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I grandi imperatori
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E-book1.725 pagine26 ore

I grandi imperatori

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Da Ramses II ad Augusto, da Carlo Magno a Napoleone

Imperatori: così furono designati i successori di Augusto nel governo di Roma, ricavando un titolo che originariamente indicava il comandante che conseguiva una grande vittoria in battaglia.

Fu così che figure diversissime tra loro, sia per origine che per ambizioni, seppero far coincidere il proprio sogno di potere con la realizzazione di organismi sofisticati destinati a segnare indelebilmente le nostre radici. Siano essi figli d’arte come Federico II o Pietro il Grande; siano parvenu come Gengis Khan o Napoleone; siano figli di cieli remoti come Pachacutec Inca Yupanqui o vere e proprie icone come Alessandro Magno – le cui gesta costituirono un inimitabile modello per tutti coloro che le conobbero – nel bene o nel male, furono tutti in grado di elevare non solo il proprio orizzonte, ma anche quello degli uomini che trascinarono con sé. Seguire il percorso delle loro vite equivale a tracciare la mappa di un passato in cui vizi e virtù, pulsioni e tensioni, prospettive e ambizioni appaiono molto meno distanti di quanto immaginiamo.

Uomini che hanno conquistato il potere assoluto a qualunque costo

Tra gli imperatori descritti nel libro:

• Ramses II

• Ciro II Il Grande

• Alessandro Magno

• Augusto

• Marco Aurelio

• Costantino

• Carlo Magno

• Federico I Barbarossa

• Gengis Khan

• Federico II

• Carlo V

• Ivan il Terribile

• Pietro il Grande

• Napoleone

• Francesco Giuseppe

...e tanti altri

Giuseppe Staffa

nato a Roma nel 1973, laureato in archeologia medievale, ha partecipato a numerose campagne di scavo in Italia e all’estero. È insegnante ed educatore tiflologico (per i non vedenti). Già consulente storico e archeologo per la trasmissione televisiva di Rai 3 Cose dell’altro Geo, dal 2014 collabora con la rivista Focus Storia-Wars. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 storie sul Medioevo che non ti hanno mai raccontato, I personaggi più malvagi della Chiesa, I grandi condottieri del Medioevo e I grandi imperatori.
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2015
ISBN9788854186507
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    Anteprima del libro

    I grandi imperatori - Giuseppe Staffa

    Giuseppe Staffa

    I grandi imperatori

    Da Ramses II ad Augusto, da Carlo Magno a Napoleone

    omino

    Newton Compton editori

    RINGRAZIAMENTI

    A Luna, che mi ha accompagnato per gran parte di questo viaggio.

    A Marco

    Introduzione

    Imperatori: così furono designati i successori di Augusto nel governo di Roma, mutuando un titolo che originariamente indicava chi, investito della suprema carica di comando, risultava vincitore sul campo di battaglia.

    È proprio ricalcando l’antica accezione che il presente libro si propone come una sequenza di eccezioni che confermano la regola, snocciolando una serie di personaggi fuori dal comune associati da un intento che ha costituito una delle molle fondamentali dell’incedere del genere umano: la brama di potere.

    Basta srotolare il tappeto delle fonti per scoprire come sin dai tempi remoti, a qualsiasi latitudine, i gruppi umani che si sono organizzati in strutture sociali vagamente più complesse di un clan o di una tribù stretta attorno al focolare, abbiano manifestato la tendenza ad allargare a dismisura beni e terre in loro possesso, estendendo il proprio dominio fin dove la forza della volontà e delle risorse lo consentiva.

    Tale spinta ha prodotto in molti casi la nascita di imperi, entità sovranazionali in cui si mescolarono i destini dei popoli e in cui spesso si costruirono i ponti attraverso i quali culture altrimenti aliene si incontrarono.

    Se tale fenomeno fu il frutto di un’azione collettiva, esso fu possibile grazie all’intraprendenza di questi uomini eccezionali, capaci di innescare i cortocircuiti che innervano la Storia.

    Fu così che figure diversissime tra loro, sia per ambiente geografico che per prospettiva umana, seppero far coincidere il proprio sogno di potere con la realizzazione di organismi sofisticati destinati a segnare indelebilmente le nostre radici.

    Siano essi figli d’arte come Federico ii o Pietro il Grande; siano parvenu come Gengis khan o Napoleone; siano figli di cieli remoti come Pachacutec Inca Yupanqui o Tokugawa Ieyasu o vere e proprie icone come Alessandro Magno – le cui gesta costituirono un formidabile pungolo per tutti coloro che le conobbero –, costoro, nel bene o nel male, furono in grado di sollevare l’asticella non solo del proprio orizzonte, ma anche di quello degli uomini che trascinarono dietro di sé.

    Seguire il percorso delle loro vite equivale a tracciare la mappa di un passato in cui vizi e virtù, pulsioni e tensioni, prospettive e ambizioni appaiono molto meno distanti di quanto immaginiamo.

    ALBA DI GLORIA O DELL’EVO ANTICO

    Ramses ii

    Inserire un faraone nel novero delle categorie umane – seppure altisonante come quella degli imperatori – appare già di per sé un’impresa ardua, considerato quanto quel titolo comportasse all’interno della cultura egizia un’elevazione prossima alla condizione divina.

    Se a ciò sommiamo che Ramses, nei sessantasette anni di regno che gli furono concessi in sorte, fu in grado di ricoprire la valle del Nilo di costruzioni della cui incomparabile bellezza godiamo ancora oggi, e seppe esercitare e sfruttare un’abilità militare tale da farlo conoscere come il faraone guerriero per antonomasia, ci rendiamo conto di essere di fronte a un personaggio capace di marchiare indelebilmente non solo la storia del Vicino Oriente ma quella dell’intera umanità.

    Nel solco di Ra

    Questo gigante, evocativo della civiltà egizia al pari delle stesse piramidi, nacque nel 1303 a.C. in un luogo imprecisato al quale le ricerche archeologiche e le fonti letterarie ancora non hanno saputo attribuire un nome. Sappiamo per certo che fu figlio di Seti i e di sua moglie Tuya, discendendo dunque da quella schiatta di guerrieri originaria del delta orientale (verosimilmente proveniente dalla città di Avaris nella regione di Qantir, l’antica capitale degli invasori hyksos) che suo nonno Ramses i aveva nobilitato fino alla dignità regale.

    Fu infatti costui che inaugurò la xix dinastia tra il 1291 e il 1321 a.C., conferendole il titolo di ramesside che, oltre a rievocare inequivocabilmente il proprio nome, riportava il significato di Ra lo ha messo la mondo.

    Sottolineare questo aspetto non è superfluo: inserire nel solco di Ra il nuovo corso, significava assumere un orientamento che piuttosto sapeva di antico.

    Ricalcando le scelte politiche del suo predecessore Horemheb, Ramses si era proposto come il restauratore del vecchio culto di Ra scosso dall’eresia con cui Amenhotep iv, meglio noto come Akhenaton, una cinquantina di anni prima aveva sconvolto l’Egitto. Akhenaton aveva infatti soppiantato la religione di Amon con quella di Aton, dando vita a una sorta di monoteismo in cui la figura del faraone assurgeva pienamente a caratteri assolutistici.

    Proviamo a fare chiarezza: Amon rappresentava la principale divinità del pantheon egizio, tanto da essere assimilata con il dio del Sole Ra e assumere nella formula Amon-Ra la supremazia universale del culto in oggetto.

    A questo, Akhenaton contrappose Aton, un’altra divinità solare espressione del principio vitale attraverso il quale l’astro irraggiava tutte le creature: non a caso, a differenza di Amon-Ra che veniva raffigurato come un uomo con la testa di falco, Aton veniva simboleggiato da un globo dal quale si dipartivano raggi culminanti con mani tese, a indicare l’energia informante del mondo, capace di sopravanzare qualsiasi idolo o qualsiasi segno.

    L’introduzione di un nuovo culto non fu semplicemente un vezzo: essa rappresentò il culmine di uno scontro in cui l’alto clero tebano da secoli si contrapponeva nell’esercizio del potere a quello del faraone, riuscendo molto spesso a esautorare quest’ultimo e divenendo de facto il padrone dell’Egitto. Con la sua eresia, Akhenaton riaffermava la supremazia del faraone e lo poneva al vertice incontrastato della piramide del comando.

