.

    Pare proprio che oggi io non finisca mai di dovermi scusare con lei: prima il mio cane l’aggredisce senza motivo, poi la invito in questa che solo con molto ottimismo si può definire casa.

    Accompagnò queste parole con un sorriso ed un ampio gesto del braccio, quasi a voler indicare contemporaneamente ogni angolo dell’appartamento.

    Credo che si sia fatto una pessima idea del sottoscritto. Mi spiacerebbe molto se fosse così, perché lei suscita in me grande simpatia.

    Innanzitutto gradirei che ci dessimo del tu. Quando qualcuno mi invita ad usare la sua doccia non può certo aspettarsi che io possa rimanere sul formale.

    Dai cenni di assenso capii che Marco era d’accordo con me.

    Per quanto riguarda l’incidente di prima, se fossi in te non ci penserei più, In fondo è stata l’aggressione più affettuosa che io abbia mai visto. Dimmi qualcosa di te, piuttosto.

    C’è ben poco da dire. Sono un geometra che non ha trovato di meglio che lavorare in un’agenzia immobiliare. Sono stufo del mio lavoro e vivo solo con il mio compare, che credo tu ormai conosca. Piuttosto, cosa ci fa un francese dall’accento italiano quasi perfetto a spasso tutto solo per il parco?

    Sono arrivato in Italia in primavera, lavoro come analista in una clinica psichiatrica privata, ufficialmente una casa di riposo per gente molto stressata ... e molto ricca. Prima vivevo e lavoravo a Bordeaux. Poi, un giorno, arrivò una lettera con cui mi proponevano questo impiego. Mi offrivano un cospicuo stipendio, più tempo libero ed un appartamento ampio ed accogliente. Quella che si dice l’occasione della vita. Avevo anche la fortuna di non dover imparare la lingua: mio nonno era italiano e ci teneva che i suoi discendenti mantenessero questo legame con la sua terra d’origine. Purtroppo, però, da quando sono qui non mi è riuscito di socializzare con nessuno. Tu sei la prima persona che mi invita a casa sua.

    Non riesco a capire il perché, sembri aperti, affidabile, disponibile alla conversazione, non dovresti faticare a stringere amicizie.

    In realtà, neppure in Francia avevo molti amici, ho sempre preferito stare da solo piuttosto che con persone di cui non potevo fidarmi pienamente. Comunque devo ammettere che in questi mesi non ho avuto neppure il tempo di conoscere qualcuno. Sono un appassionato di lingue asiatiche antiche ed ho dedicato ogni minuto del mio tempo libero allo studio. Avrei voluto che la mia passione diventasse anche il mezzo per procurarmi da vivere, ma mia madre ha voluto a tutti i costi che studiassi medicina, così mi sono buttato sulla branca a me più congeniale, la psichiatria.

    Improvvisamente il volto di Marco sbiancò e faticò a trattenere un brivido. Si alzò per prendere un libro, poggiato su un tavolino che prima neppure avevo notato, sotterrato com’era da una pila di cartacce, quindi mi si avvicinò, esitante.

    Saresti in grado di tradurlo?

    E’ scritto in kurdo. Con l’aiuto di un paio di testi specifici dovrei riuscire senza grossi problemi. Ma dove l’hai trovato? Un pezzo di questo valore l’avevo visto solo in un museo, ben protetto da vetri infrangibili e sistemi d’allarme.

    Iniziai a far correre le pagine cercando di comprendere per lo meno qualche frase che mi fornisse indicazioni utili ad identificare la natura del manoscritto. intanto Marco, sempre più evidentemente turbato, attaccò incerto a parlare, rispondendo alla mia domanda:

    Me l’hanno consegnato una mattina, insieme a Yuk; era il mattino del 21 marzo, ero a letto quando ho sentito suonare il campanello, così ...

    Che curioso, il 21 marzo è il capodanno kurdo, credi si tratti di una coincidenza oppure ..?

