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Il Prof
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E-book259 pagine3 ore

Il Prof

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Info su questo ebook

Lasciato dalla moglie, il prof Dino Munafò è caduto in depressione ed è diventato misantropo. Per allontanarsi da Milano, Dino chiede il trasferimento. Viene assegnato ad un liceo della Valseriana, nella bergamasca, dove nessuno lo conosce e dove può rintanarsi in un rassicurante isolamento. Poi, ad oltre due anni dal trasferimento, una serie di episodi lo indurranno ad uscire dal "guscio" e si troverà in breve tempo a doversi misurare con una realtà locale molto particolare. Il Prof sarà protagonista e vittima di situazioni imprevedibili e si scontrerà con personaggi altrettanto insoliti. A tutto ciò Dino cercherà di reagire in modo non usuale, come peraltro è il suo carattere.

Spinto dagli avvenimenti, Il prof ritroverà rapidamente il gusto per i contatti umani e le relazioni sociali, con tutti i piaceri e le difficoltà connesse.

Un po' alla volta Dino si innamorerà ritroverà la passione per l'insegnamento e per le serate di bridge insieme ad una affascinante compagna; da cosa nasce cosa e Dino si innamorerà anche della Valseriana.

Finirà così per farsi coinvolgere dal succedersi degli eventi, fino ad assumere ruoli e impegni completamente nuovi.

Con questo romanzo l'autore è alla sua seconda prova. Nel 2018 ha pubblicato "Non ho fatto il militare", un "memoir" in cui ha raccontato vicende legate alla sua attività lavorativa e sindacale.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mar 2019
ISBN9788831610582
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    Anteprima del libro

    Il Prof - Mauro Del Giudice

    633/1941.

    Lunedì  9 gennaio 2017

    L’uomo procedeva con andatura spedita, le spalle leggermente incassate, lo sguardo basso e un’espressione accigliata. Non si guardava intorno e non si era nemmeno accorto che, a pochi passi di distanza, un negoziante era intento a sollevare la saracinesca del suo negozio. Così, quando si sentì salutare, l’uomo fu colto di sorpresa da quel Buon giorno pronunciato con tono cordiale e squillante. L’uomo accigliato sollevò appena lo sguardo per capire chi gli avesse rivolto quell’inaspettato e gioviale saluto e sentì un moto di fastidio notando il viso sorridente del negoziante; senza rallentare e senza mutare la sua arcigna espressione, bofonchiò un forzato e smozzicato ’ngiorno.

    Era una mattinata più che uggiosa; aveva piovuto e nevischiato tutta la notte e i vicoli del paese erano coperti da una fastidiosa poltiglia. Chi avesse pensato di attribuire il cattivo umore del prof. Munafò (così si chiamava quell’uomo immusonito), ne avrebbe avuto ben donde ma si sarebbe sbagliato in pieno. Ben lo sapevano i suoi studenti liceali della 5^C, che infatti non si meravigliarono affatto quando il professore entrò in classe e si diresse direttamente alla cattedra, evitando di salutare e di alzare lo sguardo sulla classe. Anche gli studenti avevano da tempo perso l’abitudine di salutare l’ingresso di quello scontroso insegnante però, al suo arrivo, si erano rapidamente posizionati ai loro posti e avevano fatto silenzio.

    Era il primo giorno di lezione dopo le vacanze natalizie e normalmente i docenti dedicavano i primi minuti a qualche commento e divagazione sul periodo di feste ma non il prof. Munafò. Questi prese il registro di classe, lo aprì e iniziò di malavoglia a fare l’appello.  Terminata la stanca litania dei nomi, sollevò il viso corrucciato e, per qualche decina di secondi, osservò pensieroso i ragazzi che aveva davanti. Poi, il suo sguardo si concentrò su di uno studente seduto nell’angolo sinistro dell’aula.

    Franchi, ti dispiace ripetere quello che stavi dicendo quando sono entrato?, chiese Munafò, fissandolo dritto negli occhi.

    Lo studente, visibilmente infastidito, cercò di guadagnare tempo: Non so, non ho idea di cosa stia parlando ….

    Il prof decise di aiutarlo a ricordare: Se non ho sentito male, stavi dicendo qualcosa come ‘marocchino di merda’.  Ti viene in mente ora?. Nella classe si sentirono alcune risatine, subito bloccate da un’occhiata gelida del prof, che riprese: E giacché ci siamo, Franchi, preferirei che ti alzassi in piedi, così possiamo ascoltarti meglio tutti.