    Questa cesura, passata alla storia come eresia amarnita – da Amarna, il nome moderno attribuito all’antico sito di Akhetaton fondato dal faraone nel corso del medio Nilo proprio per allontanarsi da Tebe e dalle sue pessime influenze –, determinò un unicum della storia egiziana, i cui risvolti riverberarono anche nelle arti e soprattutto nell’architettura e nella scultura: le statue del periodo furono infatti contraddistinte da un inconsueto realismo in cui le figure altrimenti stilizzate e sublimate del faraone e della sua sposa ugualmente famosa, Nefertiti, furono invece realizzate con inconsueto naturalismo, sfociante addirittura in un’impietosa rappresentazione della realtà.

    Tra i principi fondanti del nuovo credo spiccava infatti quello della Verità, per cui lo stesso faraone si preoccupò che i propri scultori, in primis Bak, realizzassero in toto ciò che vedevano, compresi eventuali difetti fisici nella persona del loro signore, di cui gli artisti non esitarono a cogliere le imperfezioni.

    La morte di Akhenaton segnò la riscossa del partito di Tebe e un confuso avvicendamento del potere, reso ancora più nebuloso dalla damnatio memoriae con cui l’alto clero tebano si preoccupò di cancellare le testimonianze di quella che fu percepita come una pericolosa deriva, compresi gli archivi e i relativi documenti.

    Di fatto, quando il piccolo Ramses venne al mondo, il processo di sutura e ricomposizione del potere era già stato avviato da suo nonno e perseguito da suo padre Seti, attraverso una politica che permetterà alla dinastia, di cui il pargolo rappresenterà il terzo esponente, non solo di brillare entro i confini egizi, ma di esercitare un controllo anche oltre l’ombra delle piramidi: di fatto, quello che fino a quel momento era stato un regno si apprestava a diventare un impero.

    Ramses aveva cinque anni quando il nonno soppiantava Horemheb sul regno del Basso e Alto Egitto e appena sette quando quell’onore toccò al padre Seti. Probabilmente non sarebbe mai succeduto a questi se una morte prematura non avesse strappato a questa terra il fratello maggiore Mehi, della cui esistenza siamo informati grazie a un’iscrizione presente nel tempio di Karnak. La dipartita gli spalancò così le porte della successione al trono.

    Avere un destino segnato come faraone presupponeva l’assunzione di una cospicua mole di responsabilità, non ultimo il calcare i campi di battaglia già da quando si era poco meno che in fasce. Così il piccolo Ramses, oltre a essere educato fin da bambino al rispetto e al mantenimento del prestigio e della grandezza del suo Paese – perseguendo una formazione che fu affidata a Thia, il marito della sorella Cia che all’epoca ricopriva il ruolo di scriba reale –, già a dieci anni si vide affidare il comando di una squadra militare con la quale accompagnò il padre Seti nelle sue campagne.

    Il segno del comando

    Partiti dalla fortezza di Tjel, oggi Tell Abu Sefan nei pressi di El-Kantarah, Ramses e Seti si diressero con un potente esercito verso Rafia nel deserto del Sinai. Spostandosi di fortezza in fortezza, dove si rifornivano d’acqua, Ramses vide suo padre sbaragliare i predoni shasu, occupare Gaza e Yenoam, piegare gli ittiti. Vide altresì strisciare come penitenti al cospetto della maestà di Seti i re dei piccoli regni cananei; altri li vide affannarsi a pagare tributi; altri ancora costretti a mendicare pietà, dopo essersi chiusi con arroganza nelle loro roccaforti.

    Ramses seppe fare tesoro di quell’esperienza, alla quale sommò, durante i periodi di pace, una costante frequentazione dei cantieri reali e una presenza assidua in tutto il Paese con costanti visite ufficiali.

    Perfezionò così un apprendistato che consistette nell’osservare cosa fosse necessario fare e come agire in determinate situazioni secondo l’esempio paterno, affinché nel momento in cui fosse toccata a lui la doppia corona, sarebbe stato pronto ad assumersi il carico di quel diadema.

    Già a partire dal settimo anno del regno di Seti, più o meno il 1287 a.C., il giovane, che all’epoca doveva avere un’età compresa tra i quindici e i diciotto anni, fu associato al trono. Durante una cerimonia pubblica alla quale partecipava l’intera corte, Seti lo nominò principe reggente, conferendogli tutti gli onori formali che si dovevano a un sovrano, compreso un nome d’incoronazione, User-Maat-Ra, che nel nostro idioma suona più o meno Ricco di giustizia è Ra. Dopo la nomina, il padre ordinò che si costruisse per lui un palazzo, edificato probabilmente nella città di Menfi.

    Più o meno nello stesso periodo Ramses sposò colei che era destinata a diventare una delle donne più conosciute dell’antico Egitto, Nefertiti, la prima delle sue otto mogli ufficiali, che oltre a giganteggiare rispetto alle sue omonime riuscì a rivaleggiare in quanto a fama con lo stesso marito.

    La principessa, di nobili origini, oltre a essere una donna di eccezionale avvenenza, come testimoniò il suo nome che significava appunto la più bella, fu tra le poche esponenti del gentil sesso a esercitare un’influenza politica nelle vicende del regno, sebbene detenesse il potere indirettamente. Almeno per una ventina d’anni, fino al 1240, il tocco della sua grazia fu tangibile nell’orientamento politico del governo: poi, improvvisamente si avvertì una contrazione della sua capacità di intervento, figlia di una probabile degenerazione dei rapporti con lo sposo, che sfociò nella cancellazione della sue effigie da ogni immagine, fino a quel momento ritratta al fianco di Ramses.

    Alla luce di ciò appare quasi scontato ammettere come neppure un personaggio notevole come Nefertiti seppe reggere al logorio quotidiano di un confronto diretto e costante con un uomo del calibro di Ramses. Costui intanto, dopo aver incassato il riconoscimento paterno, si accingeva a muovere i primi autonomi passi nell’esercizio del comando. Seti infatti, a partire dal tredicesimo anno del proprio regno, corroborò la fase di coreggenza affidando al figlio una serie di missioni nelle quali dovette occuparsi della riscossione dei tributi dei paesi di Wawat e Kush, le due province nelle quali era divisa la Nubia; quindi il giovane sedò alcune rivolte scoppiate fra i beduini shasu in terra di Canaan: tutti compiti che si vennero a sommare al precedente incarico di responsabile del programma architettonico paterno lungo tutto l’Egitto.

    Da solo al potere

    Dopo quindici anni di governo circa, Seti i morì e il regno passò quindi nelle mani di Ramses, allora venticinquenne. Il passaggio di consegne avvenne il terzo mese dell’estate, al ventisettesimo giorno, vale a dire i primi di giugno di un anno che secondo l’interpretazione della cronologia del papiro di Ebers, – di cui abbiamo scelto di propendere per la scansione che posticipa di vent’anni l’evento di riferimento, cioè la levata eliaca di Sirio – dovette essere il 1279 a.C.

    L’ascesa al trono fu narrata in un’incisione del tempio funerario di Seti i ad Abidos, in cui si legge testualmente quanto segue:

    Il Signore dell’Universo in persona mi consegnò l’Egitto quando ero ancora nell’uovo, costringendo i Grandi a fiutare la terra davanti al mio viso. Poi, come figlio di maggiore età fui ufficialmente investito del titolo di Principe, destinato a occupare il trono di Geb [dio della terra]. Allora cominciai a riferire sulle condizioni dei Due Paesi [Alto e Basso Egitto] come capo della fanteria e dei carri da guerra. Quando mio padre apparve nella sua gloria davanti al nostro popolo disse indicandomi: «Incoronatelo faraone affinché io possa contemplare la sua bellezza mentre sono ancora in vita».

    Quelle parole sono solo uno dei numerosissimi esempi disseminati lungo il percorso di vita e di potere di Ramses. Attraverso di essi il faraone si è raccontato giorno dopo giorno, atto dopo atto, assecondando la necessità di definirsi costantemente e trasformandosi così da soggetto umano/divino a metabolismo vivente da cui tutto partiva e tutto tornava. Detto in altri termini, Ramses esasperò una delle caratteristiche più salienti della civiltà faraonica, la propaganda, le cui virtù i regali protagonisti avevano dimostrato di saper sfruttare fin dalle origini. Ramses divenne dunque sovrano autopoietico per eccellenza, promuovendo sia attraverso le immagini che gli scritti il mito di sé.

    Fu molto probabilmente la cura maniacale del culto della personalità a fare la fortuna del personaggio e renderla ancora intatta dopo più di trenta secoli; oltre, naturalmente, a una debordante longevità di vita e di regno.

    Per il resto ci pensò il suo acume.

    Il faraone guerriero

    Non appena assunto il potere, il faraone ricalcò l’esempio paterno soprattutto nella prosecuzione della politica interna ed estera. Come il genitore, Ramses comprese infatti che la conduzione di uno stato improntata alla prosperità e alla pace poggiava su frontiere sicure e sul soffocamento delle ambizioni dei popoli stranieri.

