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La torre maledetta dei templari
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La torre maledetta dei templari
E-book381 pagine10 ore

La torre maledetta dei templari

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller I sotterranei di Notre-Dame

Solo un uomo può svelare uno dei più antichi segreti dell’ordine

Un grande romanzo storico

Parigi, inverno 1302. Filippo il Bello, re di Francia, comanda l’armata più formidabile del mondo cristiano, ma il regno è sull’orlo della bancarotta. Per pagare i debiti di stato, il sovrano ha un piano che potrebbe costargli la scomunica: intende aggredire Firenze con un pretesto, per razziare le sue vaste riserve di fiorini d’oro. Ma non ha fatto i conti con Bonifacio VIII… La Signoria di Firenze, infatti, ha chiesto la protezione del pontefice, dal momento che in Vaticano abita la sola persona in grado di fermare il re di Francia: Arnaldo da Villanova, detto il Catalano, medico talentuoso benché tacciato di praticare la magia. Il Catalano può interpretare i misteriosi segni impressi nel più antico sigillo dei Templari, e così rivelare oscure verità sul leggendario Ordine combattente. Si vocifera, infatti, che nella grande torre dell’Ordine proprio fuori Parigi ci sia nascosta un’immensa fortuna aurea. I Templari potrebbero salvare la Francia, ma intendono davvero condividere il segreto della loro ricchezza?

Il più antico sigillo dei Templari può rivelare oscure verità sull’Ordine.
I signori di Firenze, il papa e il re di Francia si sfideranno per conoscere un antico segreto

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un thriller storico molto atteso.»
il Venerdì - la Repubblica

«Una studiosa che ha dedicato anni di lavoro all’argomento… Si legge con gusto.»
Umberto Eco

«È un libro che si beve.»
Corrado Augias

«Una scrittrice brillante come Eco, Manfredi, Barbero.»
Il Giornale

Barbara Frale
è una storica del Medioevo nota in tutto il mondo per le sue ricerche sui Templari. Autrice di varie monografie, ha partecipato a trasmissioni televisive e documentari storici. Ha curato la consulenza storica per la serie I Medici. Masters of Florence in onda sulla RAI ed è autrice, insieme a Franco Cardini, del saggio La Congiura, sui Pazzi. La Newton Compton ha pubblicato con successo I sotterranei di Notre-Dame, In nome dei Medici. Il romanzo di Lorenzo il Magnifico, Cospirazione Medici, La torre maledetta dei templari e il saggio I grandi imperi del Medioevo.
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2020
ISBN9788822741561
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    Anteprima del libro

    La torre maledetta dei templari - Barbara Frale

    1

    SECRETUM TEMPLI

    Io, Salomone, udite queste cose,

    venni nel Tempio di Dio e lo supplicai con tutta la mia anima,

    pregandolo giorno e notte che il demone potesse essere posto

    nelle mie mani, e che io potessi avere autorità su di lui.

    Testamento di Salomone (apocrifo del I secolo), 3,5

    I

    La notte vomitò un urlo. Maestro Alfino si destò in affanno.

    Oddio!, pensò. Hanno ammazzato qualcuno….

    Corse alla finestra. Una folata d’aria gelida lo frustò in faccia. Parigi era deserta, nel silenzio sotto la luna. Luna d’inverno pallida e malata, tonda come un teschio nella vastità del cielo nero.

    Era reale ciò che aveva percepito nel sonno? Insieme a quel grido d’angoscia, gli era parso di udire l’ululato di un lupo.

    Impossibile! I lupi non si spingono mai così all’interno della città.

    S’era trattato senz’altro di un incubo, frutto di suggestione diabolica. O forse invece il sogno doveva intendersi come un presagio, un monito arrivato dal Cielo per metterlo in guardia contro chissà quali insidie future.

    D’istinto, si sporse per guardare Notre-Dame. Dall’angolo tra i palazzi gli giunse lo scorcio della grande chiesa, azzurra e glaciale sotto la luce di quel cielo d’inverno.