    Parlando alzai la testa e notai, con mia grande sorpresa, che Marco non era più seduto al suo posto. Provai a chiamarlo, ma, come unica risposta, mi giunse il rantolo inconfondibile di un uomo in preda a forti conati di vomito. Corsi in bagno. Tutti i sogni di gloria in campo archeologico che avevo fino a quel momento caldamente coccolato, si dissolsero di fronte alla vista di quel che rimaneva del suo pranzo, flaccido e disarticolato, sul fondo della vasca da bagno. In quella situazione l’istinto del medico non poteva non venir fuori.

    Indigestione, intossicamento o reazione psicosomatica? gli chiesi aiutandolo ad appoggiarsi al lavandino. Mentre si sciacquava la bocca sollevò nella mia direzione tre dita.

    Allora posso aiutarti, in qualche modo. gli risposi; interpretai immediatamente il cenno della sua testa come un riconoscente assenso.

    Un quarto d’ora dopo ci trovammo seduti al tavolo della cucina, fra noi due bicchieri ed una caraffa di spremuta di limone, oltre al gelido, tumido, immancabile naso di Yuk. Avevo premeditatamente lasciato il manoscritto nell’altra stanza, visto che pareva, in un modo o nell’altro, coinvolto in ciò che era successo. Provai a sviarlo da eventuali pensieri molesti.

    Bevi sempre succo di limone dopo aver vomitato? Dovrebbe peggiorare la situazione.

    Una volta un tale mi ha detto che per i problemi di stomaco non c’è niente di meglio; se qualcosa deve ancora tornar su, le facilita il cammino, altrimenti permette che tutto resti dov’é.

    Il metodo è poco scientifico, ma se raggiungi il risultato sperato non sarò certo io a cercare di convincerti del contrario. Ora, però, voglio sapere tutto ciò che non mi hai detto prima.

    Rovesciò per un attimo la testa all’indietro, poi, guardandomi negli occhi, iniziò a parlare:

    Stavo attraversando un periodo di forte depressione quando piombarono in casa.

    Si interruppe.

    Chi ti piombò in casa?

    Yuk e il libro. Era la storia che stavo raccontando quando mi sono sentito male.

    Sapresti spiegarmi cosa c’era alla radice della tua depressione?

    Credo sia dovuta al fatto che ho sempre avuto poca stima di me stesso ed il lavoro che faccio certo non mi aiuta ad averne di più. Stare con Yuk mi ha giovato molto; credo che esistano degli studi sugli effetti rilassanti ed antidepressivi della convivenza con gli animali. Effettivamente, ripensandoci, negli ultimi mesi gli unici momenti di crisi sono stati quando quel dannato manoscritto mi è capitato fra le mani; non più di tre volte in sette mesi, ma ad ognuna è corrisposta una crisi breve ed intensa.

    Cosa intendi effettivamente per crisi?

    Riacutizzarsi dello stato depressivo, nausea, sensazione di paura ed inadeguatezza alla situazione.

    Stai parlando della tua attuale situazione, della tua vita.

    No.

    Allora cosa volevi dire?

    Non lo so.

    Nuovamente Marco impallidì.

    Va bene, non pensarci. Piuttosto finisci di raccontarmi del 21 marzo e poi cerca di ricordare qualcuno dei momenti in cui maggiormente hai tratto beneficio dalla presenza di un cane nella tua vita.

    Marco finì, non senza sforzo, il racconto interrotto precedentemente, dopodiché passò all’argomento che ero certo lo avrebbe tranquillizzato. Naturalmente non gli dissi che la città di Halabja era stata distrutta nel marzo del 1988, così come non accennai al fatto che Kay Koshrow, il misterioso mittente, era in realtà un eroico re della mitologia kurda. Non era certo quello il momento migliore per dirgli che chiunque fosse il mittente, pareva solo non voler essere rintracciato.

