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Anelli di carta. L'amore non sa di confini
Anelli di carta. L'amore non sa di confini
Anelli di carta. L'amore non sa di confini
E-book390 pagine4 ore

Anelli di carta. L'amore non sa di confini

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Info su questo ebook

Teodor è un giovane rumeno di ventidue anni, uno studente che lotta per sopravvivere sotto il regime di Ceauşescu. Il giorno che Ariella arriva in città al XII Congresso Internazionale di Linguistica, il suo mondo viene sconvolto. Lei è così diversa da qualsiasi ragazza che Teodor abbia incontrato prima – bella, brillante e ottimista. Per lui è amore a prima vista.

Ma c'è un grosso ostacolo. Ariella è italiana e il contatto tra rumeni e occidentali non è consentito dalle leggi del tirannico regime comunista. Nonostante questo, una volta che lei torna in Italia, il loro rapporto si sviluppa per corrispondenza sotto gli occhi scrutatori della famigerata Securitate. È attraverso le lettere vivide e piene di speranza di Ariella che il loro amore fiorisce. I tentativi di Teodor di ottenere un passaporto per l’Italia per essere con Ariella sono vanificati dal passato della sua famiglia, poiché negli anni Cinquanta suo padre era stato dichiarato nemico del popolo. Ariella torna a Bucarest per visitare Teodor e scoprono di esser fatti l'uno per l'altra e decidono di sposarsi.

Il mondo intero sembra volgersi contro di loro. I sacerdoti li avvertono che, in quanto straniera, Ariella non può sposare Teodor in chiesa, senza prima esibire un certificato di matrimonio civile. I celebranti del matrimonio civile dicono che i cittadini rumeni non possono sposare stranieri senza un’autorizzazione speciale del Consiglio di Stato, presieduto dallo stesso Ceauşescu. I due vengono a sapere che occorrono molti mesi, o addirittura anni, per ottenere l'autorizzazione; e anche allora viene spesso rifiutata. Quando Teodor chiede l'autorizzazione, la Securitate fa quello che sa fare meglio: tenta di ricattarlo per farlo diventare una spia.

Teodor deve affrontare una scelta difficile: accettare di fare la spia per la Securitate e ottenere l'autorizzazione che lui e Ariella vogliono così disperatamente, o andare contro il governo che aveva causato tanta amarezza alla sua famiglia.

LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2021
ISBN9781005031459
Anelli di carta. L'amore non sa di confini
Autore

Teodor Flonta

Transylvanian born Teodor Flonta is a retired academic and author of multilingual proverb dictionaries. He lives in Tasmania, Australia, with his wife, Ariella, surrounded by beautiful grandchildren.

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    Anteprima del libro

    Anelli di carta. L'amore non sa di confini - Teodor Flonta

    Era l’anno 1968. Avevo ventidue anni. Il mio mondo, l’unico che conoscevo – rigido, spietato e chiuso in se stesso – era in guerra con il mondo libero. Storici e politici la chiamavano guerra fredda. Fu davvero una guerra – condotta con molto sangue freddo contro il mio popolo che rimase tagliato fuori dal resto del mondo. I contatti tra noi e i cittadini stranieri non erano permessi. Quell’anno ebbi la fortuna di incontrare una ragazza, Ariella, che veniva dal mondo libero. Le aprii il mio cuore e lei mi aprì il suo. Per noi, all’improvviso, non ci fu più guerra e il mondo era uno. Nelle nostre menti fu così semplice.

    L’italiana

    Vigilia della Pasqua Ortodossa, 1968, Bucarest.

    L’avevo vista quasi solo di profilo lunedì, quella settimana. Sembrava avere fretta, mentre sfrecciava nell’aula della Facoltà di Giurisprudenza; girò per un attimo il volto sorridente verso di me, quel tanto che bastò per imprimersi indelebilmente nella mia memoria e scomparve rapida dalla mia vista, come una gazzella si dilegua nella boscaglia, lasciandomi incantato. Nei giorni seguenti la cercai, con un po’ di ansia, scrutando le facce che entravano e uscivano dalla porta principale. Era svanita. Mi venne in mente l’idea che potesse essere solo ospite per un giorno al Congresso. Ma, ripensandoci, questo mi sembrava improbabile. Tutto in lei mi diceva che era straniera. E quel pensiero mi eccitava e spaventava allo stesso tempo.