    Era un’abitudine che aveva preso molto presto, appena arrivato in città. S’era convinto che Notre-Dame fosse molto più che un edificio, molto più che un santuario: era l’anima di Parigi, o forse, della Francia intera. Una cosa viva, pulsante, fremente di giubilo o di sdegno nelle mille variazioni di luce lunare o diurna sulla folla di volti che ne popolavano gli spazi. Fissandola con attenzione, uno spirito acuto poteva divinare ciò che sarebbe accaduto alla città e al regno intero, proprio come gli antichi sacerdoti pagani sapevano leggere il destino nelle viscere delle bestie offerte in sacrificio.

    Quella notte, Notre-Dame sembrava inquieta. Ombre minacciose correvano in basso, rasente muro. Persino la Santa Vergine in trono aveva un volto duro e implacabile: non più madre di misericordia, bensì una Minerva guerriera pronta a fare vendetta.

    Non lontano, dove il buio fagocitava gli ultimi fuochi delle sentinelle di guardia, un ragazzo correva all’impazzata verso la campagna. La paura centuplicava le sue forze; ma mise un piede in fallo, inciampò, rotolò a terra.

    Dio, che dolore!

    Si rialzò più rapido che poté. Doveva fuggire a ogni costo, anche se aveva la caviglia slogata. Si avventò contro la notte nella sua furia cieca di salvarsi. Non sapeva neppure perché lo stesse inseguendo. Ma l’aguzzino, quello sì, l’aveva visto bene. Non era un miraggio.

    Gli era sembrato che qualcuno lo spiasse, mentre si recava all’appuntamento con padron Dixmier. Quella specie di bestione doveva essere rimasto acquattato nel buio, ma senza mai perdere le sue tracce. Poi era sbucato fuori all’improvviso, orribile e immenso come dicevano.

    Impossibile riconoscerlo in volto: aveva la testa coperta da un elmo di metallo. Un elmo dall’aria marziale, probabilmente, ma come il ragazzo non ne aveva mai visti. Imbracciava una scure bipenne, la brandiva con l’intenzione evidente di farlo a pezzi. Per qualche attimo si erano affrontati. Faccia a faccia, l’uno minaccioso e irriducibile, l’altro senza fiato. Poi il bestione aveva digrignato i denti, e da quell’elmo era uscito una specie di ghigno: «Sparisci, o sei morto!».

    Raoul non se l’era fatto ripetere due volte. Aveva sentito raccontare cose atroci sul conto di quel criminale. Appariva nel cuore della notte, risaliva dal ventre putrido di Parigi per lasciare i sobborghi miserabili che erano il suo regno e infestare il quieto vivere dei quartieri nobiliari. Aggrediva le sue vittime con la ferocia di un leone, o le faceva cadere in una trappola meditata a lungo, secondo altri, studiata con la paziente scaltrezza di un ragno tessitore. Su una cosa soltanto erano tutti concordi: lo chiamavano Lanius, il carnefice.

    Non era inusuale trovare uomini smembrati in un orrendo liquame di sangue e viscere sparse in terra, dopo il suo passaggio, com’era successo giorni prima. La belva amava lasciare un segno indelebile sfregiando il volto dorato della Parigi perbene.

    Ma Quarre non capiva: cosa mai poteva volere, la belva, da uno come lui? Le vittime di Lanius erano membri della grande nobiltà, del clero più ricco. Uomini potenti che s’ammantavano d’impunità, beneficiati da protezioni così alte che non avevano da temere neppure la giustizia di Sua Maestà il re di Francia. Cos’aveva a che fare con certa gente, lui? Raoul non era che un garzone di bottega, un apprendista al servizio di padron Dixmier, il miglior incisore di Francia e capomastro della Zecca reale.

    Ma certo! Jean Dixmier…

    Si fermò senza fiato, poggiò le mani sulle ginocchia e gli parve che gli occhi schizzassero fuori dalle orbite, per quanto aveva corso. Un atroce sospetto gli fulminò la coscienza.

    E se fosse davvero così? Se il bandito lo stesse inseguendo proprio per ciò che aveva confidato al suo padrone?

    Aveva perso il sonno e l’appetito, dopo quella scoperta. Infine, si era deciso a rivelare ogni cosa al suo datore di lavoro. Gli era sembrato doveroso, ma forse era stato un errore ferale. Parlandone a Dixmier si era condannato, e aveva esposto il suo padrone allo stesso pericolo.

    O invece no?

    Cosa doveva pensare sul conto del suo padrone?