    Per quanto riguarda il mio lavoro di psicoterapeuta, si presentava più semplice del previsto; solitamente le maggiori difficoltà stanno nel rintracciare il nodo all’origine del problema e, poi, aiutare il paziente a riconoscerlo come tale. Marco, invece, tutto questo era già riuscito a farlo da solo, avrei dovuto solo aiutarlo a convivere con le sue paure, per lo meno fino a quando non fossi riuscito a capire perché la presenza di un libro, anche se comparso in modo certamente misterioso, portava al riacutizzarsi di un disturbo precedente. Considerato poi che la sua comparsa aveva coinciso con quella di Yuk, al contrario, avrebbe dovuto essere la soluzione di ogni problema; non dovevo far altro che indurre Marco ad accettare l’esistenza del manoscritto, tanto più che esso non poteva in alcun modo rappresentare un pericolo per la sua persona. Mi sentivo a cavallo. Non dovevo far altro che tradurre il testo e farglielo leggere poco alla volta. senza traumi improvvisi: avrei potuto dilettarmi con la mia grande passione ed aiutare colui che si presentava con tutte le credenziali per essere il mio nuovo - ed unico - amico, tutto in un sol colpo. Solo ora mi rendo conto che in quel momento, quando ormai avevo 27 anni, mi ero illuso come un adolescente che tutti i problemi si potessero risolvere con il minimo sforzo e nel migliore dei modi. In seguito fu ricordando quel momento che imparai a non sottovalutare mai nessuna situazione. E che finché si vive non si smette mai di apprendere.

    Tornai a casa portando con me il manoscritto. Avevo promesso a Marco che l’avrei tradotto il più velocemente possibile, iniziando quella sera stessa, in maniera da dargli i primi ragguagli in proposito l’indomani pomeriggio, quando, avevamo deciso, ci saremmo incontrati. Fortunatamente non abitavamo distante l’uno dall’altro; ero impaziente di iniziare a tradurre quella meraviglia. Dalla prima veloce analisi avevo tratto qualche conclusione: ipotizzavo si trattasse di un libro di favole tradizionali kurde, mescolate con racconti di altre etnie arrivati all’autore chissà come, in un’epoca che non ero ancora riuscito a definire con precisione. Supponevo potesse trattarsi addirittura di un’opera pre-islamica. Probabilmente avevo fra le mani un documento storico unico nel suo genere. Certamente, se non fosse stato alla base della terapia cui avevo intenzione di sottoporre Marco, l’avrei consegnato immediatamente alle autorità competenti; ma stando così le cose, nessuno avrebbe potuto impedirmi di studiare, personalmente e per primo, quel gioiello della letteratura.

    Appena giunsi a casa ordinai telefonicamente una pizza e preparai un grosso bricco di caffè. Ero fermamente deciso a mettermi al lavoro il più presto possibile, riducendo al minimo le pause. Inizialmente avevo addirittura pensato di cenare continuando il mio lavoro. Successivamente però, con non poco rammarico, decisi che mi sarei dovuto fermare per evitare di sporcare una di quelle preziose pagine. Tolsi dalla scrivania tutto ciò che non mi serviva, sistemando il libro al centro del cono di luce proiettato dalla lampada da tavolo. Mi ero armato di testi di consultazione, fogli, gomma e matite. Iniziai a lavorare e tradussi frase dopo frase finché non venni interrotto dal trillo del campanello. Come era immaginabile divorai la pizza senza alcun riguardo per il mio apparato digerente e ripresi immediatamente la traduzione. Il mio era un lavoro da svolgere a mente perfettamente lucida, e sentivo di non poter contare su più di sei, sette ore prima di risentire eccessivamente della fatica.