    Franchi era un ragazzone alto, muscoloso e dall’aspetto deciso. Aveva un’espressione da adulto e dimostrava più dei suoi diciotto anni. Aveva un atteggiamento da leader e, in effetti, era riconosciuto come tale dalla maggior parte dei compagni e delle compagne. E ci teneva a confermare il suo status. Adesso si trovava in una condizione sgradevole e stava pensando che quello stronzo di prof non avrebbe dovuto metterlo in difficoltà davanti alla classe. Comunque si alzò in piedi e provò a svicolare: Quando lei è entrato, non era ancora suonata la campanella e stavamo chiacchierando tra di noi; comunque, stavo scherzando.

    Munafò restò in silenzio diversi secondi, a riflettere. In effetti, per oltre due anni, aveva solo preteso che tutto filasse liscio durante le ore di lezione ma di quanto avveniva prima, dopo o durante l’intervallo, non se ne era mai curato. Faceva semplicemente finta di non vedere e di non sentire. Non sapeva nemmeno bene per quale motivo quella mattina avesse deciso di intervenire su un fatto meno grave di altri avvenuti in precedenza. Forse dipendeva dal brutto tempo oppure perché ‘anno nuovo, vita nuova’. Comunque fosse, dato che aveva cominciato, ormai doveva affrontare la questione.

    Il prof cominciò: Franchi, tanto per sapere, come reagiresti se qualcuno offendesse i tuoi genitori?.

    Il ragazzo, con atteggiamento spavaldo, rispose senza nemmeno pensarci: Se qualcuno si azzarda a parlare male dei miei, io gli spacco la faccia!.

    Ci avrei scommesso – commentò il prof – e ora torniamo al discorso di prima. Siccome non è la prima volta, so bene che ti stavi rivolgendo a Maduk, che è scuro di carnagione; senza sottilizzare troppo, potremmo dire che è nero ma tu preferisci usare il termine ‘negro’, come ti ho sentito fare più volte. Però il tuo compagno Valter Maduk non è marocchino; è nato ad Albino; che ti piaccia o no, è italiano, anzi bergamasco, proprio come te. Anche sua madre è di questa zona mentre suo padre, lui sì, è marocchino, o come diresti tu, un ‘marocchino di emme’. Allora io ti chiedo: non avrebbe ragione Valter a spaccarti la faccia, dato che hai offeso suo padre? Naturalmente io non posso tollerare che i miei studenti si prendano a botte e quindi devo provvedere io a sanzionare un comportamento riprovevole. Tenuto conto che è questa la prima volta che intervengo, sarà una punizione modesta. Franchi, la tua interrogazione programmata salta e ti interrogo adesso.

    Lo studente era sbiancato; era tra i migliori della classe e ci teneva ad avere sempre una votazione molto alta. Evidentemente non era preparato e non voleva prendere un brutto voto. Cercò di opporsi: Non è giusto, è una carognata; si era deciso che tutte le interrogazioni sarebbero state concordate; se proprio vuole, mi preparo per la prossima lezione.

    Sul volto del prof comparve un sorriso beffardo: Mi fa piacere sentirti parlare di giustizia e di regole ma ti faccio notare che una delle prime regole della civile convivenza sta nel rispetto delle persone. Proprio quello di cui ti sei dimenticato. Comunque, la programmazione delle interrogazioni è soltanto una concessione che ho voluto farvi e come tale posso cancellarla quando voglio. Tuttavia, per dimostrarti che non sono una carogna, voglio offrirti un’alternativa: per lunedì 23, tra due settimane, scrivi una bella lettera indirizzata a Valter, con la quale chiedi scusa per aver offeso lui e la sua famiglia e la leggi in classe. D’altronde, l’hai offeso pubblicamente e anche le scuse devono essere pubbliche. Tieni presente che non sarebbe un lavoro inutile perché valuterò la lettera come se fosse un compito.

    Munafò, mentre parlava, aveva notato quanto Franchi si fosse irrigidito e volle precisare: Come ho detto, questa è un’alternativa rispetto all’interrogazione. A te scegliere cosa vuoi fare; ti lascio tempo per decidere fino all’inizio della seconda ora. E adesso, ragazzi, cominciamo a fare lezione.

