Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Cronache dal Futuro: Nana Bianca
Cronache dal Futuro: Nana Bianca
Cronache dal Futuro: Nana Bianca
E-book488 pagine6 ore

Cronache dal Futuro: Nana Bianca

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In un futuro non molto lontano, l'Intelligenza Artificiale ha preso ormai il sopravvento e cerca sempre più energia per sopravvivere.
I pochi popoli rimasti sulla Terra martoriata da una guerra tra le Multinazionali e le Nazioni per il controllo dell'energia per alimentare l'IA, combatte in tutti i modi per non soccombere. VolaLibera è tra questi, all'apparenza una ragazza come tante, alla ricerca costante del suo posto nel mondo, non ricorda molto del suo passato, ma quando dovrà fare i conti con il misterioso rapimento di una persona assai importante per lei, non ci penserà due volte a sacrificare tutto ciò che ha, per cercare in tutti i modi di salvarla. 
Nel difficile viaggio che, potrebbe essere senza ritorno, il destino riserverà a VolaLibera, l'incontro con diversi particolari personaggi, che diventeranno ben presto preziosi alleati per la conquista della libertà e della verità sul proprio destino e su quello dell'umanità!

L'Autore:
Giovanni Guarino nasce a Taranto 53 anni fa. Nella sua personalità hanno da sempre convissuto l'amore per la letteratura e per la scienza. Ha imparato a leggere da solo molto presto e, nonostante gli studi scientifici, non ha mai abbandonato la lettura di romanzi italiani e stranieri di ogni tempo. Dopo gli studi informatici ha lavorato come libero professionista per grandi imprese ed agenzie internazionali in diversi campi dell'informatica, principalmente nella;Intelligenza Artificiale (Pirelli, Bridgestone, Marina Militare Italiana, Boeing, Canadian Space Agency, ESA Spazio, NASA, Getronix). I ruoli che ha ricoperto in passato erano principalmente l'analisi funzionale e la progettazione di sistemi informatici. Ha potuto lavorare nell'automazione industriale, per lo spazio, per lo sviluppo di Sistemi Esperti e Chatbot. Ha sviluppato diversi brevetti per sistemi di I.A. innovativi. Attualmente è l'Amministratore delegato e CTO della startup italiana Mental Imagery Srl, nonché fondatore e CTO della startup californiana Remoscope Inc..
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita25 mar 2021
ISBN9788833668376
Cronache dal Futuro: Nana Bianca

Correlato a Cronache dal Futuro

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Cronache dal Futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Cronache dal Futuro - Giovanni Guarino

    FUTURO

    Capitolo I

    Dai ricordi di VolaLibera

    Mamma! Mamma!

    Sento la mia voce gridare quelle parole in direzione di una donna che non conosco. Il suo sguardo è smarrito, terrorizzato. In realtà non riesco a scorgerne il viso, confuso nei suoi lineamenti. So, sento che è impaurita, sotto la coltre di un’espressione e un comportamento che si sforzano di essere contenuti.

    Tesoro, fa’ come ti dice! Non ti preoccupare, andrà tutto bene! mi risponde la donna. Sento il mio corpo allontanarsi da quella figura femminile. Avverto un dolore al braccio sinistro, una stretta simile ad un bracciale troppo stretto. Mi giro verso chi mi sta portando via, cercando con lo sguardo il suo viso. Anche di lui non riesco a scorgere il volto. Non lo so ricostruire, è un’accozzaglia di colori, come in un caleidoscopio di tratti umani. La mia attenzione è allora attirata dal suo vestito. È da uomo, di un bianco candido con riflessi che sembrano luccicare come quelli di un gioiello. Riconosco o semplicemente avverto che quella superficie satinata è attraversata da un motivo geometrico, tanti esagoni connessi l’uno all’altro, di un colore appena più scuro del bianco latte su cui si adagiano. È un motivo usato su alcuni tessuti pregiati. L’uomo si ferma e mi parla, ma sento solo un rimbombo di suoni informi, ovattati. Ad un tratto, quei rumori diventano visibili, smuovono la trama stessa della realtà, facendo vibrare l’aria tra me e quel viso evanescente. Noto che quel corpo è ora attraversato da un fremito, come se i sentimenti di quell’uomo fossero così potenti da non poter essere trasmessi solo in forma vocale. A quel fremito inizia a partecipare anche il mio corpo, come in preda ad un incontrollabile tremore, che rischia di farmi perdere il senno.

    Mi sveglio di soprassalto, madida di sudore, col cuore in gola. Come

    sempre, quando ho questi strani incubi. O forse sono tracce confuse di miei ricordi.