    Magari non era così ignaro dell’intera macchinazione come lui immaginava. Padron Dixmier sapeva ogni cosa, e aveva taciuto anche con lui; ma quando si era visto consegnare le prove irrefutabili del crimine nel quale era invescato, aveva messo in allerta i suoi capi, che dall’alto dei loro potenti seggi avevano impartito l’ordine: «Raoul Quarre sa tutto. Deve morire».

    Per tappare in eterno la sua bocca importuna era stato sguinzagliato quel mostro risalito dall’Inferno: niente processi o mandati d’arresto, solo un’esecuzione sommaria compiuta nottetempo nei bassifondi della città, dove non è inusuale che i passanti siano sgozzati dai malviventi quando sono così incauti da avventurarsi con il buio in quel labirinto di anfratti e luridi angiporti, e il sangue sparso in terra diventa presto secco, senza che nessuno si dia la pena di denunciare il delitto.

    Più Raoul ci pensava, più gli sembrava verosimile. Specie se era vero quel che mormorava qualcuno di soppiatto, a mezza bocca, con la paura di essere udito: Lanius era imprendibile e le guardie di ronda fallivano sempre la missione di acciuffarlo perché il farabutto in realtà eseguiva gli ordini del sovrano. Era lui a sguinzagliare quel mostro nelle strade oscure di Parigi, per colpire quanti Filippo IV non poteva punire in modo aperto.

    Mentre il cuore lentamente si faceva meno scombinato, mentre il sangue arrivatogli in testa cominciava a placarsi, Raoul si rese conto di aver provato una brutta sensazione non appena uscito di casa. Non ci aveva badato, sul momento, troppo preoccupato di raggiungere padron Dixmier, che gli dava appuntamento in una bettola vicino al cimitero dei Santi Innocenti proprio per discutere di quelle scabrose carte.

    Perché mai uno come Jean Dixmier, che s’era da poco trasferito ad abitare nel cuore dorato della città, avrebbe scelto quale luogo per un incontro quella bolgia di grassatori e prostitute che è la zona intorno ai Santi Innocenti? E come aveva fatto, il buon Dixmier, a trovare i soldi per comprarsi casa nell’Île de la Cité, il quartiere eletto tra Notre-Dame e il Palazzo reale, dove le vie sono illuminate tutta notte, benedette dal profumo delle pasticcerie che preparano sfoglie dolci per la colazione dei signori?

    Era stato attirato in una trappola, evidentemente. Lanius doveva averlo seguito per tutto il tempo, era sempre dietro di lui, alle sue costole. E dopo, quell’avvertimento: «Sparisci!».

    Cosa voleva dire quel demonio? E perché non lo aveva squartato con quell’orribile ascia bipenne? Forse non voleva ucciderlo sul serio: intendeva spaventarlo a morte, questo sì, e c’era riuscito perfettamente.

    Dove poteva cercare rifugio, adesso?

    Il segreto di cui suo malgrado s’era reso custode era come un male incurabile che lo avrebbe condotto alla morte, prima o poi: semplicemente una questione di tempo. Non esisteva un posto sicuro entro il quale potesse star certo di non dover più temere agguati.

    Sfinito e stordito, il ragazzo sollevò la testa verso il cielo, implorando un aiuto divino. E in quel momento, lo vide. Vide l’immenso torrione che svettava in lontananza, fulcro del quartiere fortificato che i Templari detenevano subito fuori la capitale del regno. Non esisteva in tutto l’Occidente un luogo inespugnabile come quello; ma secondo i pellegrini che erano stati a Gerusalemme, la Terrasanta non sarebbe mai stata riconquistata dagli infedeli, se i Templari avessero mantenuto in Oltremare un bastione tanto possente.

    I Templari… Chi meglio di loro sa custodire un segreto?

    Rinfrancato, Raoul Quarre benedisse il Cielo per avergli mandato quell’ispirazione. Raccolse l’ultimo sprazzo di forza che gli era rimasto in corpo per correre fin lì, si gettò contro il portale tempestandolo di pugni, chiedendo asilo ad alte grida, fin quando il frate portinaio aprì uno spioncino ferrato.

    «Aprite! In nome di Dio e della Vergine Maria, aiutatemi!».

    Un occhio sospettoso lo scrutò dal minuscolo pertugio.

    «Chi siete?»