    Così, se da un lato il primo triennio di governo fu basato sul disbrigo degli affari interni, nei quali moltiplicò gli sforzi in ambito edificatorio, già a partire dal secondo anno il faraone ebbe il suo bel da fare nel contrastare le velleità straniere che, nella fattispecie, si concretizzarono nella minaccia dei pericolosi shardana.

    Era stato il faraone eretico Akhenaton a consegnare alla storia, per la prima volta, il nome Srdn-w, dietro cui si celavano coloro che nel 1350 a.C. apparivano già come pirati e mercenari, pronti a offrire i loro servizi ai signori locali. Sull’origine degli shardana, che unanimemente furono riconosciuti come indomiti guerrieri, unici all’epoca nel difendersi durante i combattimenti con scudi tondi, ancora si dibatte vivacemente. Più di uno storico propende nell’attribuirgli come patria la Sardegna, identificandoli con le popolazione nuragiche, in particolare gli iolei che, insediatisi in tempi remoti nella grande isola del Mediterraneo occidentale, sfruttavano le loro basi per compiere incursioni soprattutto sulle coste egizie.

    Altri ravvisano negli shardana una popolazione di provenienza orientale (presumibilmente caldea), insediatasi in Sardegna solo nel xiii secolo a.C., sovrapponendosi alle genti nuragiche già esistenti con le quali, dunque, non potrebbe essere identificata.

    Indipendentemente da quale dovette essere la tana che li partorì, i cosiddetti popoli del mare subirono una memorabile batosta a opera di Ramses ii più o meno nel 1278, quando, affacciatisi all’altezza del delta insieme ai non meglio identificati Wešeš, furono indotti a riflettere bene prima di riproporre una scorrazzata a quelle latitudini.

    La battaglia navale che sancì la vittoria fu consegnata ai posteri dall’immancabile iscrizione scolpita nel tempio di Tanis, in cui il faraone si preoccupò di sottolineare il suo valore contro «i ribelli shardana che nessuno ha mai saputo come combattere», ai quali ovviamente egli seppe opporre la «forza del suo valido braccio» fino ad annientarli «come se non fossero mai esistiti».

    Per la verità, il buon faraone dimostrò di saper apprezzare le doti di chi pur passando da pirata e predone aveva fama di essere un guerriero ardito e coraggioso. Così, offrendo prova di encomiabile senso pratico, Ramses ii pensò di sfruttare questi loro pregi, inglobando gli sconfitti nel suo esercito in qualità di truppe mercenarie, come testimoniano sia i testi che accompagnano le grandiose scene scolpite sulle pareti dei templi di Luxor, Karnak, Abido ed Abu Simbel, sia quelli incisi su talune stele, una delle quali è nota proprio come stele degli shardana.

    L’impresa, per quanto strombazzata ai quattro venti, fu nulla rispetto a ciò che ancora attendeva il giovane sovrano. All’orizzonte infatti si profilava il nemico che aveva già dato filo da torcere ai suoi antenati: l’impero ittita.

    Thutmosis iii, due secoli prima l’aveva ridotto a una potenza trascurabile, ma già al tempo di Akhenaton quel nemico si era rifatto aggressivo e da allora le sue mire l’avevano costantemente impegnato in Siria e in Cananea, esattamente dove il nascente impero egizio aveva individuato la sua base di espansione. Seti i aveva provveduto a comminargli un’altra batosta ma gli ittiti erano come la proverbiale fenice, sempre pronta a rinascere a nuova vita dalle ceneri.

    Il desiderio di colpire mortalmente queste abominevoli genti fu quindi il primo sogno del giovane Ramses.

    Verso Qadesh

    Durante il quarto anno di regno Ramses iniziò la sua prima Campagna di vittorie che da Ciaru, oggi El-Qantara, lo vide proiettato in Oriente nel Paese di Canaan. Lo scopo era da un lato intimorire le piccole città-Stato dell’area, quelle che assieme alle guarnigioni e agli Stati satelliti più o meno fedeli costituivano la cintura di difesa; dall’altro, stipare viveri e armi nelle basi egizie sparse nella Fenicia, condizione indispensabile per poter operare con un corpo di spedizione più agguerrito.

    L’importanza di certe roccaforti per dominare l’oriente era nota al giovane faraone: Megiddo, Ugarit, Simira, Aleppo, Tunip, Carchemish erano centri carovanieri di primissimo ordine. Ramses li gratificò della sua visita durante l’incursione che non risparmiò Tiro e Byblos; quindi dal Libano si spinse a est, nel Paese di Amurru nell’attuale Siria, prendendo di sorpresa il principe Benteshina che fece atto di sottomissione agli eserciti del faraone.

    Ramses sapeva però che la fortezza da conquistare per togliere l’iniziativa agli ittiti era Qadesh, roccaforte che dominava l’alta valle del fiume Oronte tra le due catene del Libano. Tutti gli eserciti diretti al nord o al sud erano sempre passati per questa via onde evitare lo stretto cammino costiero interrotto dalle foci dei fiumi. Spintosi fino al Fiume del Cane, oggi Mahr el-Kebb nei pressi di Byblos, il faraone si rese conto che con la morte del padre molte cose erano cambiate. I malfidi re della Cananea, sempre pronti a schierarsi con il più forte, avevano accettato per l’ennesima volta la sovranità ittita e proseguire senza il loro appoggio sarebbe stato inopportuno.

    Ramses rientrò dunque in patria attraverso la Fenicia, avendo nell’animo un unico martellante pensiero: organizzare la campagna che avrebbe definitivamente spazzato dalla faccia della terra «gli abitanti della miserabile Terra di Khatti», come erano universalmente conosciuti in Egitto gli ittiti.

    Di ritorno dalla scampagnata d’assaggio, il faraone dunque non indugiò nei fastosi ozi di palazzo ma si pose alacremente all’opera per la realizzazione del suo disegno. Per la verità, chi si spaccò le ossa furono le torme di prigionieri israeliti costretti a fabbricare a un ritmo impressionante i mattoni che servirono all’edificazione della città di Pitom e della nuova capitale Pi-Ramses, voluta da Ramses all’altezza del delta orientale, quindi più a nord delle precedenti, proprio per assolvere a una funzione strategicamente più opportuna, potendo contare su una prossimità di comunicazione con il Mediterraneo e con il mar Rosso.

    Deciso ad aggredire per non essere aggredito, il faraone allestì un’armata formata da ben quattro divisioni, la Amon, la Ra, la Ptah e la Seth, che passeranno alla storia come l’esercito degli dèi.

    Mai nome fu più opportuno, considerato che le truppe si fregiarono del nome e delle insegne delle più importanti divinità egizie: il primo, il cui nome Amon significava nascosto era il dio di Tebe, re degli dèi e beneficiario delle vittorie dei sovrani, rappresentato per l’appunto con una corona di piume sul capo; il secondo, Ra, era il dio del Sole di Eliopoli, raffigurato con la testa di falco sormontato dal disco solare; Ptah era il dio di Menfi, patrono degli artisti e degli artigiani, con il corpo di mummia e uno scettro in mano; Seth infine era il fratello di Osiride, che uccise per gelosia; era ritratto in forma di animale e ritenuto per la sua malvagità il dio della negatività e del caos.

    D’altronde, sarebbe servito tutto l’apporto divino possibile per riuscire nell’impresa di traghettare una forza oscillante tra i venti e i trentamila uomini dall’Egitto all’alta valle dell’Oronte, effettuando uno spostamento che, oltre a richiedere mezzi illimitati, presupponeva un’abilità di comando e organizzazione fuori dal comune: due doti di cui il faraone certamente non difettava.

    L’organico allestito dal volitivo sovrano rispecchiava grosso modo l’impianto classico sperimentato con successo dal grande Thutmosis, il quale si basò su reparti di fanteria leggera armati con arco semplice a doppia curva, contingenti di fanteria pesante muniti di lancia e scudo e soprattutto carri da guerra pilotati da due guerrieri.

    Completavano la compagine trombettieri, portaordini, alfieri con gli stendardi, medici e veterinari, scribi e sacerdoti, asini da soma, carriaggi con viveri, barche e armi di riserva tirati da buoi.

    La suddivisione dell’esercito prevedeva che i carri, circa 2500, fossero ripartiti in 50 unità, a loro volta frazionate in gruppi di cinque; le compagnie di fanti, ognuna delle quali era costituita da 200 uomini comandati da un portastendardo, erano ripartite in gruppi di cento, cinquanta e dieci, a formare dunque più o meno ciò che oggi conosciamo come plotoni, compagnie, brigate e divisioni, partendo dal raggruppamento più piccolo al più grande.