    Mi sono svegliata che è già tardo mattino. Chino il viso sulle mie mani, raccolte sopra le gambe. Cerco di normalizzare il mio respiro, e con esso i battiti del cuore. Avverto dei passi incerti sul brecciolino: qualcuno è di fronte all’ingresso del Rifugio degli Orfani. Mi dirigo verso l’uscio. Guardo da una delle diverse aperture nel muro prospiciente la porta, da cui noto due individui. Chiaramente sono giannizzeri dell’Èlite. Li riconosco, sono TestaFine e StillaDiNotte, due degli scagnozzi del Governatore. Il più anziano dei due porta con cura un oggetto tra le mani, come se fosse una reliquia. Il portamento controllato, lo sguardo sempre attento a dove mettere i piedi, i passi pesati, tutto il suo incedere è ragionato in funzione di quell’oggetto.

    Nel torrido vento di questa estate, credo che i due giannizzeri debbano soffocare, dentro la loro uniforme. Noto che si sono fermati a un passo dalla porta. Il più giovane, con le mani libere, bussa a pugno chiuso sulla porta cigolante. Un attimo dopo io l’ho aperta.

    È lei la signorina VolaLibera?

    Guardo TestaFine come se fosse un alieno. Non so se scoppiare a ridere, o essere contrariata.

    La prego, mi risponda aggiunge lui.

    Ma certo che sono io. Mi conosci bene!, rispondo con le mani sui fianchi, sotto l’architrave della porta.

    Il lavoro è lavoro puntualizza StillaDiNotte, chiudendo gli occhi come se volesse allontanare da sé l’idea di accettare un fraseggio con me più amichevole, meno compassato.

    Come da legge n. 1164 della Terra di Gerlo, essendo trascorsi 365 giorni dalla denuncia della scomparsa di LeoneSaggio …

    Non è scomparso. È stato rapito. lo interrompo ruvidamente. Lui mi guarda senza fiato. Poi prosegue.

    Come stavo dicendo, essendo trascorsi 365 giorni dalla scomparsa di LeoneSaggio, la legge considera suo padre deceduto. È dunque necessario che lei predisponga una sepoltura vuota ove lei, i suoi familiari ed amici, siete autorizzati a fargli visita e a piangerlo.

    Quelle parole mi entrano come frecce acuminate nel cuore. Come se un nemico ignoto e invisibile avesse saputo di una mia ferita al petto e avesse voluto infierirvi scoccando con perfida precisione minuscoli dardi avvelenati. Mio padre deceduto. Nel bagliore afoso del pieno giorno intravedo la sua figura stagliarsi a mezzaria, gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, su un banco bisunto abbozzato a mo’ di tavolo operatorio. Ferito a morte con chissà quale orrido rituale da prezzolati mercenari, dopo interminabili torture perpetrate per estorcergli segreti di cui non verrò mai a conoscenza. Non può essere, dico tra me, mentre freneticamente provo a spazzare via dalla mia mente quell’insulso teatrino, orchestrato da miei istinti profondi e dalle mie paure più colpevoli. Sono sempre stata cosciente dell’esistenza di un canale invisibile, una sorta di comunicazione extra-sensoriale che negli anni si è instaurata tra me e mio padre. Me ne resi conto prima ancora di averne conferma quando, in una sera di dicembre, lo vidi sparire con il suo piccolo natante, poco dopo aver annaspato tra i flutti vorticosi di una tempesta marina. Perfino diverse ore dopo ero certa che l’avrei rivisto ancora, sulla soglia di casa, zuppo come un biscotto dimenticato nel latte, ma pur vivo e vegeto. E così è anche questa volta. So che lo rivedrò ancora.

    Il funzionario del governatore deve aver finito la pazienza, perché lo vedo alzare le mani e, con quelle, la pietra squadrata che sorregge.

    È per lei, signorina LeoneSaggio. Può scegliere la terra libera, nella Landa, dove poggiare questa lapide grezza. Può scolpire le generalità e un commento su suo padre, se lo ritiene opportuno.

    Non la voglio, quella pietra. La sento estranea, non è per me.

    StillaDiNotte intuisce il mio rifiuto, che tuttavia non gli ho ancora esternato. Posa quel grosso sasso squadrato al lato dell’uscio, con la stessa cura e fermezza con cui una infermiera ripone il neonato nella culla.

    Può dire ora: ho ricevuto quanto il funzionario StillaDiNotte mi ha portato, conformemente alla legge n. 1164 della Terra di Gerlo? Nel frattempo, ha premuto un piccolo oggetto tecnologico nella tasca-pelle che si intravede sul suo polso sinistro.

    Ho un moto di impazienza. Conosco il vecchio StillaDiNotte, si farebbe crocifiggere pur di rispettare la legge del governatore. Ma mi riesce altrettanto difficile non mostrare stizza quando mi si chiede l’impossibile.

    Ma che, credi che io abbia una memoria da androide? rispondo senza voler sembrare sprezzante.

    D’accordo. Ripeta con me, allora…

    Il vecchio funzionario parte con la catechesi sulla frase da ripetere. La tagliuzza in maniera da farmela digerire un po' per volta. Io ripeto quella litania in pillole come fossi una bambina riottosa e indolente. Ma perfidamente analizzo il mio stesso operato. Non lo faccio per lui, per StillaDiNotte. Men che meno perché così vuole il governatore. Lo faccio per far piacere al padre della mia migliore amica. Il solo pensiero di metterla in difficoltà con il suo ‘papy’, mi fa venire l’orticaria.