    Intanto che il prof discorreva di poeti e scrittori contemporanei, Lorenzo Franchi si chiedeva se sarebbe riuscito a scrivere quella maledetta e assurda lettera di scuse che quel demente di insegnante gli aveva offerto come alternativa a una interrogazione per la quale non era assolutamente preparato e nella quale avrebbe rimediato, se andava bene, al massimo un quattro. Quindi, non restava che la lettera. Intanto avrebbe guadagnato due settimane. Così, alla fine della prima ora, Franchi aveva comunicato al prof che avrebbe scritto la lettera. Ma già un minuto dopo, il ragazzo si era pentito della scelta e si dava dello stupido per aver accettato di coprirsi di ridicolo davanti all’intera classe. Già si immaginava la scena di lui che leggeva a fatica, con la voce che non gli usciva dalla gola, mentre Maduk gongolava, i compagni ghignavano e il prof che, per maggiore derisione, gli faceva rileggere a voce più alta le frasi più vergognose. E se avesse deciso di non scriverla più, se per quel giorno si fosse dato malato? E se avesse deciso di ritirarsi dalla scuola, di tentare il suicidio o, ancora meglio, di sparare al prof? Almeno la prossima volta ci avrebbe pensato bene prima di intervenire per una stupidata. Per due anni aveva fatto finta di niente e proprio adesso doveva svegliarsi? Per il resto della mattinata Lorenzo non riuscì a seguire nessuna delle lezioni; ci provava, prestava attenzione qualche minuto ma subito dopo riprendeva a tormentarsi.

    11 gennaio, mercoledì

    Il prof. Candido Munafò, Dino per gli amici, aveva 38 anni e proveniva da Milano, dove aveva insegnato fino alla fine dell’anno scolastico 2014/15. Nel febbraio 2015 era stato lasciato dalla moglie; era caduto in uno stato di depressione che gli rendeva insopportabile la compagnia  e la conversazione con chiunque. In poco tempo era sprofondato in un una sorta di misantropia: non voleva intrattenere rapporti con altre persone, compreso amici e conoscenti, forse per timore di dover rispondere a domande sulla sua condizione fisica e sulla sua vita privata, argomenti sgraditi e sgradevoli. Per sfuggire ad incontri indesiderati, aveva chiesto il trasferimento ad altra sede. Anni addietro aveva scelto la strada dell’insegnamento perché ci credeva, nel valore e nell’importanza della cultura; subito aveva dimostrato grandi capacità comunicative con gli studenti, che trovavano le sue lezioni interessanti e piacevoli. Riusciva a rendere vivaci le spiegazioni, inserendo annotazioni, aneddoti e collegamenti. Il senso del dovere e il rispetto che attribuiva alla funzione dell’insegnamento aveva impedito che la subentrata misantropia incidesse negativamente sulla qualità delle sue lezioni, che però avevano perso in smalto e gradevolezza.

    La sua richiesta di cambiare sede era stata accolta e lui aveva accettato di buon grado l’assegnazione ad un liceo scientifico nella bergamasca, in un comune della Valseriana, per insegnare italiano e storia.

    All’inizio di settembre 2015 aveva trovato un piccolo appartamento ammobiliato, distante dal liceo meno di un chilometro (dieci minuti a piedi) e vi si era trasferito. Si era presentato alla scuola ed era stato  incaricato di insegnare Storia presso le classi 1^, 2^ e 3^A e Italiano presso la 1^, 2^ e 3^C. In più di due anni non aveva fatto alcuna amicizia, né all’interno né all’esterno della scuola. Anche con i colleghi, sia gli insegnanti che il personale ausiliario, aveva evitato di intrattenere rapporti che non fossero quelli strettamente indispensabili. Insomma, si comportava da orso solitario e teneva con tutti un atteggiamento scontroso e a mala pena salutava. Durante le riunioni, partecipava passivamente e interveniva solo quando era necessario. Così il professor Munafò rappresentava per tutti un enigma; anche il preside, che al momento del suo insediamento aveva provato a chiedergli quali fossero i motivi che l’avevano indotto a lasciare Milano, aveva ricevuto risposte evasive e aveva dovuto rinunciare a porgli altre domande. Sul suo conto, in mancanza di notizie di qualsivoglia genere, si erano diffuse le illazioni più fantasiose e contrastanti sulle ragioni del suo trasferimento: che avesse avuto rapporti con una (o uno) studente e che i genitori lo avessero minacciato; che la moglie lo avesse cacciato di casa perché drogato o alcolizzato e che fosse caduto in depressione dopo una cura disintossicante; che fosse stato denunciato dalla moglie per maltrattamenti e che avesse ritirato la denuncia purché andasse lontano da Milano. Insomma, queste ed altre amenità del genere, che non contribuivano certo a migliorare la sua già negativa immagine. Lui non se ne curava affatto; gli era sufficiente che nessuno lo importunasse. E per questo motivo, di rado usciva di casa, oltre che per recarsi a scuola. Per la spesa, provvedeva settimanalmente andando in macchina ad un supermercato fuori paese e limitava le sue uscite al minimo indispensabile. Il sabato o la domenica, nella bella stagione, andava a fare lunghe camminate, raggiungendo rifugi dove, a volte, decideva anche di pernottare. Quando era in casa, oltre a preparare le lezioni e correggere i compiti, passava il tempo a leggere e ascoltando la musica.