    Va rilevato che mentre i carristi erano tutti egizi, in prevalenza figli di notabili per cui guerreggiare in quel corpo d’élite rappresentava un onore, la fanteria annoverava tra le sua fila un numero elevatissimo di mercenari, fino a comprendere i due terzi degli effettivi. Libici, nubiani, beduini, asiatici militavano in compagnie distinte, vale a dire in raggruppamenti omogenei con i propri comandanti.

    Né poteva mancare a tutto questo una bella guardia reale preposta alla salvaguardia della maestà del faraone: a comporla il fior fiore della gioventù egizia, alla quale si associava, almeno stando a più di una fonte, anche la forza selvaggia di un leone, che salvato in tenera età da Ramses pare non si discostasse da questi neppure per un momento.

    Gli ittiti ovvero il nemico alle porte

    Per comprendere le dimensioni dello scontro che da lì a poco sarebbe deflagrato, bisogna gettare una luce anche su coloro che sinora abbiamo dipinto limitatamente come gli abominevoli Kheta. Nella seconda metà del ii millennio a.C., il regno ittita aveva raggiunto la massima espansione. Partendo dal centro dell’Asia minore, dove ai tempi della probabile migrazione dalle steppe poste a nord del mar Nero essi avevano posto la loro antica capitale Khattushash, poco a oriente dell’attuale Ankara, gli ittiti si erano spinti lungo una direttrice sud-ovest sino a occupare l’intera regione della Mesopotamia e della Siria settentrionale.

    La coesione interna e le relazioni esterne di quel vasto territorio si poggiavano su una rete di rapporti di subordinazione e amicizia regolati da trattati di giuramento e legami familiari, oltre che ovviamente dalla voce sempre ascoltata delle armi. In buona sostanza, il regno ittita era capace di esercitare una forte attrattiva nei confronti degli Stati limitrofi, almeno pari a quella che riusciva a esplicare il regno egizio.

    Si profilò così una situazione in cui la realtà emergente, ovvero il regno ittita, provava a fare le scarpe a quella che almeno dai tempi delle vittoriose campagne di Thutmosis iii era la compagine più influente sullo scacchiere vicino-orientale, vale a dire l’Egitto. Né sarebbe improprio definire la contrapposizione tra i due rivali simile a una guerra mondiale ante litteram, considerato il numero di stati che i due contendenti riuscirono a trascinare sotto i propri stendardi.

    Mentre Ramses preparava alacremente la sua offensiva, il suo omologo ittita, Muwatalli ii, non si perdeva certo in oziose meditazioni o nei piaceri che le sue graziose concubine erano pronte a offrirgli nella favoleggiante casa delle recluse. Le spie lo tenevano costantemente aggiornato in merito alle intenzioni del suo secolare nemico e all’allestimento del corpo di spedizione egizio, contro il quale Muwatalli giudicò saggio opporre, oltre che il suo potente esercito, anche le forze dei suoi alleati dardani, medi, pedasi oltre alle città-Stato di Aleppo, Ugarit e Qadesh. A questa che si profilava come una sorta di confederazione si sommò un nutrito gruppo di mercenari, nella maggior parte provenienti dall’Anatolia e dalle regioni delle coste dell’Egeo, oltre agli arawana, un popolo confinante con la Siria, e i wilusa, coloro che impareremo a conoscere con il nome di troiani, che all’epoca, inglobati nel regno ittita erano giudicati ottimi combattenti.

    Insomma, il re ittita aveva apparecchiato una forza che verosimilmente annoverava 30.000 effettivi, con la quale si apprestava ad accogliere caldamente gli egizi contando anche sul vantaggio non indifferente di giocare in casa, su un terreno che conosceva a menadito. Contro di essa, gli egizi si mossero alla fine di aprile del 1275, corrispondente al quinto anno di regno di Ramses. Da Pi-Ramses, passarono in Canaan e da lì raggiunsero le fonti del Giordano, oltre il lago di Tiberiade, per risalire la valle della Biqaa, tra il Libano e l’Antilibano, puntando sulla città di Kumidi. Quindi deviarono verso Qadesh.

    La battaglia più famosa della storia antica egiziana

    Ciò che avvenne nella piana antistante la fortezza fu considerato da Ramses l’avvenimento militare più saliente del suo regno e dunque riprodotto con dovizia di particolari sulle mura dei suoi templi di Abido, Karnak, Abu Simbel, Luxor e nel Ramesseum. Come se ciò non bastasse, l’evento fu riportato in ben quattro opere: il Poema di Qadesh, il Poema di Pentaur, il Bollettino di Qadesh e il Trattato di Qadesh. In totale, sono giunte a noi tredici versioni che, combinando i modi letterari del poema e del bollettino alle vivide ricostruzioni delle rappresentazioni visive, hanno reso questa battaglia l’episodio bellico meglio documentato della storia egiziana. Grazie all’abbondanza di queste fonti, siamo dunque in grado di ricostruire quegli avvenimenti quasi con occhio documentaristico.

    Scopriamo così che nel momento in cui l’avanguardia egizia raggiunse la valle dell’Oronte, il cocchio dorato di Ramses era tra quelle fila, seguito dall’inseparabile guardia reale. Qadesh era dall’altra parte del fiume, molto più a nord ma il focoso faraone, al pari dei suoi due cavalli Vittoria in Tebe e Delizia di Mut, mordeva il freno: voleva precipitarsi da solo sotto le mura di Qadesh e chiederne la resa, dimostrando ai nemici che il figlio di un dio potente come Amon era invincibile.

    Fortunatamente per lui i consigli prosaici del suo scudiero Menna lo riportarono con i piedi per terra: il soldato rilevò l’opportunità di raffreddare i bollenti spiriti considerando che la divisione Amon era ancora a due giorni di marcia, la Ra fosse ancora più indietro e la Ptah e la Seth avrebbero dovuto ancora camminare per due archi di luce prima di essere della partita.

    Ramses accolse il suggerimento, anche perché la notte incombeva. Allora guadò il fiume, portandosi sulla riva sinistra dove si stagliava il bosco di Rotawi che, setacciato dalle sue pattuglie risultò essere disabitato. Proseguì oltre e indugiò nel villaggio di Sabtuna, oggi Riblan, un’isola avvolta nel silenzio dove i raggi del sole morente accarezzavano i canali irrigui tra il verde dei prati e le case senza vita: chiunque sapeva che con l’arrivo del re-dio d’Egitto si sarebbe scatenata la tempesta e aveva pensato fosse molto salutare non assistere all’evento.

    Dopo aver riflettuto su questa ineluttabile verità, Ramses ordinò di allestire il campo, formato come d’usanza da un quadrilatero sul cui perimetro venivano piantati gli scudi per impedire eventuali incursioni della cavalleria nemica. Al centro il padiglione reale, circondato dalle tende degli altri dignitari, intorno i fuochi di bivacchi al cui calore si sarebbero sdraiati i soldati, protetti dal pattugliamento delle guardie.

    Nell’intimità del suo ricovero, difeso a vista dalle guardie shardana, il giovane faraone ascoltò con distacco i suoi consiglieri che gli intimavano prudenza, rammentandogli quanto si fosse spinto troppo oltre in terra straniera e ammonendolo in merito alle sorprese che una vecchia volpe come Muwatalli aveva sicuramente in serbo.

    Ramses probabilmente infisse i suoi occhi di falco in quelli degli interlocutori e dopo aver scosso la mascella aggressiva, sormontata dal naso aquilino lungo e sottile che lo contraddistingueva, si eresse nella sua non trascurabile statura di un metro e ottanta, dalla quale torreggiando dovette esprimere un cenno di noncuranza. Faraone dell’Alto e del Basso Egitto, re dei re, figlio prediletto di Amon e Toro Possente, egli vedeva già il vile nemico strisciargli ai piedi supplicando pietà.

    Rimasto solo, in attesa di scivolare nel sonno che non veniva e stretto dall’angoscia della vigilia, Ramses si abbandonò ai ricordi delle gesta di Thutmosis iii, il grande faraone vincitore di ben diciassette campagne contro i popoli asiatici, nelle quali ogni battaglia si rivelò un capolavoro tattico e strategico. In particolare, la presa di Megiddo suscitava l’invidia e l’ammirazione del giovane Ramses, conquistata da colui che non impropriamente potrebbe essere definito come il Napoleone d’Egitto, con un’astuzia straordinariamente efficace.