    «Mi chiamo Raoul Quarre, lavoro per Jean Dixmier».

    «Il capomastro della Zecca reale?»

    «Proprio lui».

    «Cosa volete a quest’ora? Non vedete che è notte fonda?».

    Il ragazzo fece appello a tutte le proprie risorse.

    «Chiedo il pane e l’acqua dell’ordine», disse deciso.

    «Siete pazzo? Credete che chiunque possa diventare uno di noi?»

    «Io posso», protestò. «Fatemi parlare con il Tesoriere».

    «È tardi. Sua Eccellenza sta dormendo. Tornate domattina».

    «Non è vero! Vedo la luce accesa, nella Torre. Il Tesoriere è al lavoro. Chiamatelo».

    La voce del Templare si fece più confidenziale e più dura allo stesso tempo.

    «Vattene, ragazzo. Lo vedo che sei nei guai, e noi non ci immischiamo con la giustizia reale».

    Così detto, richiuse lo spioncino senz’appello.

    Sgomento, vedendosi perduto, Raoul si gettò in ginocchio nella terra. Doveva tentare il tutto per tutto.

    «Abraxas!», gridò alla disperata. «Mi avete capito, fratello? Io so cos’è, e lo dirò ai quattro venti!».

    Il silenzio spietato della notte che lo avvolse subito dopo fu rotto soltanto da un parlottare concitato che gli arrivava da dietro la rude cortina di legno e di ferro del portale.

    Minuti di attesa senza respiro, poi rumore scombinato di chiavistelli aperti in fretta; e gli apparve per intero l’uomo con il quale aveva parlato fino a quel momento. La luna si riverberava sull’acciaio dell’usbergo che lo ricopriva interamente, esaltava il candore della sua cotta d’armi; gli donava l’apparenza di un arcangelo guerriero.

    «Cos’hai detto?», chiese in tono vagamente minaccioso.

    Raoul Quarre non si lasciò ingannare da quella parvenza di brutalità. Il Templare aveva capito benissimo, o non avrebbe spalancato la porta.

    «Ho detto Abraxas, signore», mormorò ammiccante.

    Quella parola sembrò riecheggiare nella vastità del buio intorno a loro, come se da essa si sprigionasse un potere magico insospettato. Forse racchiudeva davvero una malia, perché comparve come d’incanto un altro Templare al fianco del guerriero. Non un cavaliere, stavolta: indossava infatti l’abito nero dei sergenti, i Templari di rango inferiore. Non aveva un’aria marziale: abbondante di ventre, forse anche obeso, non portava armi né barba, e teneva i capelli lunghi a lambire le spalle, arricciati con l’ausilio del ferro caldo secondo la moda dei nobili di corte; fatto che san Bernardo di Chiaravalle e il fondatore del Tempio avrebbero aborrito. Sul petto gli si vedeva brillare una pesantissima croce d’oro, degna di un patriarca delle chiese d’Oriente. Contro la scura lana dell’abito da sergente, quel gioiello faceva un contrasto vistoso. Il potere dell’uomo non nasceva dal grado gerarchico, evidentemente, bensì dalla funzione che svolgeva nel Tempio.

    Un sergente ammesso nello Stato Maggiore dell’ordine, pensò Raoul. Gli sembrava incredibile.

    «Alzati!», ordinò il dignitario. Lui obbedì all’istante.

    «Sei giovane e non manchi di fegato. Se ci tieni a invecchiare, non devi mai più ripetere ciò che hai detto poco fa. So di parecchia gente morta per assai meno».

    Raoul deglutì. L’intuito gli diceva di avere a che fare con un negoziatore consumato, un uomo abituato a muoversi sul filo del rasoio: tanta scaltrezza e pochi scrupoli. Forse però una speranza ce l’aveva, e quella speranza stava riposta nella merce di valore che in un certo senso poteva vendere. Lo diceva il fatto che non era stato rigettato a calci verso la notte piena di pericoli, al contrario, il potentissimo sergente con la croce patriarcale lo fissava in silenzio, e aveva tutta l’aria di chi stia aspettando.

    «Arnaldo da Villanova», disse lentamente Raoul, come se offrisse una garanzia. «Ho lavorato con lui. Facevo da tramite fra il vecchio e padron Dixmier».