    I due giannizzeri sembrano finalmente soddisfatti e si accomiatano. Mentre si allontanano, mi entra prepotentemente in mente un pensiero. Per un motivo che non mi spiego, prendo tra le mani la lapide abbozzata. Non è pesante. Forse già so cosa accadrà dopo. Può darsi che, inconsciamente, io lo stia persino facendo apposta. Dopo qualche istante, come immagini di un film girato in prima persona, si mettono in moto davanti agli occhi della mia mente i ricordi degli eventi dell’anno scorso. Eventi che non posso né voglio dimenticare.

    Come ogni volta che vi ritorno, i ricordi partono dal momento in cui, quella maledetta sera, stavamo per metterci a tavola. Lui ai fornelli, io a imbandire. Dalla finestra semiaperta del salone entrava un profondo profumo di glicine. Ricordo bene che mi sentivo felice, spensierata. Non avevamo molto, solo una casa intatta veleggiante sopra un mare di edifici in rovina tutt’intorno. Ma non era quello che mi rendeva felice, bensì ciò che non avevo più. Un punto fermo, monotono e tossico che sembrava ormai svanito dai miei pensieri, dai miei discorsi. Persino dai miei sogni. Quando però ci sedemmo a tavola, notai che mio padre era silenzioso. Aveva una espressione crucciata, il viso fermamente piazzato sulla pietanza davanti a lui. Non era la prima volta che lo scoprivo così assente, negli ultimi giorni. Non potei non chiedergli nuovamente cosa lo preoccupasse. Lui rimase per un po’ in silenzio, seguendo chissà quali pensieri mentre fissava i fumi della pietanza danzare davanti a sé. Mi annunciò che aspettava forestieri. Gente affatto benvenuta in casa nostra. Scelse attentamente le parole per non allarmarmi, quando mi disse che presto o tardi, essi sarebbero arrivati a lui. Presi nota dell’ennesima volta che a quella domanda mi rispondeva in modo criptico. Avevo provato più volte, in tutti i modi a estorcergli qualche minima notizia sul peso che si portava dentro, senza mai cavargli il più semplice e chiaro concetto. Quella sera, però, volevo continuare a sentirmi felice. Iniziai dunque a mangiare, silenziosa anch’io, fors’anche contrariata. Nello stesso momento in cui mio padre prese per la prima volta in mano il cucchiaio, un tonfo sordo ci fece trasalire. Fu come se mio padre si fosse svegliato in quel momento, di soprassalto. Si alzò dalla sedia e disse: Non c’è più tempo, ManoRapida! VolaLibera, la tua promessa! Come un burattino mosso da mani invisibili, una scura, rapida figura capovolta calò dal soffitto. Come un enorme ragno, era sorretta da un filo quasi invisibile legato alla trave centrale. Era vestita con una tunica stretta, nera come una notte senza luna e senza stelle, sormontata da un cappuccio nero anch’esso. Appena la figura fu a qualche spanna dalle nostre teste, l’aria fu riempita da un nuovo, sordo tonfo. In quel preciso istante, il muro dietro mio padre si sbriciolò, come fatto di biscotto. Lui si voltò verso i resti del muro, terrorizzato. L’uomo appeso sopra di noi roteò su se stesso e atterrò con i piedi sul tavolo, facendo cadere a terra mestolo e scodelle. Dalla grande breccia nel muro si affacciarono quattro energumeni. Notai subito che erano visi che non avevo mai conosciuto, prima d’allora. I lineamenti avevano in comune tratti estranei alle nostre zone, ma ciò che li rendeva ancora più simili tra loro erano le truci espressioni, contorte dai loro biechi propositi. L’uomo sul nostro tavolo si avventò su di loro, impavido.

    ManoRapida combatteva senza paura contro quei criminali. I suoi movimenti erano di una rapidità che ricorda quella dei felini, dalle movenze rapide e morbide ma ferali per i propri nemici. Falcidiò tre di quei figuri con la sua spada, con pochi movimenti del corpo. Ma non poté fermare le MorteFilanti. Tanto io quanto ManoRapida avvertimmo la loro presenza quando ormai era troppo tardi. Non ce li aspettavamo, da una cricca come quella. Quei minuscoli, micidiali oggetti volanti lo attaccarono da più parti. Molti caddero per terra, distrutti dalle sciabolate plastiche e precise dell’amico di mio padre. Due di loro, però, riuscirono a raggiungere i suoi indumenti. In pochi secondi, il nostro difensore prese a dimenarsi, a tremare e a gridare sommessamente. Era come se fosse stato punto da un ragno dal veleno mortale, o folgorato dalla corrente elettrica. Dopo pochi istanti, si afflosciò sul nudo pavimento, esanime.