    Quando si trattò di pianificare la conquista della fortezza, Thutmosis, acquartierato di fronte al monte del Carmelo doveva scegliere quale strada intraprendere per la sua avanzata. Aveva tre opzioni: proseguire per la strada che portava a Damasco, la più semplice poiché si stagliava in pianura, attraverso un percorso privo di sorprese; avanzare lungo il sentiero che si snodava tra i monti poco più a nord, un tragitto agevole che si inerpicava dolcemente offrendo il vantaggio di dominare la zona; oppure incedere per l’impossibile via che attraversava Aruna, un inferno che si ficcava in una gola in cui i carri sarebbero stati costretti a marciare in fila per uno, tra pareti a picco, dirupi e strapiombi allucinanti, lungo un cammino che avrebbe consentito a uno sparuto manipolo nemico di annientare l’intero corpo di spedizione qualora fosse stato ben appostato sulla sommità delle creste.

    Thutmosis giocò d’azzardo e intuendo che i rivali non l’avrebbero mai considerato così sciocco da imbottigliarsi in quella trappola mortale, scelse proprio la strada per Aruna che, secondo le sue previsioni, si rivelò sgombra per quanto disagevole. Il piano pazzesco riuscì in pieno e così gli egizi poterono piombare indisturbati alle spalle della roccaforte che colta di sorpresa capitolò.

    Ramses però non era Thutmosis e i suoi consiglieri avevano ragione: si era spinto troppo oltre e ora il dubbio lo sfiancava. Sdraiato sul lettino da campo tese l’orecchio, cogliendo il sommesso chiacchiericcio degli shardana e poco più oltre lo scambio di battute appena udibile con il quale le guardie rassicuravano che non c’era nulla da segnalare.

    Il dubbio lasciò il posto a un cauto ottimismo. All’alba del giorno successivo, mentre le sue divisioni erano ancora lontane, sfilacciate lungo la valle, Ramses si rimise in marcia, attraversò la foresta di Robawi e pose di nuovo il campo nella piana antistante Qadesh.

    Due beduini dell’esercito ittita, catturati poco prima, rassicurarono anche i luogotenenti più meticolosi: Muwatalli e l’intero esercito erano lontani, nei pressi di Halab (Aleppo), di cui stavano allestendo la difesa convinti che gli egizi l’avrebbero attaccata.

    Nonostante i resoconti degli esploratori che gli riferirono che piccoli contingenti di ittiti si aggiravano guardinghi nei pressi, Ramses si persuase che la rocca di Qadesh fosse sguarnita. Senza neppure attendere l’arrivo del resto della divisione Amon, il faraone prese la sua guardia reale e il primo corpo di Amon da lui comandato, chiamato Potere degli archi, con i quali si spinse fin sotto le mura della fortezza. Quei bastioni, tra i cui merli scorse pochi elmi, erano riusciti a incutere timore anche a suo padre Seti. Per lui sarebbe stato diverso: al pari di Thutmosis sarebbe penetrato insieme ai Valorosi del re attraverso una breccia che si accingeva ad aprire.

    Almeno nella sua fantasia, visto che la realtà di lì a breve sarebbe stata ben differente.

    Due spie ittite, infatti, catturate nel frattempo rivelarono un’amara verità: Muwatalli non stava affatto ad Aleppo. Era anzi nascosto a un tiro d’arco a nord-ovest, al riparo di una collina che dominava la fortezza dove tremila carri e una marea di fanti attendevano frementi un suo cenno. Ramses si accorse troppo tardi di aver agito con l’ingenuità di un novellino alle prime armi, cadendo nell’abile trappola apparecchiata dal sovrano ittita che molto probabilmente aveva pagato i beduini della zona per diramare informazioni false sulla sua posizione.

    Muwatalli lasciò così sfilare la divisione di Amon che si ricongiunse con il faraone; evitando di attaccare il campo egizio, di cui peraltro ignorava gli effettivi, il re ittita mosse il suo esercito a intercettare la divisione Ra, che al momento doveva attardarsi ancora nella foresta di Robawi mentre le altre due arrancavano drammaticamente più dietro, addirittura al di là del fiume oltre Sabtuna.

    Ramses inviò subito messaggeri per affrettare l’arrivo dell’accorrente divisione; quindi si accingeva a sfogare la propria collera contro l’improvvido servizio di informazione quando la terra cominciò a tremare.

    Muwatalli aveva lanciato i suoi carri verso sud, lungo la riva destra dell’Oronte, con l’ordine di guadare il fiume e sbarrare il passo alla Ra che, forse perché smaniosa di arrivare e congiungersi con il proprio sovrano, forse provata dalla marcia veloce che aveva richiesto Ramses, forse perché colta al principio dell’attraversamento del fiume, si ritrovò sfaldata, disomogenea e poco pronta a reagire a un attacco: i 2500 carri ittiti, guidati da tre uomini di equipaggio e molto più pesanti e adatti allo sfondamento rispetto a quelli egizi, limitati solo al lancio di frecce, si abbatterono come un uragano.

    Nonostante la forsennata corsa degli egizi costringesse i carri nemici a un’ampia manovra di accerchiamento, questi ebbero presto ragione della Ra, sulla quale esercitarono una pressione che costrinse i superstiti a ripiegare velocemente e disordinatamente proprio verso il campo, in cui stazionava il faraone.

    Ai carri che ormai convergevano decisi verso nord, si associò anche l’iniziativa di Muwatalli che, abbandonata la sua posizione da dietro la rocca, toglieva l’ultimo spazio utile di manovra alla Amon e al suo incauto comandante, che ormai si trovava stretto in una morsa.

    In quel frangente Ramses fu il solo a non perdere la testa.

    Di fronte allo spettacolo dei suoi uomini pallidi, contratti e pronti a darsela a gambe egli riuscì a organizzare uno straccio di difesa. Cinta la corazza e salito sul suo cocchio dorato, si ritrovò solo, fatta eccezione per i pochi shardana che si riveleranno per l’ennesima volta preziosissimi; a sud intanto una nube di polvere oscurava il cielo e il frastuono rimbombava sempre più terrificante.

    Più che il fragoroso intervento del dio Amon, indebitamente scomodato dallo scriba Pentaur durante l’estensione del suo poema redatto al tempo del successore di Ramses, Merenptah, ciò che salvò il faraone in quel momento critico fu l’eccessiva prudenza con la quale Muwatalli, preoccupato dall’arrivo di eventuali alleati nemici, non affondò il colpo, mantenendo in sostanza una sorta di situazione di stallo.

    Quell’esitazione consentì a Ramses di approntare alla bell’e meglio un cordone che salvaguardasse l’accampamento, affidandone il compito alla fanteria ausiliaria. Quindi, aggiogati al suo carro i suoi cavalli migliori, si gettò con una manovra disperata contro il nemico ormai incombente, seguito dagli shardana più fedeli della sua ombra.

    L’urto con la cavalleria avversaria fu devastante: tra cocchi sfasciati, urla di guerra, nitriti di cavalli, ordini gridati e lamenti invocati la battaglia entrò nel vivo. Ramses sembrò davvero pervaso dagli dèi, simile a Baal nel giorno della sua vendetta. O piuttosto va ammesso che la sua reazione fu talmente repentina da prendere in contropiede il nemico che lo considerava ormai spacciato. Come che sia la controffensiva riuscì e permise al faraone scatenato di sbaragliare l’avanguardia rivale e puntare direttamente al cuore dello schieramento ittita.

    Anche in questo caso, piuttosto che il divino furore fu l’ingordigia terrena l’alleata più proficua per Ramses, che vide le file nemiche sfaldarsi mentre i carristi avversari abbandonavano le postazioni per puntare sul campo egizio e azzuffarsi nella spartizione del bottino.

    Fu in quel momento che da sud spuntarono gli stendardi della divisione Ptah, mentre da ovest giungeva un corpo d’assalto egizio, inatteso dallo stesso Ramses: erano le reclute che, desiderose di combattere, avanzavano con il fuoco nel sangue.

    Le sorti della battaglia si capovolsero in un attimo. Gli ittiti intenti a far man bassa vennero decimati; altri tentarono il contrattacco ma erano ormai divisi e circondati. Muwatalli però, che orchestrava le operazioni dalle retrovie, disponeva ancora di 1000 carri lasciati di riserva, vale a dire 3000 uomini e 2000 cavalli.

    Inspiegabilmente però, tutta quella potenza fu convogliata in un settore sfavorevole, stretto tra la Ptah e il contingente di reclute che ne disinnescarono immediatamente la carica. Il cattivo utilizzo di quei reparti, che se impiegati differentemente avrebbero probabilmente consacrato la vittoria ittita, è stato spesso ascritto all’incapacità di Muwatalli di leggere l’andamento dello scontro: molto più verosimilmente, l’errore marchiano andrebbe invece imputato al fatto che nonostante la posizione privilegiata sulla quale il sovrano ittita era appollaiato, la visibilità sulla piana doveva essere scarsa o quantomeno insufficiente a cogliere appieno le opportune valutazioni.