    Il dignitario apprezzò quel dettaglio; era ciò che esattamente sperava. Il ragazzo si stava rivelando senza dubbio di suo interesse.

    «Cosa credi di poter offrire al Tempio?», gli chiese insinuante.

    «Il mio silenzio perpetuo, signore. Vogliono uccidermi per ciò che ho scoperto. Perciò invoco la protezione dell’ordine e chiedo umilmente la fratellanza».

    «Offri il tuo silenzio perpetuo. E poi?»

    «Ciò che ho visto fare al Catalano», aggiunse deciso, come chi alza la posta in gioco.

    Il dignitario e il guerriero si guardarono tra loro in un istante interminabile; poi il gerarca volse la faccia al ragazzo.

    «Sono frate Giovanni de La Tour, Tesoriere del Tempio. Entra. Sarai esaminato dall’Assemblea».

    Il ragazzo inspirò profondamente. Poi varcò la soglia, e la porta delle mura templari si richiuse dietro di lui. Per sempre.

    II

    Maestro Alfino rabbrividì fino alle midolla.

    Non era raro che lui facesse le ore piccole, quando un cliente importante richiedeva la sua tutela legale; intorno a Parigi gravitava un volume d’affari mostruoso, e ogni tanto gli capitava di dover difendere in tribunale qualcuno citato in giudizio per somme così grosse che lui non riusciva neppure a immaginare come li avrebbe spesi, tutti quei soldi, nel caso fossero stati roba sua. Veniva dall’Italia, ma lo additavano come il miglior avvocato in materia fiscale che ci fosse sulla piazza di Parigi; in anni e anni d’esperienza, oramai aveva fatto il callo alle sfacchinate solenni.

    Quella notte, tuttavia, la stanchezza lo aveva fatto scivolare in un sonno agitato da sinistre visioni. Il grido di morte lo aveva destato in un sobbalzo, lasciando nel suo cuore un sedimento d’angoscia: impossibile ritrovare il sonno!

    E impossibile non ripensare a quella lettera dal senso farneticante arrivata il giorno prima. Scritta da qualcuno che lui aveva incrociato di sfuggita, e dal quale si era accomiatato con grande sollievo. Era un uomo dalla reputazione discussa, con cui sperava di non dover più avere a che fare: Arnaldo da Villanova, detto il Catalano.

    Insigne maestro Alfino,

    sono certo che vi ricordate di me, anche se il nostro incontro due anni or sono non cadde in un momento felice e il nostro salutarci non fu cordiale. Nondimeno, vi so persona retta nella vostra professione di avvocato e devoto servitore del re di Francia; per questo ho deciso di rivolgermi proprio a voi.

    Vostro malgrado siete stato coinvolto nell’affare, dunque ora vi trovate compromesso, e in una posizione quanto mai rischiosa: se la faccenda giungerà a una lieta conclusione, anche voi, maestro Alfino, potrete considerarvi salvo.

    Il motivo di questa missiva riguarda un messaggio che Filippo IV mi ha inviato in forma cifrata, per chiedermi qualcosa che non posso né voglio concedergli.

    Vi prego di riferire al sovrano questa risposta da parte mia: ciò che intende fare va contro la legge di Dio e quella degli uomini, pertanto non avrà il mio appoggio. Se proprio vuole lambire le soglie dell’Inferno, se accetta di camminare al fianco del diavolo fino all’ultimo dei suoi giorni, allora deve cercare il suo Graal laddove è più amaro per lui scendere: si rivolga ai Templari.

    Li induca a svelargli cosa nasconde l’Abraxas ritratto nel loro sigillo segreto.

    Arnaldo da Villanova

    Alfino provò un’opprimente sensazione d’impotenza. Il fuoco si era spento da un pezzo e la tramontana rabbiosa che spazzava le strade della Rive Gauche s’infiltrava anche nel camino tormentando le ceneri. Sollevava nell’aria un acre puzzo di fuliggine, e a tratti pareva una voce sinistra e ghignante.

    Più ci ragionava, più quella lettera gli sembrava il parto di una mente in delirio. Perché per esempio il re di Francia avrebbe dovuto spedire un biglietto segreto al vecchio scienziato? E come mai Arnaldo parlava di quel messaggio senza fare il minimo cenno al contenuto?