    Uno ad uno, gli energumeni colpiti da ManoRapida si rialzarono. Ricordo che uno di loro aveva il braccio destro tagliato di netto, caduto per terra lontano dal corpo. Si mosse per prenderlo con l’altra mano. In pochi istanti, riuscì a montarlo nella sua posizione originale. Quel particolare dimostrò, se ce ne fosse stato bisogno, che avevamo di fronte dei Mescolati. Sono quasi tutti mercenari che un tempo vivevano nelle zone più povere. Dopo molte generazioni contaminate da grandi quantità di plastica ingerite col cibo, hanno sviluppato la capacità di accettare arti di plastica al posto dei propri, senza subire rigetto biologico.

    Essendo uno scienziato, mio padre non sa combattere. Non fece quindi resistenza. Alzò le mani subito dopo aver visto il proprio amico cadere. Quel turbinio di figure in combattimento mi avevano ubriacato di adrenalina. Mi sentivo come un’auto che sgomma fino a bruciare la frizione, ma non si muove dal proprio posto. Avevo giurato a mio padre che se fosse giunto quel momento, non mi sarei dovuta esporre. A qualsiasi costo. Per mio padre, i giuramenti valgono più delle vite, più della sua stessa vita. Per me fu il momento peggiore che io ricordi. Vedere mio padre strattonato e catturato, per poi sparire dietro i calcinacci assieme ai nostri nemici. Vedere il mio amico ManoRapida combattere e poi morire per mano di quei maledetti mercenari, senza che io avessi fatto nulla per evitarlo. In mezzo al combattimento, però, stavo per perdere del tutto il controllo di me stessa. Il mio cuore sembrava voler uscire fuori dal petto, mentre l’ira che ricolmava la mia mente e ogni cellula del corpo voleva diventare qualcosa di fisico, qualcosa di letale. In quel momento, mio padre fece un segno di negazione col capo, con una espressione che intuii volesse scongiurarmi di non intervenire. Mi disse poi VolaLibera... ricorda la tua promessa. Vivi la tua vita, non provare a cercarmi!. Fu come se quell’uomo avesse disinnescato un ordigno nucleare, giusto a un secondo o ancor meno dal momento della immensa deflagrazione. Mi sentii svuotata dentro, come un sacco vuoto. Ero un corpo senza comando, espropriato dalla volontà di reagire, in virtù di una promessa volutamente sterile e riparatrice.

    I Mescolati lo portarono via, scomparendo nella polvere dei muri sbriciolati. Ero rimasta sola. Sola, con il corpo di uno dei migliori amici di mio padre riverso sul pavimento. Quella tragica immagine è l’ultima di questo rigurgito di ricordi.

    Non so ancora perché i Mescolati non tentarono di uccidermi, o di portarmi via assieme a mio padre. Avrebbero dovuto farlo, penso, perché ora non avrò pace finché non riuscirò a ritrovarlo. So bene che promisi solennemente a mio padre di non cercare di salvarlo. Lui mi voleva al sicuro, lontano da ogni rischio. Ma ora sento che non posso più vivere senza sapere se sia ancora vivo. Nei giorni ventosi di questo inverno, avrei giurato di aver sentito la voce di ManoRapida entrare di prepotenza dai fori più piccoli dei muri del rifugio. Avvertivo una sola parola, lunga e ripetuta: perché. ManoRapida mi chiedeva perché non avessi ancora ceduto al desiderio di vendetta o di rivalsa. Non so cosa mi spaventasse di più, in quei momenti, lo scoprirmi finalmente pronta a contravvenire alla mia solenne promessa o l’idea che la bestia potesse riscoprirsi slegata, finalmente libera di mettere a frutto la sua empia arte. Del resto, parte di essa alberga nei miei atteggiamenti, sempre indomita ma innocua. Finché essa si mostra in quelle forme, riesco a riconoscerla, a riconoscermi in lei e in questo modo accettarla. Da allora ho cercato di costruire un’idea di me, per quello che so o credo di conoscere. Di costruire un accenno di coerenza tra pensiero ed azione incarnate in un progetto di vita che riconosco finalmente mio.

    Svaniti i ricordi e i pensieri da essi scaturiti, resta solo la lapide grezza portatami dai giannizzeri del governatore, ancora nelle mie mani. La poso con cura a un lato dell’antro d’ingresso del rifugio. Il Rifugio degli Orfani. Quel nome non l’abbiamo certo deciso noi. Ce l’hanno appioppato i villici, il resto del paese in cui viviamo. In effetti, un tempo corrispondeva al vero.

    Mi muovo verso la porta che dà nel grande ambiente interno. Appena entrata, scorgo gli sguardi di Zaffo e Altalena, preoccupati.

    Non la userò mai profetizzo io, decisa come sempre.

    Lo sapete bene anche voi.

    Oh, non ne ho alcun dubbio chiosa Zaffo, alzando le mani. Mi piacerebbe però sapere il motivo per cui non lo porti via dal nostro rifugio. Sai, iniziamo a stare stretti.