    Morale della favola, prima che potesse giungere la divisione Seth il campo di battaglia era una necropoli. Di fronte a quella mattanza, uno sconsolato e sgomento Muwatalli si rifugiò dentro Qadesh, mentre Ramses rivolgeva al dio Amon i ringraziamenti per una vittoria insperata.

    Ciò che successe il giorno dopo agita ancora i sogni degli storici a più di trentadue secoli di distanza. A dispetto dell’abbondanza delle fonti, o forse proprio a causa di queste, tre versioni circolano in merito all’esito dello scontro. La prima interpretazione, peraltro poco gettonata, vuole i due eserciti scontrarsi il giorno seguente sulla piana, uno di fronte all’altro, con gli egizi a usare anche i carri pesanti dei nemici: la battaglia, cruenta ed eterna, avrebbe visto alla fine uno sparuto contingente ittita andare in rotta, lasciando un altrettanto sparuto contingente egizio a leccarsi le ferite più che esultare per la vittoria.

    La seconda propende per una ritirata egizia, propiziata dalla visione dell’enormità dell’esercito ancora disponibile per Muwatalli, e dalla consapevolezza che sarebbe stato impossibile contrastarlo con soldati stremati dalla marcia e dalla precedente schermaglia.

    La terza infine sostiene la vittoria abbastanza netta dell’esercito ittita, che affrontando il giorno seguente il nemico riuscì ad accerchiare Ramses e a metterlo talmente alle strette da costringerlo a dileguarsi, pur salvando quello che gli restava dell’esercito.

    Al di là dei prodigiosi sforzi incisori con i quali gli egizi magnificarono il coraggio e l’impresa del proprio faraone sia su papiro che su pietra, sembra che la vulgata più accreditata fosse proprio l’ultima.

    Ramses in effetti fallì su tutta la linea. Innanzitutto sul piano tattico. Ancora ci si chiede come mai, durante la marcia di avvicinamento, non ignorando che l’esercito ittita fosse agguerritissimo e condotto da capi valorosi, il faraone avesse frazionato con tanta ingenuità le sue forze. Arrogante noncuranza del nemico? Pessimo servizio di spionaggio? Eccessiva valutazione del proprio prestigio e della propria autorità di re-dio? Forse un po’ di tutto ciò.

    Se non altro, l’andamento di quella drammatica battaglia fornì l’occasione per rispondere a una questione non di scarso rilievo per tutti gli appassionati di cose militari: in una guerra di movimento, il comando delle operazioni deve essere all’avanguardia o nelle retrovie? Almeno per ciò che riguarda Qadesh la risposta appare scontata.

    Se Ramses non avesse lanciato costantemente il proprio cocchio nella lotta, trascinandosi dietro gli altri carri, difficilmente sarebbe sopravvissuto al disastro che si stava profilando. E almeno in ciò va spezzata una lancia in suo favore, ammettendo che egli seppe far fronte a una situazione disperata reagendo prontamente. D’altro canto ciò fu abbondantemente concesso dagli errori commessi dal suo antagonista, che al di là delle giustificazioni che abbiamo tentato di addurre precedentemente si rivelò più comandante da tavolino che non animale da battaglia. Pur avendo diretto con molta abilità le azioni della sua cavalleria, Muwatalli infatti non fu in grado né di prevedere l’arrivo delle truppe d’assalto egizie, né – e questo fu l’errore imperdonabile – di arginare i suoi uomini quando si abbandonarono al saccheggio prima di avere avuto la vittoria in pugno.

    Di fatto la sua assenza fisica dallo scontro ebbe un peso notevole, che tuttavia non gli impedì di prendere la decisione giusta nel momento cruciale della battaglia, in cui rinunciò a impiegare la fanteria a sua disposizione quando si accorse che i suoi carri erano ormai in rotta.

    Sebbene Muwatalli potesse contare su una superiorità di carri schiacciante, 3500 contro i 2500 di Ramses, scontava al contrario una desolante inferiorità di fanti: 8000 contro 20.000. Le gravissime perdite subite dalla cavalleria devono averlo consigliato giustamente a non rischiare e a impiegare molto più fruttuosamente quel contingente nella difesa della rocca di Qadesh.

    Con buona pace di tutti gli innamorati del meraviglioso, che attribuirono la sua ritrosia al terrore che gli avrebbe infuso Ramses nel corso della battaglia, rivelandosi come incarnazione di Baal che, incurante delle frecce e dei giavellotti, seminava la morte e il caos in tutto il campo. Al contrario, il redivivo dio del caos fu ben contento di ricevere la proposta di armistizio che Muwatalli gli consegnò all’indomani della battaglia, riuscendo così per il rotto della cuffia a salvare quel poco di onore che gli era rimasto, considerato il metodo di approccio alla guerra quanto meno dilettantesco.

    Che quella pace fosse una manna più per gli egizi che non per gli ittiti lo dimostrarono i fatti immediatamente successivi, che misero in evidenza quanto il fallimento di Ramses fosse rilevante anche in ambito strategico. Egli infatti non solo non riuscì a indurre a più miti consigli il nemico, fallendo nel suo proposito di sottrarre agli avversari sia Amurru che Qadesh, ma addirittura dovette subire l’iniziativa degli ittiti, che riuscirono ad allargare la propria influenza fino a Damasco, compromettendo le mire egizie in territorio asiatico e modificando nei fatti il confine a proprio vantaggio.

    Al contrario, mentre Muwatalli destituiva il principe di Amurru, Benteshina, ponendo su quel trono il più compiacente Shapili, con il quale di fatto cancellava la provincia egizia di Upi, Ramses aveva il suo bel da fare nel contrastare le alzate di testa dei riottosi popoli confinanti, ringalluzziti dalla perdita di prestigio subita a Qadesh.

    Guerre di mantenimento

    I due anni successivi furono impiegati nel sedare le ribellioni a oriente del delta, dove gli israeliti irrequieti tentavano di scrollarsi un giogo al quale non si erano mai assuefatti e i beduini compivano razzie nei villaggi di confine. A occidente la situazione non era certo più rosea, considerato come i libici non avessero atteso che un cenno di debolezza per razziare bestiame e devastare le città.

    Per fronteggiare queste minacce, soprattutto quelle occidentali, Ramses fu indotto a costruire una serie di fortezze costiere, da Rakotis a Marsa Matruth, con l’intento di controllare e possibilmente contenere gli spostamenti delle tribù nomadi. Quando poté di nuovo dedicarsi alla Siria, nel frattempo trasformata in un vero e proprio baluardo antiegizio, era ormai giunto al settimo anno del suo regno. Nella prima delle numerose campagne che egli intraprese nell’area si dovette confrontare con i nuovi regni locali di Moab ed Edom-Seir, da tempo legati a doppio filo con gli ittiti, oltre alle bande di guerrieri Shosu dedite a frequenti incursioni in Canaan. Per averne ragione, Ramses ricorse a un’incursione in cui sdoppiò il proprio esercito in due tronconi, con l’intento di adottare una manovra a tenaglia.

    Un corpo d’armata, comandato dal figlio Amonherkhepeshef, si lanciò alla caccia degli Shosu attraverso il Negev sino al mar Morto, nei pressi del quale prese Edom-Seir per poi avanzare in Moab fino a Raba Batora. Contemporaneamente Ramses marciava su Gerusalemme e Gerico, entrava in Moab da nord, prendeva Dibon e si ricongiungeva infine con il figlio. I due eserciti marciarono poi uniti su Hesbon e Damasco, attraverso il Paese di Ammon, giungendo a impadronirsi di Kumidi. Al termine della spedizione, finalmente vittoriosa, gli egizi riuscirono quindi a ripristinare la provincia di Upi e ad affacciarsi di nuovo prepotentemente nella zona.

    Lo slancio determinato da quel primo successo fu consolidato l’anno successivo, nella seconda campagna che vide il rafforzamento delle posizioni siriane. Ramses superò i monti della Galilea e occupò Acri; da lì risalì verso nord lungo la costa, assicurandosi durante il passaggio la fedeltà di Tiro, Sidone, Byblos, Irqata e Simyra, a nord del Nahr el-Kelb. Giunse fino a Dapur, dove si concedette alla vanità di erigere una statua che lo effigiasse e infine raggiunse addirittura Tunip, un luogo in cui da almeno centoventi anni nessun egizio aveva osato mettere piede.

    Tanta libertà di manovra fu il frutto, oltre che della caparbietà del faraone, delle ambasce nelle quali in quel frangente versava il rivale ittita, alle prese con la crescente pressione esercitata sulle sue frontiere dall’arrembante regno d’Assiria.