    Tutto suonava assurdo, sconclusionato. Pensò di accartocciare quella bruttura e gettarla nel fuoco, ma lo trattenne una laconica insinuazione:

    Vostro malgrado siete stato coinvolto nell’affare, dunque ora vi trovate compromesso, e in una posizione quanto mai rischiosa: se la faccenda giungerà a una lieta conclusione, anche voi, maestro Alfino, potrete considerarvi salvo.

    L’avvocato si stropicciò gli occhi e accese un’altra candela rimuovendo il mozzicone ancora caldo di quella già consumata nella sua veglia faticosa.

    Coinvolto nell’affare, pensò. Ma quale affare, perdio?.

    Per l’ennesima volta, Alfino rilesse le ultime righe:

    Se proprio vuole lambire le soglie dell’Inferno, se accetta di camminare al fianco del diavolo fino all’ultimo dei suoi giorni, allora deve cercare il suo Graal laddove è più amaro per lui scendere: si rivolga ai Templari.

    Li induca a svelargli cosa nasconde l’Abraxas ritratto nel loro sigillo segreto.

    I Templari. Una parola di suono astruso e senso incognito. E un sigillo classificato come segreto.

    Di cosa farneticava, il vecchio pazzo?!

    La botola si aprì cigolando. Un rumore discreto: poco più che il pigolio di un uccellino. Nell’abbraccio complice del buio, un uomo saltò fuori e la richiuse furtivo. La paglia fresca fece il resto; pochi gesti, e nulla al mondo era più in grado di denunciare l’esistenza di quel passaggio segreto nelle stalle del vescovo: il mite asinello che monsignor Simone Matifort usava montare durante le processioni in segno d’umiltà, come Nostro Signore al suo ingresso in Gerusalemme, non avrebbe certo fatto la spia.

    L’uomo lo accarezzò: provava una tenerezza innata per gli animali. La bestia gli leccò la mano, grata. Un rumore a tradimento, dietro le spalle. Lui sussultò, imbracciò la scure bipenne. Falso allarme, pensò poi con sollievo.

    «Fanno bene a chiamarvi Lanius», disse quell’ombra alta che poco a poco si avvicinava, svelata dalla torcia. «Sembrate un boia spietato. Siete orribile».

    Lui abbassò l’arma.

    «Devo, monsignore. Vi pare che un demone possa avere un bell’aspetto?».

    L’ombra si avvicinò, e nel riquadro di luce che trapelava dalle inferriate apparve il volto spigoloso di Simone Matifort. Severo, accigliato, tuttavia senza pretesa di biasimo.

    «Io vi reggo il gioco, maestà. Vi aiuto in queste vostre atroci messinscene, però…».

    «Non dovete chiamarmi maestà», lo interruppe brusco. «Io non sono Filippo IV. Non ho al dito l’anello sacro del re di Francia. Vedete?»

    «E questo basta, secondo voi, per scrollarvi di dosso il peso del carisma reale?»

    «Così mi dissero, monsignore. E così dev’essere. Il re ha bisogno d’aiuto, del resto. Come potrebbe punire tutti gli infami che si sentono al di sopra della legge, altrimenti?»

    «Basta fare in modo che nessuno sia al di sopra della legge».

    L’altro finse di approvare con un cenno ossequioso.

    «Sta bene, monsignore. Lo terrò a mente. Me ne ricorderò la prossima volta che farete ricorso al braccio secolare per comminare una sentenza di morte che spetterebbe alla vostra giurisdizione. Quando vorrete evitare che la vostra mano si macchi di omicidio, e lo faccia piuttosto la mia. Questa!», esclamò levando in alto la destra che brandiva la temibile arma.

    «E va bene, sire. Non voglio giudicarvi. Mi limiterò a prendere in custodia quell’elmo che vi fa sembrare un demonio e quella scure che gronda il sangue di tante vittime, come al solito. Poi vi confesserò. Vi concederò l’assoluzione. E dinanzi a tutti gli altri, sarò in dissenso con voi».

    «Così farete il bene vostro, mio e della Francia».

