Whisky per favore
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Manuale su come rovinarsi la vita con le donne e con la musica.
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Anteprima del libro
Whisky per favore - Mirko Mancini
Lei,
1.
Amo le donne con le gonne lunghe. Fino alla caviglia. Che non vedi niente. Quelle che stai lì col dubbio, con la speranza, di riuscire a capire qualcosa in più, riuscire a vedere quel centimetro di pelle che quella cazzo di gonna, ti nega. L’avrei sposata Lei. Aveva tutto quello che ho sempre cercato. Il viso, le mani, la voce, il corpo, il modo di pensare, che avevo sempre disegnato in ogni mia canzone. Aveva anche 3 gonne lunghe, Lei. Fino alla caviglia. Una era piena di piccoli fiori colorati su sfondo nero e io scrivo canzoni. Ogni volta. Ogni giorno. Ogni istante. Scrivo canzoni.
Da che ho memoria, mi rivedo a fissare un punto nel vuoto cercando una rima, un’immagine, una sillaba, un modo poco cattivo per dire una cattiveria, un modo poco mieloso per dire una cosa smielata. Ho perso autobus, amici, giubbotti, donne, pranzi, lumi della ragione, avvenimenti storici, foto, cambi di governo, chiavi, tempo, tecnologie, treni e sonno per riflettere su quale parola avrebbe dovuto seguire quella che la precede considerando che, prima ancora, ce ne erano altre che, quanto prima, avrei dovuto, quanto meno, rivedere. Persi anche Lei in questo groviglio. Aveva gli occhi celesti. Se fossi stato il re del mondo avrei fatto una legge per vietare alle persone di nascere con gli occhi di quel celeste. Era un disastro. Io seguivo questo gomitolo di sillabe per giorni e notti intere, mi facevo ordine, e poi arrivava Lei con i suoi occhi celesti e addio, tutto da capo. Raso al suolo. Un tornado, un cataclisma. Mi toccava ricominciare tutto. Come se avessi mai saputo quale fosse il bandolo della matassa. Mi limitavo a ricominciare da un punto comodo. Quello meno colpito dall’apocalisse. Fino a che non ero costretto a rincrociare i suoi occhi celesti e la sua gonna lunga fino alle caviglie. Un’altra era clamorosamente verde acqua ed educatamente trasparente dalle ginocchia in giù , più o meno e io scrivo canzoni. Quel giorno stavo litigando con la strofa di un brano in cui raccontavo la storia, destinata a concludersi a fine canzone, tra due amanti e quando si parla di amore o simili, si fa prestissimo a cadere nella nota trappola del cuore-mare-amore-dolore-sapore-calore
. Per tanto ero arrabbiatissimo. Non solo per colpa della strofa, ma anche a causa di una devastante allergia che per 400 giorni l'anno mi rendeva impossibile una di quelle azioni che, in realtà, dovrebbero essere più o meno automatiche in un essere umano: respirare. Non era la mia giornata. In sintesi. Avevo l'impressione di essere stato chiuso in acquario e quella strofa mi stava mandando in palla. Quella stronza se ne stava lì nascosta da qualche parte a ridacchiare di gusto e io, con le tasche piene di idee e di fazzoletti a consistenza tra l'umido e il liquido, aspettavo che si stancasse di scherzarmi. Avevo capito questo: Più le aspetti, le parole, le frasi, più loro se ne stanno nascoste dietro ai cespugli, dietro ai divani, sugli scaffali, tra le pagine di un libro. Più le ignori, le lasci fare più saranno loro a uscire dal nascondiglio e venirti incontro, a cercarti, a bussarti sulla spalla in piena notte o a spuntare da dietro l'angolo mentre sei seduto al tavolino di un bar. La stessa cosa valeva per le persone. Questa mia convinzione, ormai da anni mi aveva regalato una bella etichetta di Stronzo
, Solitario
o, nel migliore dei casi, Misterioso
. Insomma di certo non ero uno di quei tipi da festa o da barzelletta.