    Scruto i miei amici. Zaffo mi fa tenerezza: è un ventenne non molto alto, grandi occhi nocciola chiaro circondati da una chioma scura e nervosa. Nonostante le sue idee bellicose, a mio avviso è lontano dall’essere un soldato o un combattente quanto una gazzella dall’essere una leonessa. È rimasto col sorriso di circostanza con cui aveva finito l’ultima frase. Altalena fa segno di negazione con il dito indice, come per chiarire la sua estraneità a quel pensiero. Muovo i miei occhi verso l’alto. Poi sbuffo.

    Lo so. Fatemi riprendere un po’. Vi assicuro che entro questa sera porto via quel blocco di pietra.

    E... le altre cose? insiste Zaffo.

    Quali altre cose?

    Dunque, vediamo: la ferraglia elettronica che hai preso dai ruderi sulla strada che va verso Est; la rete metallica che hai trovato vicino al mare; la…

    Ehi, ehi. Taglia corto. mi ribello. È vero che ho portato un po’ di roba in casa. Ma è anche vero che questa casa è... beh, è un gran casino anche senza il mio contributo. Ci guardiamo intorno. La nostra ‘casa’ sono i ruderi di un vecchio stabilimento. Un tempo lontano, qui si producevano imballaggi di plastica per merci. Tra resti di muri, voragini, lunghi e spessi fogli di plastica, resti di travi cadute, piccole montagne di rifiuti vari, c’è ben poco spazio per noi. Abbiamo una cucina, realizzata con rimasugli trovati qua e là nei pochi resti di edifici non spazzati via dagli eventi. Essa costituisce al tempo stesso uno splendido esempio di arte post-guerra-mondiale e il mezzo preferito con cui scongiuriamo la morte per fame.

    Vero che sai che giorno è oggi? attacca Altalena.

    Altalena, stai parlando quasi normale. Che cosa è successo? gli chiede Zaffo.

    Lui scrolla le spalle. Mi capita qualche volta. Anche noi DopoEsame, vedi, come gli altri siamo in grado di parlare.

    Beh, qualunque sia stato il motivo, mi sa che l’effetto è svanito. deduco io ad alta voce.

    Non te l’ho chiesto mai, riprendo poi, ma tu conosci altri DopoEsame? Voglio dire, tua madre ha conosciuto altri sopravvissuti all’Esame Coatto?

    Lui mi fa cenno di no, abbassando gli occhi. Questa fortuna non ho mai avuto. Una dei pochi a sopravvivere so che lei è stata. Ha lamentato anche lei, dopo l’esame, strani lessicali comportamenti.

    Beh, ormai ci siamo del tutto abituati a te, Carne Penzola gli confida Zaffo, scompigliandogli i capelli.

    Vero che, allora, sai che giorno è oggi? riprende Altalena da dove l’avevamo interrotto. Lui mi parla sempre come se si aspettasse da un momento all’altro che lo prenda a calci in faccia. In effetti, più di una volta la tentazione l’ho avuta. Ma ormai mi sono abituata al suo modo di fare. Riesce sempre a trovare le parole migliori per farmi andare in bestia. Ma non lo fa apposta. È fatto così.

    Certo, non me ne sono dimenticata.

    Dici che... potrei anch’io venire? sussurra poi, avvampando.

    Lo sai che non posso farmi vedere con uno di voi, nei pressi della casa di BelGuaio. Ne abbiamo già parlato, te lo ricordi? taglio corto, mentre gli volto le spalle.

    Già, già, hai ragione. Me ne sono scusa dimenticato. mi segnala mentre io già quasi non lo sento più, in procinto di uscire dal rifugio.

    È ora di pranzo, per chi ha da mangiare. Vale a dire per pochi, qui intorno. Prendo la moto ad acqua distillata. Scruto per l’ennesima volta quel mezzo rottame, ingombrante e pesante, con quel motore che va da solo forse cento chili. Per fortuna, io e Zaffo siamo riusciti ad applicarvi un sistema antigravità, qualche settimana fa. Il risultato è una specie di piccolo siluro con una sella sopra, un’ingombrante pancia come motore e ruote che servono solo per mantenerlo in piedi quando è fermo. Il tutto si libra a una ventina di centimetri da terra, in grado di raggiungere i 40 chilometri orari. Viaggiare con quel trabiccolo è una esperienza che lascia il segno. Quando lo uso, vibro all’unisono con quel veicolo impossibile. Ad ogni curva, poi, mi sembra che qualche pezzo debba volarsene via.