    Simone Matifort rinunciò a qualunque obiezione. Sapeva del resto che le vittime di Lanius non erano poveri innocenti senza santi in Paradiso, bensì imbroglioni, nemici del regno, truffatori d’altissimo bordo e infami corruttori di bambini. Legna da ardere per il fuoco dell’Inferno che il re, sotto mentite spoglie, si premurava di spedire a Satana ben tagliata in piccoli ciocchi. L’orrore paralizzava Parigi, dinanzi a certe scoperte; e per qualche tempo, anche i peggiori ceffi rigavano dritto.

    «Come si chiamava la preda di stanotte?», chiese il vescovo. «Del sangue di chi sono lorde le vostre mani consacrate?».

    L’altro non rispose, ma si liberò dall’elmo di bronzo e lo gettò in mezzo alla paglia. Il vescovo aveva avuto la cortesia di fargli trovare nella stalla un catino pieno d’acqua calda, perché potesse darsi una ripulita dal sangue e dal sudore. S’era freddata, ormai, ma lui provò comunque un brivido d’energia quando la sentì scrosciare sui capelli e sul torace nudo.

    «Non ho ucciso nessuno», disse poi piano. Dal tono pareva quasi che ammettesse una sconfitta.

    «E lo dite così frustrato? Dovreste esserne contento. Rendete lode al Signore!».

    «Se fosse stato un errore? Se l’uomo che ho lasciato fuggire mi colpisse un giorno in un punto vitale?»

    «Lo avete risparmiato. Ve ne sarà grato di sicuro».

    Rivestito della corta tunica di daino che indossava per cavalcare nella foresta, Filippo IV aveva di nuovo preso l’aspetto rassicurante di un cavaliere. Quando sarebbe uscito in strada, se visto girare in quell’arnese, poteva dare l’idea di un nobile di ritorno da qualche bisboccia con gli amici, o chissà, magari usciva da un letto tiepido e clandestino. Infilò anche i guanti che aveva nascosti sotto la mangiatoia.

    «Durante il mio apprendistato, monsignore, il precettore mi fece imparare a memoria molti passi del De bello gallico. Sapete perché?»

    «Volete dirmelo?»

    «Questione di strategia. Cesare fu l’unico che mise sul collo dei francesi il giogo del dominio straniero, dunque io dovevo conoscere a menadito il suo modo di pensare. L’ho fatto. Ho studiato e imparato. Ma non sono affatto convinto che il vincitore dei Galli fosse poi tanto saggio».

    «Vorreste definirlo sprovveduto?»

    «No. Ma perdonava i suoi nemici».

    «Certo. Si mostrava magnanimo».

    «E cadde sotto ventitré pugnalate. Essere vulnerabile è un lusso che non posso concedermi. Non ora, quando c’è in gioco la salvezza del mio popolo. Non lo permetterò!».

    «Ma allora… Se quel ragazzo può essere tanto nocivo al bene del regno, perché lo avete risparmiato?»

    «Non lo so», ammise. «Forse sto invecchiando. In ogni caso, ormai non rappresenta più una minaccia. È sparito per sempre».

    «Mio Dio! L’hanno sbranato i lupi?»

    «Peggio, monsignore. Ha bussato alla porta dei Templari».

    III

    La notte moriva trascolorando in un’alba glaciale. Una spessa bava di nebbia risaliva dalla terra strinata donando alla desolazione dei campi l’aspetto di una landa dell’Inferno.

    Raoul Quarre tremava aspettando il suo ultimo respiro. Nudo, in ginocchio sui sassi. Mani giunte, testa china, pensava che morire assiderati non era poi così doloroso, stando a quanto dicevano. Dapprima si soffre in tutte le membra per la morsa atroce del ghiaccio, ma poco dopo s’infiltra nei sensi un torpore dolce, rilassante, e la vita che fluisce via dal corpo somiglia a un sonno nel quale si scivola lentamente. Meglio così, rifletté. Ma che sia presto!.

    Molte spanne sopra la sua testa piegata e sconfitta, due uomini lo scrutavano dietro i vetri di una finestra della Torre. I loro sguardi puntati su di lui esprimevano opinioni abissalmente diverse.

    «Deve durare ancora molto questo supplizio?», chiese il Tesoriere. «Morirà di freddo. Tanto valeva lasciarlo fuori e aspettare che fosse ammazzato!».