La terza gonna era un po più corta delle altre ed era completamente bianca. Bianca come Lei. Capita di associare un colore ad una persona, no? Beh, anche se non capita, Lei, nella mia testa, era bianca. Come la gonna. La incontrai nel più sfigato tra i locali sfigati di questa città per sfigati. La incontrai...lavorava lì, mi si parò davanti con la faccia stanca e incazzata chiedendomi cosa desiderassi, «Che domanda...» Pensai da buon eterno adolescente «Desidero portarti via di qui e farti felice» Ovviamente, non fu quella la mia risposta ma fu più o meno:
«Whisky per favore»
Con una voce tra il nasale e il maniaco sessuale da trench lungo e niente sotto, con un'espressione che ancora oggi, dopo anni, pagherei per rivedere. Sfigato. Come il locale.
«Whisky per favore » Il vecchio Bukowski aveva fregato anche me. Per fortuna.
«Che whisky? » Disse spazientita.
«A te quale piace? » Azzardai.
«Non bevo whisky. Mi fa schifo »
Sfigato. Gliene indicai uno su quello che anni prima doveva essere stato un menù e svanì via accennando con la testa ad un gesto che interpretai come un ok, ho capito
ma che probabilmente fu più un povero sfigato
. Giusto. Nulla da eccepire. D'altronde, solo ad un tavolino, whisky industriale dal presentissimo retrogusto di vomito, quadernino in finta pelle, penna blu masticata, capelli crespi e incolti, polo monocolore, jeans, scarpa da ginnastica il tutto rigorosamente non abbinato. Cosa potevo pretendere? C'ero abituato. Niente di nuovo. Non brillavo in quanto ad esteriorità ai tempi ecco e, adesso che ci penso, anche dentro avevo un bel disordine.I 5 anni in mezzo ve li risparmio o, se non altro riassumo: Locale, quadernino, whisky per favore
, quadernino, buonanotte
, casa ubriaco, locale, ciao
, quadernino, whisky per favore
, quadernino, buonanotte
, casa ubriaco, locale, ciao, il solito?
, si grazie
, quadernino, buonanotte
, casa ubriaco.
Fu difficilissimo fingere che non mi facesse alcun effetto. Ogni volta che mi diceva «il solito?», nella mia testa le rispondevo:
«No, cazzo, basta con questo cazzo di whisky scadente, torna a casa con me vorrei che diventasse anche casa tua» e invece «whisky per favore».
5 anni, più o meno tutti i giorni. Mi svegliai un bel giorno dal torpore causato non tanto dell'alcol quanto dal quadernino, seduto al solito tavolo, mentre Lei mi chiedeva
«Ne vuoi un altro?» Mi affrettai a chiudere la pagina cercando di non perdere il segno con la penna blu masticata dicendole:
«Whisk.... A che ora finisci di lavorare?»
Vivemmo insieme. Non nella mia fantasia. È giusto precisare.
2.
Quella notte rimasi sveglio. Non ci fu verso di dormire. Continuavano a rimbalzarmi nella testa cose, progetti, pensieri, luoghi e Lei. Lei però non rimbalzava. Lei stava ferma lì, nella mia testa, in basso a sinistra, più o meno sotto l'occhio. Immobile e bella. Non si curava di tutto quel rimbalzare intorno, sorrideva. Una delle cose che gli riusciva meglio. Sorridere. Aveva provato ad insegnarmi come fare ma non c'era stato nessun miglioramento. Ero un caso disperato. Ero giunto all’opinabile conclusione di essere nato senza la quantità di muscoli facciali necessaria ad un qualsiasi essere umano per realizzarsi in un sorriso, bello o brutto che fosse, ma comunque, un sorriso. Forse quei muscoli ce li avevo ma non li avevo mai allenati. Lei si. Lei sorrideva e io la guardavo. Lei sorrideva e io morivo. Era lì in piedi con le braccia lungo i fianchi. Era lì in basso a sinistra, più o meno sotto l'occhio dal giorno in cui era andata via. Dal giorno in cui se ne era andata. Quel giorno non sorrideva però e nonostante questo, io, morivo lo stesso. Era andata via perché c'era qualcuno ad aspettarla. Qualcuno che la aspettava da molto più tempo di me. Il solo pensiero di questo fantasma mi aveva sempre mandato in bestia. Non glielo dissi mai ma ogni volta che ci pensavo, avevo l'impressione che la quasi totalità del sangue che