    In cinque minuti sono dall’altra parte della cittadina. Là dove vive l’Èlite. La casa di Dorina Fortunati (che noi chiamiamo con il nome non-Èlite di BelGuaio) è la più grande, la più bella dopo quella del Governatore. Anche le strade sono diverse, qui. Sono pianeggianti, ben curate dagli sguatteri e i giannizzeri della gente ‘senza problemi’. Niente buche, niente cumuli di ruderi o voragini. Casa Fortunati ha ben tre piani, includendo il piano terra. Un grande giardino, ornato da piante provenienti da tutto il mondo e da alberi da frutto, è circondato da un corridoio colonnato, che dà su vari ambienti. Da fuori si può notare il bellissimo cancello, ai cui lati ci sono due colonne dallo stile antico. Non sono mai entrata a casa di BelGuaio. Suo padre mi rispetta, così come faceva con mio padre fino all’anno scorso, quasi fossimo dell’Èlite anche noi. D’altro canto, però, una orfana e senza lavoro ha quasi sempre un futuro breve. Un ospite del genere non è mai gradito nelle case dell’Èlite.

    Quando sono davanti al cancello, giro attorno al muro di cinta della villa finché non raggiungo il lato opposto. So bene qual è la finestra di BelGuaio. Esco da una tasca della moto un attrezzo che sta tutto nella mia mano. Ha una protuberanza che termina con un grosso foro. Un tempo doveva essere parte di uno strumento musicale. Ha anche dei poggia-labbra, ma ormai sono così consunti da farmi desistere dall’usarli. Avvicino le labbra ad un paio di centimetri dal foro, prendo fiato e poi lo butto fuori. Da quel piccolo attrezzo esce allora un suono che somiglia al richiamo di un qualche uccello tropicale. È il nostro segnale. Vuole dire che sono qui, pronta per parlare con BelGuaio o per aspettarla finché non esce di casa.

    La mia amica si affaccia con circospezione. È una bella diciottenne filiforme, a cui piace vestire colori tenui e associarli quasi sempre al bianco candido. Ama usare vestiti, aborra gli spezzati. I suoi capelli sono lunghi e biondi, che raccoglie sovente con una coda. Ha gli occhi grigi tendente al rosa. Grazie alle lenti definitive, li ha dotati di una colorazione unica, quella che maggiormente esprime il suo carattere. Ho sempre l’impressione di avere una bambina come amica, a causa del suo modo di vestire e di essere. Quando fa girare la testa ai ragazzi, però, mi ravvedo. Lei è la quintessenza della femminilità, sprizza gocce di grazia ad ogni suo movimento. L’esatto mio opposto, per dirla tutta.

    Ora BelGuaio si gira per verificare se qualcuno non stia per entrare nella sua camera, poi mi fa segno di avvicinarmi.

    Lo sai che oggi non posso uscire puntualizza mormorando per non essere sentita dai suoi. Viene a pranzo il Governatore.

    Lo so, cocca. Non è per questo che sono venuta.

    La mia amica serra le palpebre. Mi fissa, aspettandosi una risposta che non arriva. Poi, fa una smorfia col viso. Ha capito perché sono qui.

    Aspetta un attimo. Credo di poterti accontentare.

    Quelle parole accendono in me una speranza ben più grande del mio stomaco. Resto lì, fiduciosa, per circa cinque minuti. Passato quel tempo, ho il timore che la mia amica sia stata bloccata dai suoi genitori. Fosse davvero così, sarei costretta ad attendere la sera tardi per riprovare. Nel frattempo, cerco di fare attenzione a ciò che accade qui in giro. Per fortuna non c’è nessuno, men che meno giannizzeri o sguatteri di casa Fortunati. Di tanto in tanto sento un vociare dalla casa più vicina, un nuovo edificio ad un solo piano, molto ampio e circondato da vetrate. Devono usare l’aria condizionata al massimo per tutto il giorno, penso, a causa del caldo soffocante del sole, che non viene filtrato da coperture di nuvolo da oltre un mese.

    Dopo un altro paio di minuti, finalmente BelGuaio si affaccia di nuovo. Senza proferir parola, mi mostra una grossa cesta. È piena di cibo! Mi viene il magone per la contentezza. Poi però ho un dubbio. Come farò a portarla giù? le chiedo. Arrampicarmi fin lassù non è un problema. Ma non so come scendere quel… cestone.

    BelGuaio fa un’espressione di finto stupore, misto a un sorriso malizioso. Quindi scompare di nuovo. Talvolta non riesco proprio a capirla, quella ragazza. Questa volta però devo attendere solo un minuto. Invece di rivedere il suo viso dolce e sorridente, rivedo la sola cesta. Questa ora si muove senza che qualcuno la sorregga! D’istinto porto una mano alla bocca ed emetto un gemito. La cesta sembra stia per cadere di lato, facendo riversare tutto il suo prezioso contenuto per terra. Invece si stacca dal davanzale, solitaria, con il cibo che contiene in salvo. Sembra mossa da mani invisibili. Col fiato sospeso seguo quella scena, così inusuale per me, povera non-Èlite. In capo a mezzo minuto, la cesta si adagia per terra. Quella squinternata di BelGuaio si mostra dalla finestra, col suo sorriso bianchissimo a trentadue denti. Le mando un bacio volante, lei mi fa cenno con il pollice su e poi mi ricambia il bacio con due dita. Porto le mie braccia a cingere la grossa cesta. Porca miseria quanto pesa! Ma devo farcela.