    Quella mattina Munafò aveva lezione alla terza ora e quindi si preparò per uscire di casa intorno alle 10. La sua abitazione si trovava nella zona est del paese e per raggiungere il liceo doveva attraversare il centro storico, percorrendo stradine e vicoli in cui le auto normalmente non potevano transitare, se non per effettuare lo scarico merce. Il professore faceva volentieri quei dieci minuti di camminata, durante i quali procedeva sempre a testa bassa, senza guardarsi intorno, per evitare di dover salutare qualche persona conosciuta, come i colleghi o i genitori dei suoi studenti. Lungo il tragitto si fermava soltanto per comprare il quotidiano che, quel giorno, stranamente, presso la sua solita edicola era già esaurito; dovette allora recarsi ad un’altra, poco più distante. E lì, il giornalaio, appena lo vide, lo salutò calorosamente e con uno smagliante sorriso, come se fosse un assiduo e affezionato cliente. Meravigliato, Munafò non mutò comunque la sua consueta e torva espressione, rispondendo con un saluto forzato. Comprò il giornale e si allontanò chiedendosi il motivo di tanta affabilità da parte di uno sconosciuto; certo, si trattava di una persona tenuto per mestiere alla gentilezza ma gli sembrava comunque che si trattasse di un comportamento esagerato. E gli tornò anche in mente l’episodio del negoziante che l’aveva salutato due giorni prima. In mancanza di elementi che li accomunassero, il professore archiviò i due fatti come pure coincidenze.

    12 gennaio, giovedì

    Nel tardo pomeriggio Munafò aveva dovuto preparare una lettera per inviare certa documentazione richiestagli dall’INPS, mugugnando sul fatto che, con l’avvento di internet, fosse inconcepibile dover ancora spedire lettere per posta ordinaria invece di inviarle tramite mail. Adesso doveva anche procurarsi il francobollo. S’infilò il giaccone, mise la lettera in tasca e uscì di casa per recarsi al Bar Centrale, che, in quanto tabaccheria, vendeva anche valori bollati.

    Il bar era un locale ampio, con molti tavolini e con una zona dedicata ad un biliardo oltre che a video-giochi e slot-machine. Vi era, in quel momento, una decina di giovanotti rumorosi, alcuni giocavano alle macchinette e altri scherzavano tra di loro ad alta voce. Il professore si trovava di fronte alla cassa per acquistare quel maledetto francobollo quando si accorse che alcuni di quei giovani si erano avvicinati ad un cliente di colore e lo stavano insultando, intimandogli di uscire subito dal bar, altrimenti lo avrebbero cacciato loro a calci, perché, gli gridavano, questo è un bar per bene e non vogliamo farcelo sporcare da negri delinquenti che vengono in Italia a rubare e a stuprarci le donne. Il ‘negro’ si era eclissato immediatamente, seguito dal cortese invito a non farsi più vedere altrimenti sarà peggio per te.

    La scena aveva infastidito parecchio il professore ma ancora di più l’aveva contrariato il constatare che Franchi faceva parte di quel gruppo di ragazzotti. Allora, pensò Munafò, il discorso di tre giorni prima non era servito a niente! Non riuscì a trattenersi e affrontò i giovani:

    Forse non avete presente che, siccome questo è un locale pubblico, non potete decidere chi può entrare e chi no; e questo a prescindere dalle considerazioni sugli insulti razzisti che avete pronunciato.