    Il suo sovrano, Adad-Nirari i, aveva infatti sottomesso Hanigalbat, ossia il centro del regno di Mitanni tra il Tigri e l’Eufrate fino a quel momento fedele a Muwatalli, e minacciava prepotentemente le frontiere dello Stato ittita attraverso una spinta espansionistica che si sarebbe protratta anche sotto il successivo monarca Salmanassar i.

    Gli ittiti, insidiati a oriente, assistettero praticamente impotenti allo sfaldamento delle loro posizioni in Siria, dove sotto l’avanzata dirompente degli egizi Benteshina ritornava sul trono mentre anche in Naharina perdevano terreno.

    Come se ciò non bastasse, una furiosa crisi dinastica minò le fondamenta ittite anche dall’interno. Alla morte di Muwatalli, avvenuta nel 1272 al termine di una lunga quanto sconosciuta malattia, il figlio da questi procreato con una concubina, Urhi-Teshub, gli succedette con il nome di Mursili iii, escludendo dal trono lo zio Hattusili che, in quanto fratello del defunto, aveva più che un pallido diritto di ascendere al potere. Nei sette anni successivi, fino al 1265 il regno ittita naufragò sempre più in un’incessante contesa nella quale zio e nipote se le diedero di santa ragione, consentendo a egizi da un lato e assiri dall’altro di approfittare dello stillicidio e di rafforzare ulteriormente la propria influenza estera.

    Alla fine prevalse Hattusili, che divenuto re con il titolo di Hattusili iii si preoccupò di allontanare il pericoloso congiunto esiliandolo a Cipro e poi tese una mano verso Salmanassar di Assiria proponendogli la pace. Fu probabilmente per scongiurare una pestilenziale alleanza – molto più che non il fatto che Urhi Teshub si fosse rintanato in Egitto, provocando la reazione dello zio che ne chiese immediatamente l’estradizione –, che Ramses, nel corso del diciottesimo anno del suo regno, decise di intervenire a piè pari nelle faccende ittite.

    Ricordandosi improvvisamente di essere l’incarnazione della furia di Baal egli radunò un esercito e mosse guerra contro Edom e Moab, di cui ebbe ragione in breve tempo stroncando la ribellione dei principi locali. Ciò indusse Hattusili a più miti consigli e accelerò il processo che portò finalmente alla conclusione di quel trattato di pace alla cui stesura le cancellerie egizie e ittite stavano lavorando ormai da più di quindici anni. Alla ratifica si giunse infine nel ventunesimo anno del regno di Ramses.

    Una pace fuori dalle righe

    Il documento partorito dopo tanto penare, appare straordinario sotto molteplici aspetti. Innanzitutto costituisce l’unico esemplare di cui disponiamo, il che per una storia millenaria come quella egizia in cui di trattati devono essere stati redatti a bizzeffe ha quasi dell’incredibile. In secondo luogo, rappresentò il primo documento bilaterale che la Storia ricordi, vergato tra due stati di pari livello che attraverso di esso ponevano fine, almeno formalmente, non tanto al conflitto militare, esauritosi da più di un decennio, quanto allo stato di tensione tra le due superpotenze, paragonabile al clima che si respirò in tempi molto più recenti durante la Guerra Fredda.

    Infine, tutte le diciannove clausole che componevano i quattro capitoli in cui era strutturato lo scritto sono giunte a noi attraverso la doppia versione egizia e accadica cuneiforme, il che se da un lato sancisce la ferrea volontà dei due contendenti di affidare alla memoria una testimonianza che consideravano preziosissima, dall’altro rappresenta una manna per tutti gli esegeti, che hanno la possibilità di appurare la veridicità di quanto vergato attraverso la discriminante delle reciproche stesure.

    Dal verbale relativo alla sua consegna al faraone, che lo ricevette in quel di Pi-Ramses, sappiamo inoltre che il trattato fu vergato ad Hattusa, nella capitale ittita, e consegnato a Ramses da tre funzionari, l’ittita Tiliteshub, l’egizio Ramose e un diplomatico originario di Karkemish dal nome di Yapushili, che costituiva una sorta di sintesi dei primi due essendo un ittita con radici egizie. Costoro consegnarono una copia che, con evidente rispetto nei confronti della maestà del faraone, fu incisa su una tavoletta d’argento: immaginiamo che in identica foggia fosse recapitata al cospetto del signore di Hattusi.

    Sebbene gli originali siano andati perduti, le corrispettive traduzioni su pietra o papiro sostanzialmente convergono nella riproposizione dei vari punti, a dimostrazione di quanto la buona fede dei contraenti fosse reale. Scopriamo così che entrambi i sovrani si impegnarono a non violare mai più i rispettivi confini, presupponendo dunque che la linea di demarcazione, negoziata dagli ambasciatori, corrispondesse alle zone d’influenza acquisite dai due avversari prima della stesura delle clausole.

    Si stabiliva inoltre un principio di mutua alleanza in cui le due potenze assicuravano il proprio intervento nel caso in cui ognuna di esse subisse aggressione da parte di terzi. Questa clausola svelò incontrovertibilmente quanto la molla della creazione dell’asse egizio-ittita fosse il reciproco timore dell’invadenza di un terzo incomodo, vale a dire lo Stato assiro sempre più manifestamente intraprendente.

    Scorrendo velocemente gli altri punti, tra i quali compare un interessante articolo in cui Hattusili si premurò affinché Ramses e i suoi successori evitassero di intervenire negli affari interni ittiti soprattutto in merito alla successione al trono, un passaggio che sino a quel momento si era dimostrato piuttosto intricato, si giunge alle clausole che rendono il documento una vera e propria sorpresa, considerato il tempo in cui vennero stilate.

    Una nutrita parte del trattato si occupa infatti del comportamento da adottare in merito all’estradizione dei rifugiati nei due paesi, una pratica che evidentemente non si dovette limitare al solo caso di Urhi-Teshub, ma riguardava un fenomeno abbastanza diffuso. Fu così che per arginare un avvenimento che noi oggi definiremmo asilo politico, entrambi i contraenti si impegnavano a rispedire al mittente i reciproci estradati. Fin qui nulla di eccezionale: ciò che invece sorprende è come, continuando la lettura del documento, si giunga dopo l’immancabile elenco degli dèi chiamati a suggellare la veridicità e la garanzia di quanto pattuito, a un’ultima clausola relativa alla riproposizione del tema degli estradati, lasciati appesi al loro destino negli articoli precedenti; su di essi sarebbe stato lecito aspettarsi un trattamento poco invidiabile, una volta rientrati nei paesi di appartenenza. Invece, la soluzione che i due sovrani proposero, fu largamente inaspettata soprattutto per chi abbia la tendenza a immaginare che il mondo orientale dell’epoca fosse dominato da un potere dispotico e crudele. Quanto stilato in quella circostanza getta una luce inattesa sulle dinamiche del tempo, rivelando un volto del potere inopinatamente magnanimo.

    Sia Ramses che Hattusili tennero infatti a incidere, sull’argento o pietra, che ciascuno dei fuoriusciti, una volta riconsegnato, appartenente a qualsiasi ceto, di qualsiasi età e di qualunque sesso, non avrebbe subìto alcuna punizione né attraverso l’alienazione di qualsiasi bene materiale, né tanto meno attraverso l’applicazione di alcun supplizio corporale, specificando che né occhi, né orecchie, né bocche, né piedi sarebbero stati martoriati.

    La rettifica lascia intendere che prima della stesura tali pene erano inflitte con disinvoltura, soprattutto in merito al crimine in oggetto che invece, proprio a partire dal trattato, fu derubricato dal novero delle colpe, a testimoniare quanto l’impegno alla distensione profuso dai sovrani fosse concreto. Una risoluzione del genere risulta un esempio più unico che raro non solo in merito alla storia egizia ma nel novero della Storia in generale.

    Se lo scopo di quel contratto fu il raggiungimento di una condizione di pace durevole, addirittura di fratellanza, bisogna ammettere che colse nel segno. Non solo i due Stati non si combatterono più durante tutto il regno di Ramses, che sappiamo essere di lunghezza eccezionale, ma era ancora in vigore ai tempi del successore Merenptah, che addirittura si premurò di procacciare ingenti riserve di grano per arginare la carestia che stava flagellando i nemici di un tempo, piegati da un difficile periodo di magra.