    Aspetta, ti faccio portare a casa da Marghe

    La mia amica ha ragione. Non sono in grado di portare quella cesta da sola, men che meno su quel trabiccolo ostile che mi ha portato fin qui. Attendo ancora una volta, piena di gioia nel cuore e riconoscenza nei confronti della mia BelGuaio. Finalmente, il languore che non mi lascia da ieri mattina finirà di tormentarmi. Dopo un paio di minuti noto l’auto di BelGuaio mentre esce dal garage. Lei le ha dato un nome di donna, Marghe come diminutivo di Margherita. Appena

    fuori, si aprono entrambe le porte dell’auto autonoma, come fossero ali di gabbiano. Sento l'Entità Virtuale che mi saluta.

    Salve, signorina VolaLibera. La prego di entrare esordisce con la sua consueta voce suadente. BelGuaio si sbraccia felice e orgogliosa. Vieni domani? le chiedo

    Veramente ci vediamo oggi pomeriggio. Non mi chiedere altro! risponde ammiccando. Sei il mio… la mia fonte d’ispirazione gongolo sorniona e pienamente soddisfatta, aspettandomi la sua risata caratteristica, che infatti non tarda a farsi sentire. Aggancio la moto ad acqua dietro l’auto di BelGuaio, per portarmela via.

    Entro nell’auto ed emetto un grosso sospiro. Abbiamo da mangiare per giorni e giorni! Anche senza il frigo (non abbiamo denaro per acquistare l’energia necessaria a mantenerlo in funzione!), quasi tutte le pietanze della cesta sono in grado di mantenersi commestibili per diversi giorni.

    Appena usciti dalla zona dell’Èlite, l’auto si muove lentamente a causa delle strade penosamente sconnesse. Appena supero una grossa voragine al centro di quella che dovrebbe essere una strada, in corrispondenza di un basso muretto, scorgo una donna seduta su una poltrona sbrandellata e malsicura. Tiene in braccio un neonato. Personalmente mi ritengo semplicemente magra, a causa delle difficoltà croniche nel reperire il cibo. Ma quella donna... le mie braccia potrebbero essere il doppio in spessore delle sue. Il bimbo, poi, mi fa così pena da farmi urlare a Marghe di fermarsi. Prendo quattro tozzi di pane, due bottiglie di latte e una scatola di carne da quella specie di cornucopia che ho sul sedile posteriore. Come se avesse intuito le mie intenzioni, l'Entità Virtuale che gestisce l’auto mi apre la portiera e io esco. Uso come contenitore la mantella del mio vestito consunto, barcollando per le tante cose che vi ho messo dentro. La donna è così assorta nei suoi pensieri di morte da non accorgersi della mia presenza.

    Le ho portato qualcosa. Per sopravvivere.

    La donna gira lentamente il suo viso verso di me. Vedendo tutto quel cibo, i suoi occhi sgranano a tal punto che ho creduto per un attimo volessero uscirle dalle orbite. Resto lì con lei per qualche minuto, necessari a farle capire che io e le cibarie non siamo l’inizio della sua follia dovuta alla fame. Mi dice che sono un angelo caduto dal cielo e mi benedice per ciò che ho fatto. Quelle parole incolpevoli riaprono una ferita non sopita e mai più innocua. La mia immaginazione allora sopravviene, mostrandomi in serie immagini che avevo voluto seppellire nell’angolo più remoto dei miei ricordi. Alzo un braccio come per coprire la memoria di figure immobili e supine, una volta ree anch’esse, vittime di una belva immonda che non conosceva limiti né paure. Una parte di me usa quei ricordi contro me stessa come l’avvocato dell’accusa brandisce la prova finale davanti all’accusato. Quella parte vorrebbe gridare alla donna quanto sia stupida a credere alle apparenze. A non capire che l’atto pietoso da me elargito altro non è che un pio quanto inutile tentativo di espiazione, un voler mostrare agli altri e dimostrare a me stessa che il diavolo e l’angelo possono convivere per reciproca convenienza. Nel mezzo delle immagini della mia mente intravedo la donna, stupita per il mio strano comportamento. Quell’impeto di rifiuto del mio nuovo equilibrio inizia a dissolversi, tornando così nei luoghi più oscuri e nascosti del mio essere, lì dove è stato partorito.