    I giovani lo guardarono stupiti e cominciarono a commentare: Ma chi cazzo sei, che vieni nel nostro bar a dirci come dobbiamo comportarci; Ecco qua il solito amico dei negri; se ti piacciono tanto, perché non te ne vai in Africa? e così via, finché qualcuno, informato probabilmente da Franchi, scoprì che a parlare era stato il suo professore di italiano.

    Allora ai commenti si aggiunsero gli sfottò: Hai visto Lorenzo, che simpatico il tuo prof? E’ venuto a darti lezioni private!; e un altro: E no, prof, se volevamo continuare a studiare, facevamo come Lorenzo e venivamo a scuola; però uno come lei, non lo volevo mica! (risate e coro di scherno: ‘scemo, scemo’). E un altro ancora: Comunque qui non vogliano né i negri e nemmeno i loro amici; non è che sei anche comunista, perché qui non vogliamo nemmeno quelli, vero Lorenzo? (risate e coro: ‘comunista, comunista’). E poi l’invito finale: Vai a casa, che è meglio, altrimenti ti buttiamo fuori noi!.

    Da varie frasi e dagli atteggiamenti, Munafò comprese che Lorenzo Franchi, anche se non aveva aperto bocca, era il capo di quel gruppo di esagitati e ciò lo disturbò oltre misura. Le parole gli uscirono di getto: Sì, esatto, sono amico dei negri e anche comunista, in più terrone, ebreo e frocio. E nonostante tutto, ho gli stessi vostri diritti, compreso quello di frequentare i locali pubblici che voglio, senza essere insultato da ignoranti come voi; e tu Franchi, altro che la maturità, sei il più ignorante di tutti!.

    Già mentre pronunciava queste ultime parole, Munafò se ne stava pentendo e stava pensando che avrebbe potuto e dovuto evitare di lasciarsi trascinare dalla collera; l’idea di avere ecceduto diventò reale quando il pugno di Franchi lo raggiunse in piena faccia. Non era stato particolarmente violento ma inatteso e il professore più che dolore avvertì lo stordimento dovuto alla sorpresa. Però il colpo aveva toccato in parte anche il naso, che aveva preso a sanguinare copiosamente. Quando Munafò aveva avvicinato le mani al viso, se l’era ritrovate intrise di sangue e in quello stesso istante si sentì afferrare per le braccia e trascinare di peso verso l’uscita del bar da due robusti giovanotti. Una signora, che stava entrando, si tirò subito indietro per non farsi travolgere; giunti sulla soglia, i due energumeni spintonarono violentemente il professore, che perse l’equilibrio, incespicò e finì steso sul selciato. Alcuni passanti che avevano assistito alla scena, lo guardavano incerti, chiedendosi se fosse o meno il caso di intervenire in soccorso del malcapitato; finalmente un signore di mezza età gli si accostò per aiutarlo a rimettersi in piedi e, vedendo il sangue che gli colava dal naso, gli diede un fazzoletto di carta e gli chiese se dovesse accompagnarlo in ospedale. Mentre Munafò stava per rifiutare, l’uomo lo prese sottobraccio e lo accompagnò fino ad una vettura che si trovava poco distante. Lo aiutò a salire in macchina e gli disse che la cosa migliore era comunque fare un salto al pronto soccorso, per essere certi che non ci fosse niente di rotto. E poi, aggiunse, se era stato picchiato, sarebbe servito anche per una eventuale denuncia. Il soccorritore, prevenendo possibili preoccupazioni, precisò che non aveva impegni in quel momento e che non gli costava nulla accompagnarlo.

    Al Pronto Soccorso, una volta arrestata l’emorragia, constatarono che il setto nasale non aveva subito danni e si limitarono a medicare un’escoriazione sullo zigomo e ad applicare un grosso cerotto. Intanto Munafò si era tranquillizzato e aveva avuto il tempo di ripensare a quanto era accaduto e di decidere cosa fare, anche raccogliendo il suggerimento del suo soccorritore, l’ing. Steffani, al quale aveva brevemente raccontato quanto era successo.

    Approfittando della disponibilità dell’ingegnere, dimesso dal Pronto Soccorso, Munafò si fece lasciare davanti alla locale Stazione dei Carabinieri, in quanto aveva deciso di presentare una formale querela. Il brigadiere che lo accolse, rimase impressionato nel vedere le condizioni del professore, non tanto per il cerotto sullo zigomo, quanto per le vistose macchie di sangue sulla camicia e sul giaccone. Munafò spiegò che

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