    Il crescente livello di concordia tra le due nazioni si registrò già all’indomani della stipula del trattato, quando le due famiglie regnanti intesserono legami strettissimi, suggellati da una copiosa corrispondenza epistolare e da un nutrito scambio di doni, che si intensificò quando a partire dal trentaquattresimo anno del suo regno, l’anziano Ramses sposò la figlia maggiore di Hattusili trasformando quel sodalizio in parentela.

    Lo stato di grazia che ne seguì fu ricordato a lungo come una vera e propria età dell’oro sia dai contemporanei che dai posteri, in cui Ramses poté consacrare la sua immagine di re-dio, ereditata dall’Antico regno e per molti versi filtrata attraverso l’esperienza dell’eretico Akhenaton, dedicandosi alla costruzione di un Egitto potente e pacificato.

    Certo, per raggiungere questo scopo dovette pagare un prezzo, vale a dire trattare il re ittita come un suo pari, una cosa mai accaduta nei precedenti rapporti tra il regno delle piramidi e gli altri Stati. Ma il gioco valse la candela e Ramses era un sovrano paziente, che seppe riprendersi la sua rivincita proprio in occasione delle nozze con la principessa asiatica, quando le fonti si preoccuparono di presentare quell’unione come una sorta di teogamia tra un dio e una donna mortale, celebrata con una funzione fantasmagorica in cui la figura del suocero appariva fortemente ridimensionata.

    Dopo di ciò, almeno dal punto di vista militare ci fu davvero poco da segnalare, se si esclude una precedente rivolta scoppiata a Irem nel ventesimo anno del regno, duramente repressa come testimoniarono i 7000 prigionieri, e l’incursione che nel quarantaquattresimo anno di regno il viceré di Setau dovette compiere contro i Ciemehu, libici della Marmarica. Per il resto, quello che ormai si poteva definire come impero egizio si estese sotto il dominio di Ramses dalla quinta cataratta del Nilo a sud fino alla Siria a nord, includendo tutta la Nubia, le cui miniere d’oro alimentarono generosamente il tesoro del faraone.

    Fu anche in virtù di tale ricchezza che l’opera edificatoria di Ramses si poté esprimere quasi senza paragoni.

    Palazzi, palazzi e ancora palazzi

    Come già anticipato, uno dei primi interventi a cui il faraone pose mano fu la costruzione della nuova capitale Pi-Ramses, letteralmente la Casa di Ramses, sul sito in cui già suo padre Seti aveva iniziato a edificare un palazzo di cui restano ancora poche vestigia. Sulle motivazioni dell’edificazione, relative alla politica internazionale, abbiamo già scritto, ma va aggiunto che a queste si sommarono intenti di squisita motivazione interna: l’abbandono di Tebe, la precedente capitale, era legato alla volontà di prendere le distanze dal luogo che aveva costituito il centro del potere della casta sacerdotale capace di opporsi all’autorità del faraone, e rispecchiava al contrario l’intenzione di valorizzare una nuova ubicazione che, posta sul ramo orientale del delta, da un lato ribadisse la regalità di Heliopolis e Menfi, dall’altro consacrasse le origini della famiglia dominante che proprio in quell’area, ad Avaris, affondava le sue radici.

    Il consolidamento della città fu solo l’inizio delle opere destinate a eternare Ramses nei secoli, alle quali seguirono gli splendori di Luxor, Karnak, Abu Simbel per tacere del Ramesseum, l’imponente tempio funerario che il faraone fece costruire sul lato occidentale di Tebe, divenendo ciò che Diodoro Siculo chiamò la Tomba di Osymandyas, corrompendo nella forma greca la formula User-maat-re Setep-en-re presente in una delle braccia delle ciclopiche statue che raffiguravano il faraone.

    Basterebbe seguire le peregrinazioni di quel nome, Osymandyas, capace di suggestionare i versi di Shelley o in termini più recenti e più pop la penna di Alan Moore e della sua fortunatissima graphic novel Watchmen, per rendersi conto di come la gloria di Ramses si sia stratificata nel tempo sedimentandosi nella memoria collettiva attraverso sentieri a volte inaspettati. Qui basti ricordare che l’influenza del faraone fu talmente ipertrofica che non solo Ramses disseminò il regno di vestigia architettoniche, ma letteralmente inondò l’Egitto con il suo seme, spargendo ben cento figli ottenuti dall’unione con un numero altrettanto significativo di mogli.

    Certo, i pargoli dovettero scontare la iattura di un genitore incredibilmente longevo, visse per oltre ottantadue anni. Fu così che molti designati a prenderne il posto non sopravvissero al padre, il quale sebbene orgogliosamente li omaggiasse nelle stesse sculture, ritraendoli come piccole riproduzioni di se stesso intente in atti straordinariamente eroici, quasi a moltiplicare per estensione la grandezza di chi li aveva generati, sembrò quasi risucchiare le energie vitali della sua prole per protrarre in un tempo indefinito la sua esperienza di vita.

    Tale destino scontò dunque il primogenito Sethherkhepshef, che eletto principe ereditario nel diciannovesimo anno di regno paterno resistette fino al venticinquesimo quando, morto prematuramente, fu sostituito dal fratello Ramses. Costui, sebbene portasse il nome benedetto del padre era destinato ad avere minor fortuna, scomparendo anch’egli nel trentesimo anno e lasciando l’ingombrante fardello al fratello Khaemuaset. Inutile dire che la sorte di quest’ultimo non fu diversa: conosciuto come uomo di grandissima cultura, costui, divenuto sacerdote di Ptah ebbe l’onore di organizzare ben nove dei giubilei che il padre promosse dal trentesimo anno del suo regno, assecondando la tradizione egizia secondo la quale a partire da quella fatidica data, ogni faraone era tenuto a riproporre quella festa conosciuta come Heb-Sed per dimostrare quanto ancora fosse valida la sua vigoria fisica.

    Considerato quanti ne seguirono non ci sentiamo di avanzare dubbi in merito.

    Non così il povero Khaemuaset, che strinse i denti fino al cinquantacinquesimo anno di regno per poi soccombere a sua volta, scaricando la patata bollente dell’eredità a Merenptah, il tredicesimo figlio per linea dinastica. Fu costui a succedere al padre. Ramses ii morì infatti il diciannovesimo giorno del primo mese della stagione di Akhet, più o meno il 1° settembre dell’anno 1213 a.C., gettando nel panico il suo popolo, la gran parte del quale non aveva conosciuto altro sovrano all’infuori di lui. Settanta furono i giorni dedicati alla pratica della mummificazione, al termine dei quali un imponente corteo fluviale si mosse alla volta della Valle dei re giungendo a Tebe, dove i resti del faraone furono collocati in una sontuosa tomba, oggi nota come la kv7 all’interno del tempio alla cui costruzione si era così amorevolmente dedicato in vita.

    Fine? Neanche per sogno.

    (Dis)avventure post mortem

    Trascorsi più o meno duecento anni, al tempo della xx Dinastia, Tebe fu teatro di disordini durante i quali la valle fu soggetta a ripetuti saccheggi, la tomba di Ramses ii fu violata, e le spoglie profanate e private dei suoi tesori. Il Grande Sacerdote di Amon, Herihor, intervenne a salvaguardare le mummie reali, tra cui quella del Grande Re, e ne dispose il trasferimento in un nascondiglio sicuro, individuandolo all’interno delle tombe di Seti i e Amenhotep ii. Il sito prescelto però si rivelò troppo esposto. Le spoglie furono dunque traslate nella tomba di Inhapi, una regina della xvii Dinastia, e pochi giorni dopo trovarono definitiva collocazione nella cosiddetta Cachette di Deir el-Bahari.

    Almeno fino al 1871 quando, rinvenuta fortuitamente da tre fratelli egiziani, tali er-Rassul, la tomba fu oggetto di un saccheggio che alimentò un cospicuo traffico di reliquie sino al 1878. La comparsa sul mercato delle antichità del Cairo di un certo numero di reperti recanti svariate titolature reali, insospettì l’allora direttore del Servizio per le Antichità, Gaston Maspero, il quale ritenne opportuno aprire un’inchiesta che portò allo smantellamento di una vasta rete di trafficanti riconducibile agli er-Rassul. A quel punto gli inquirenti ci misero meno di quarantott’ore per individuare e svuotare la Cachette, mentre tutti i fellahin del villaggio di Sheick Abd el-Qurna, quattro casupole sparse alla periferia di Tebe, erano lungo le rive del fiume per veder passare la barca coi faraoni: le donne piangevano, si strappavano i capelli, gli uomini sparavano coi fucili, i bambini correvano sulle rive a porgere ciò che, più che un ultimo saluto agli antichi padri, sembrò il pianto per le ricchezze perdute.

    Per la mummia di Ramses fu solo il prosieguo di un’odissea iniziata 2800 anni prima. Trasportata a

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