    Andai a letto quando ormai erano quasi le quattro del mattino. Ero molto stanco, ma sapevo che avrei faticato ad addormentarmi. Ciò che avevo scoperto fino a quel punto cambiava radicalmente i miei piani. L’autenticità del libro era l’unica certezza rimastami. Un destino dispettoso e burlone aveva fatto si che lasciassi la terra in cui ero nato e cresciuto per trovarmi, un giorno, in condizione di incontrare il possessore di un manoscritto di cui perfino i più preparati fra gli studiosi negavano l’esistenza. Questo testo era relegato fra le leggende di un tempo passato che a noi è dato solo di intravedere fra scheletrici tendaggi di rovine e smozzicati documenti non sempre di sicura attendibilità. A me, invece, che solo per un fortuito caso - un breve accenno nella riproduzione di un documento d’epoca - ne ero venuto a conoscenza, era capitata la fortuna di avere tra le mani l’unica copia mai esistita dei manoscritti di Ahrik El Gahaly il Visionario. L’incredibile quanto inequivocabile senso delle parole che via via trascrivevo fece saltare a gambe per aria il progetto terapeutico studiato per Marco. Ormai metterlo al corrente, poco per volta, di brevi stralci di traduzione, avrebbe significato avviarlo ad un lento ed inevitabile declino psichico. Non avrei d’altronde potuto tenerlo all’oscuro di nulla, ora che era scattata in lui la molla di quella riluttante curiosità. Avevo un’unica possibilità per salvare la sua sanità mentale e con essa, come avrei scoperto in seguito, la mia vita: metterlo brutalmente di fronte alla cruda realtà dei fatti, in modo da creare in lui uno shock tale da superare, speravo, in un sol colpo la crisi di cui era vittima inconsapevole. L’idea di dover usare una tecnica tanto pericolosa e con così scarse possibilità di successo non mi fece chiudere occhio quella notte.

    Avevamo stabilito d’incontrarci a casa di Marco per le quattro del pomeriggio; arrivai di fronte al portone alle tre. Nella voluminosa borsa di pelle che avevo portato con me, avevo riposto il manoscritto, la mia traduzione, i testi che mi supportavano in questo lavoro ed una buona scorta di antiemetici. Cinque minuti di vani tentativi attaccato al tasto del citofono, furono sufficienti a convincermi che non era in casa. Convinto dell’inutilità di tornarmene a casa mia e ripassare successivamente, rimasi ad aspettarlo lì dove mi trovavo, appoggiato ad un lampione. La mia perseveranza venne presto ripagata; dopo non più di cinque minuti vidi arrivare Marco, con Yuk al guinzaglio.

    Ciao Luc, questo stile post-comunità per tossicodipendenti ti dona. La domenica ti vesti sempre così, o forse più tardi devi andare ad una festa in maschera?

    Guardandomi, dovetti riconoscere che non aveva tutti i torti; indossavo ancora i calzoni del giorno precedente, gli stessi che avevo tralasciato di togliere quando mi ero vanamente buttato sul letto, abbinati ad un vecchio maglione rosso, abbondantemente infeltrito, che abitualmente usavo per i lavori domestici ed un impermeabile sdrucito da gloriosi anni di fedele servizio. Unii agli abiti un volto non rasato segnato da una notte insonne e, involontariamente, sorrisi alle osservazioni di Marco.

    No. Ho solo passato una notte in bianco.

    Saliamo. Il mio famoso Irish Coffee ti rimetterà in sesto. Piuttosto, non dovevamo incontrarci fra circa un’ora? Te l’avevo detto che prima delle quattro è difficile trovarmi in casa. Oggi sei stato fortunato.

    Scommetto che sei tornato prima nella speranza che arrivassi in anticipo.

    A dire il vero è stato Yuk a voler tornare prima dal parco. Si comporta in modo strano, comincio a temere che stia male.

    Il parco è vicino, forse ha sentito il mio odore.

    Forse, lo spero.

    Appena entrati in casa, mi diressi immediatamente verso la cucina dalla quale, notai con approvazione, erano spariti i piatti sudici che avevo visto il giorno precedente. Mi sedetti vicino al tavolo, e repentinamente lo riempii con il contenuto della borsa, mentre Marco preparava da bere per entrambi.

    A guardarti in faccia si direbbe che tu abbia lavorato tutta la notte. Sei arrivato a capo di qualcosa?

    "Prima di parlarne mastica una di queste - dissi porgendogli la prima

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