    L’uomo accanto a lui, che sfoggiava sul petto una croce d’oro altrettanto grande e lucente, era minuto, pallido, ascetico. Il suo volto ossuto accentuava l’impressione di un essere profondamente spirituale che quasi non si nutrisse, disinteressato com’era alle cose di questo mondo. Aveva occhi grandi e immoti, che spesso si perdevano lontano in qualche intensa riflessione.

    Frate Ugo di Peyraud era il secondo dignitario nei ranghi gerarchici del Tempio e rispondeva unicamente ai comandi del capo supremo, il Gran Maestro; perciò il tono ruvido usato dal Tesoriere, un suo sottoposto, lo sfiorò irritante come un ramo d’ortica.

    «Avete ragione, La Tour», replicò senza perdere la calma. «Forse era meglio lasciarlo morire là fuori. Lo avete accolto senza chiedere il mio consenso. Dovrò comminarvi una punizione per questo».

    Colto sul vivo, il Tesoriere si risentì.

    «Ho agito nell’interesse del nostro ordine, Eccellenza! Non faccio mai nulla che non sia per rendere il Tempio più grande e potente, lo sapete».

    «Perché dovrebbe esserci utile?»

    «Quel ragazzo è l’attendente di Jean Dixmier. Faceva da tramite fra lui e il Catalano. Ha visto lavorare il vecchio. Devo aggiungere altro?», chiosò ironico.

    «Il Tempio non ha bisogno di lui. Né dei segreti che il Catalano custodisce».

    Il Tesoriere dissentiva fieramente, ma era al cospetto di un superiore; dunque cercò le parole e il tono giusti per non sembrare offensivo.

    «Voi sottovalutate la gravità del momento, Eccellenza», disse poi. «Filippo IV ha portato via dal Tempio il Tesoro di Francia. Non è un buon segno».

    «I rapporti del nostro ordine con il sovrano sono molto cordiali».

    «I vostri rapporti con Sua Maestà sono ottimi, in realtà. Ma che mi dite del Gran Maestro? Sapete benissimo che esiste tra loro una ruggine di vecchia data, e le cose non sono certo migliorate, di recente. La situazione mi preoccupa».

    Peyraud sversò sull’altro uno sguardo in tralice.

    «Quel ragazzo nudo nel gelo sarebbe utile alla causa, secondo voi?»

    «Certo, Eccellenza. L’attendente di Dixmier ha scoperto il gioco del suo padrone. Sapete benissimo che Filippo IV s’era incaponito a coniare una moneta aurea di gran valore come quella che a suo tempo coniò il buon re Luigi IX. In tal modo, voleva dare l’impressione che la Francia stia vivendo un momento di grande floridità economica; ma è come gettar fumo negli occhi del prossimo, è voler occultare i gravosi debiti di stato sotto il bagliore dell’oro fino. Sappiamo benissimo che il re non aveva le risorse per produrre quel conio: eppure l’ha fatto. Ciò significa che deve aver commesso un illecito di portata mostruosa, e se papa Bonifacio scopre la frode, non potrà fare altro che scomunicarlo!».

    Il volto di frate Peyraud si oscurò.

    «Sarebbe una catastrofe per la Francia!».

    «E anche per noi, Eccellenza. Ormai il Tempio ha lasciato la Terrasanta da anni, in Oriente non abbiamo più che il quartier generale di Cipro dove imperversa Molay con il manipolo di fanatici che lo seguono. Il futuro del Tempio è in Occidente, ormai. Siamo banchieri del papa e serviamo i monarchi cristiani come mediatori. Il nostro destino è legato a doppio filo a quello della Francia, il regno più vasto e potente di tutto il mondo cristiano. Perciò voi dovete agire, signore. Impugnate la situazione, giocate d’anticipo. Fate in modo che il papa comprenda e perdoni Sua Maestà!».

    Ugo de Peyraud si leccò perplesso le labbra aride.

    «Quindi avete accolto quel ragazzo perché lo ritenete un’arma preziosa, La Tour».

    «Certo, Eccellenza. Raoul Quarre non sta mentendo: ha lavorato davvero nella Zecca dove l’Agnel d’oro è stato battuto. Sicuramente ha raccolto prove dell’illecito commesso da Filippo IV. Offrirgli rifugio significa poterlo controllare. Poterlo usare, se necessario».

    «Parlate di lui come se fosse un’arma affilata che volete mettere nelle mie mani, La Tour. Le mie povere, deboli

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