    Prima di addentare un tozzo di pane, la donna mi dice che non lo sta facendo per lei. Non sta tentando di sopravvivere per se stessa, ma per il bimbo. Non è nemmeno il suo, lo ha trovato durante un viaggio che l’ha portata a AcqueProfonde da un villaggio a cinque giorni di cammino da qui. Mi allontano dunque da lei con un mesto sorriso sulle labbra. Poi, quando quella voce roca e sguaiata in me inizia a svanire, affiorano un miscuglio di emozioni nel cuore. Mi scopro soddisfatta per aver salvato quella donna e il bambino. Al tempo stesso, però, non posso che rattristarmi se penso al loro cupo futuro.Durante il resto del tragitto faccio fermare Marghe altre volte, in corrispondenza di altri miei concittadini: un bimbo che sta rovistando nei ruderi del museo cittadino; una ragazza della mia età con la sorella più piccola; un vecchio così stanco da riuscire a rivolgermi solo una espressione di gioia, intinta in un pianto senza lacrime. Non mi era mai capitato di avere dovizia di cibo al punto da poterlo condividere con chi è meno fortunato di me. È una sensazione che mi fa sentire bene, a dispetto di qualsiasi retrospezione masochista.

    Giungo a casa con circa la metà delle vivande che BelGuaio mi ha elargito. Ma non importa. So bene che è ben più di quanto avessimo bisogno. Siamo tre ragazzi in gamba, perfettamente in grado di trovar da mangiare quasi ogni giorno. E poi, troppo cibo non fa pensare lucidamente. E io devo pensare come trovare mio padre.

    Capitolo II

    Dai ricordi di VolaLibera

    Zaffo e Altalena mi stanno aspettando fuori dal rifugio. Devono essere davvero affamati, poveretti. Quando vedono arrivare l’auto di BelGuaio e, a seguire, la nostra moto, uno alza le braccia in segno di vittoria e l’altro festeggia come se avesse vinto la battaglia decisiva di una guerra.

    Fanno i premurosi e prendono loro la cesta con le vivande. Non fiatano sul fatto che l’hanno trovata piena per metà.

    Ciao, Marghe saluto l'Entità Virtuale, mentre sgancio la nostra moto. Ringrazia ancora BelGuaio da parte mia.

    Nostra! aggiungono in coro i miei compagni di ventura.

    Certo. Salutala da parte nostra

    Sarà fatto. Porgo a voi i miei cari saluti garantisce l’Intelligenza Artificiale, mentre abbassa l’ala da gabbiano dell’auto e si incammina verso il proprio garage. Nemmeno il tempo di salutare l’auto di BelGuaio, che Zaffo e Altalena si sono rintanati nel nostro rifugio con il malloppo commestibile.

    Mentre li raggiungo, sento che stanno intonando il nostro canto della vittoria. Anche a me piace farlo, quando ci ritroviamo con dovizia di cibo come oggi:

    Non c’è nulla di più azzurro di un cielo

    che ha vinto mille intemperie

    Canta con me, mentre il sole scende

    e la carne cuoce sul fuoco.

    Non saremo mai ricchi,

    né in grado di decidere per gli altri.

    Ma la felicità è stare insieme dopo la vittoria.

    Non è la vittoria che inseguiamo,

    ma la pace e il benessere che la seguono.

    Questo pomeriggio, dopo una deliziosa abbuffata, ci stendiamo ciascuno sul proprio letto-amaca. Altalena ha un osso di pollo in bocca, con cui gioca. Sembra un cagnolino. D’un tratto si ferma e parla.

    Nel tuo futuro, Zaffo, cosa vedi?

    L’interrogato, con gli occhi chiusi, sta invece assaporando una leggera brezza che viene dal foro più grande del tetto. La domanda deve averlo disturbato un po’, perché apre gli occhi e sfoggia l’espressione di chi è stato svegliato sul più bello.

    Dopo qualche istante in silenzio, rivela Voglio diventare il capitano delle guardie della Capitale.

    Che cavolo, Zaffo, di sogno hai? replica l’amico, quasi nauseato dalla sua risposta.

    Ma dico, fatti i fatti tuoi. A me piace l’azione, piace sentirmi importante. Voglio diventare indispensabile per la salvaguardia di tanta gente. E tu, invece, Carne Penzola?

    Altalena non si scompone quando lo prendiamo in giro per la sua corporatura. Del resto, anche il nome che gli abbiamo attribuito è a tono. È grasso per via di una malattia dovuta alle 'scorie' dell’Esame Coatto. Così come mangia, ingrassa rapidamente. Allo stesso modo, dimagrisce altrettanto rapidamente quando non abbiamo da mangiare. A quel punto, diventa flaccido come un vecchio ammalato.

    Io un giorno avrò così tanti soldi da poter aiutare tutta AcqueProfonde ci rivela.

    Come mai solo AcqueProfonde? Cosa ti ha fatto di così buono la gente di questo schifo di posto, per meritare più attenzioni di ogni altra parte del mondo?

    Non è questo. Tutta la gente vorrei aiutare, che non riesce a sopravvivere da sola. Ma è evidente che non tutta quella potrei aiutare che vive in questo sporco mondo. Saranno, che so, centinaia di migliaia.

    Dì pure qualche milione obietta Zaffo.

    Certo. Milioni anche. È impossibile così ricchi diventare da poterli aiutare tutti.

    "A meno che non

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1