mi circolava nelle vene, si ubicasse, con innaturale velocità ed effetti devastanti tra le mie tempie. Lei era mia. Ci avrei scommesso. Tutto. Avrei anche rinunciato ad ascoltare i Beatles per una settimana se mai qualcuno mi avesse chiesto di dimostrare quanto fossi sicuro di questo. Era mia. Punto. Non si trattava di trovarsi bene, né di baciarsi bene, né di avere un'intesa sessuale da far invidia al più credibile e ben riuscito dei film pornografici dell'intero web, né di parlare bene, né di condividere gli stessi interessi. Si trattava di abbracciarsi. Quando Lei mi abbracciava...boom. Reset. Avevo passato una vita intera a fare il duro. A rivolgermi alle persone con una supponente aria di supponente supponenza. A mostrarmi distante e diverso e in disaccordo con qualsiasi forma di vita terrena, ma spesso anche con cose inanimate o luoghi o divinità varie ed eventuali, ma quando Lei mi abbracciava, no. Lei no. Diventavo l'essere più indifeso del mondo. Le sue ossa si incastravano con le mie come nemmeno la migliore delle partite di Tetris. Fu un grande errore. Prenderne atto, fu il più grande degli errori. Da quel giorno cambiarono un sacco di cose. I libri che leggevo, la musica che ascoltavo, il colore delle magliette che indossavo, la frequenza con cui mi lavavo le ascelle e tutto il resto, la pazienza e la considerazione nei confronti dell’umanità intera, le parole, i gesti, le priorità, i capelli. Non drasticamente, sia chiaro. Continuavo a riconoscermi nella poco dolce descrizione di testadicazzo
, egoista, egocentrico e tutti gli altri che cominciano per ego
ma qualcosa era successo, altrimenti non avrei mai, cosa che feci reiteratamente, ascoltato un disco dei Coldplay. Vaglielo a spiegare. Lei non era nata dove ero nato io. La sua testa, le sue abitudini, i suoi valori, i suoi modi dire appartenevano a tutt'altra scuola. La sua patria era lontana da questa sfigata città in cui nascevi già sfigato. E si vedeva. Su di Lei era evidente. Vaglielo a spiegare. Un po' la lingua, un po' l’orgoglio, un po' la mia testa sempre più somigliante ad un organo genitale maschile. Non ne saremmo mai venuti a capo.
Ci avevo provato. Missione: Fallita. Avrei voluto vedere voi. Immaginate di aver vissuto trent’anni di vita convinti di avere sempre tutto sotto controllo, dall’appetito notturno ai sentimenti e, da un giorno all’altro, tutto quel meticoloso tenere in ordine, quel sistema di allarme, quei radar costati 4 occhi della testa, quella preziosa collezione di parole a effetto e pseudo-aforismi da pub, quel repertorio di battute da dire nel momento giusto con relativo collegamento a espressionegiusta
e giustainflessionedellavoce
, tutto, tutto andato. Spento. Perso. Guasto. Scomparso. Bruciato. Avrei voluto vedere voi. E avrei voluto vedere Lei.
Non ero solito dormire in orario notturno ma quella notte rimasi sveglio più di ogni altra volta o forse rimasi sveglio in un altro modo. Rimbalzava tutto e non so cosa fosse a far tremare incessantemente la mia gamba sinistra. Credo fosse paura. Ma io non avevo paura. Me ne ero dato dimostrazione più di qualche volta nei passati trent’anni. Mi ci rotolavo dentro al mio non aver paura. Eppure non mi spiego cosa fosse quella notte, e le seguenti 617, a darmi quella sensazione. Credo fosse paura.
3.
Era un periodo pessimo, davvero pessimo. Ci sarebbe una espressione molto più esplicativa per definire quanto fosse pessimo ma in alcune circostanze si può anche rinunciare alla semplicità delle cose in favore di una qualche forma più educata. Le canzoni non andavano, le parole non venivano più, rimanevano nascoste. Si erano stufate di me e delle mie cantilene evidentemente. Anche loro se ne stavano andando. La musica ci metteva dieci volte il tempo che ero solito conoscere ad uscirmi dalle mani e quando lo faceva non era più come l’avevo immaginata. La cosa paradossale era che dentro di me c’era l’inferno, la notte, il