    Poi arrivò il sabato, l’ultimo giorno del XII Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza. Andai a lavorare presto con una certa trepidazione nel cuore, quasi rifiutandomi di credere che questa fosse la mia ultima possibilità di trovare la giovane donna che mi aveva ammaliato con la sua fugace apparizione. Adoravo quel poco che avevo visto di lei: la spessa treccia corvina che dondolava da una spalla all’altra, le labbra piene e sensuali e la sua pelle olivastra che mi ricordava le zingare di Lupoaia. Non volevo che il Congresso e la magia creata dal suono delle lingue straniere nell’atrio della Facoltà finissero mai, o almeno finché non avessi rivisto la bella straniera. Tutto questo mi fece riflettere molto quella settimana sul paradosso che vivevo. Ero al mio terzo anno di università, studiavo lingue, eppure questa era la prima volta che mi trovavo a tu per tu con stranieri, be’, molti mi passavano solo accanto, ma qualcuno addirittura si fermava a parlarmi. La maggior parte dei miei compagni non avevano quest’opportunità. Il contatto tra noi e gli stranieri, in particolare gli occidentali, non era consentito, se non espressamente autorizzato. Mi sentivo privilegiato e sorridevo tra me e me al pensiero di essere uno dei pochi studenti di lingue straniere prestati al Comitato Organizzatore del Congresso, per rispondere alle domande dei partecipanti ed aiutarli a trovare le aule. L’ordine era di limitare i nostri contatti allo stretto necessario e di evitare discussioni di politica ma, in caso che diventasse inevitabile, dovevamo tenere presente la supremazia del nostro sistema politico, informando gli stranieri che non vi era alcuno sfruttamento dell’uomo sull’uomo nel nostro paese; che non avevamo disoccupazione, poiché a tutti era assicurato un lavoro; e che non vi erano interruzioni del lavoro nella nostra società a causa di scioperi e contrattazioni senza fine tra lavoratori e dirigenti, come in Occidente. Il nostro sistema era equo per tutti. Avevamo, quindi, tutta la libertà che volevamo per concentrarci sul compito principale di costruire un futuro luminoso, che i leader ci promettevano così spesso. Molti di noi, però, sapevamo che le loro parole erano retorica vuota e non ci credevamo. Stando così le cose, sembrava che fossimo giunti a una specie di tacita alleanza, in cui loro mentivano a noi e noi mentivamo a loro. Dicevamo di sì in pubblico e di no nei nostri cuori. In questo modo tutti guadagnavamo un altro giorno – loro continuavano a guidarci e noi continuavamo a sopravvivere.

    Quel sabato mattina ero di stanza all’entrata della Facoltà. Il primo gruppo di partecipanti al Congresso parlava tedesco, lingua che non conoscevo ma che sapevo identificare. Erano ben disposti e ridevano rumorosamente. Quando si avvicinarono a me, un insegnante della Germania orientale, calvo e di mezza età, con un’infarinatura di rumeno, fece segno agli altri di fermarsi e si girò verso di me, Che numero è questo in rumeno? chiese, mostrandomi sei dita. Per un momento fui sorpreso, ma risposi Şase, provocando l’ilarità del gruppo. Guter Mann, wunderbar! disse l’uomo, dandomi una pacca sulla spalla. Più tardi, scoprii che il nostro şase suonava come Scheiße, o merda in tedesco. Il compagno insegnante della Germania orientale era divertente. Aveva senso dell’umorismo e questo mi piaceva. Sembrava un po’ più rilassato di me e dei miei compatrioti.

    Dopo due ore mi spostarono dalla porta. Mi spiaceva perché non avrei più potuto vedere la ragazza con la treccia corvina entrare, se lei, come speravo ancora, avesse deciso di venire. Dopo un po’ mi misi d’accordo per scambiare posto con un altro compagno e mi sistemai di nuovo accanto alla porta principale, esaminando i volti nell’atrio e tenendo d’occhio la strada che portava dal Bulevardul 6 Martie all’ingresso della Facoltà di Giurisprudenza.

    Verso mezzogiorno una mia giovane lettrice di spagnolo si precipitò dentro.

    "Buenos días, Señora Profesora, salutai la compagna Panduru con un sorriso. Eravamo d’accordo di parlare in spagnolo anche al di fuori dalle lezioni ed ero contento che lo spagnolo mi permettesse di sbarazzarmi dell’odiato termine compagno."

    "¡Hola Flonta! ¿Que tal?" chiese, i suoi occhi passavano rapidamente da me alle poche persone nell’atrio.

    Mi disse che doveva annullare un appuntamento con una ragazza italiana per un impegno più importante che era sopravvenuto. Poi mi chiese in rumeno se avevo fatto amicizia con qualche straniero.

    Non è permesso, dissi.

    Lo so! alzò gli occhi al cielo e con aria di sfida mi disse che aveva fatto amicizia con un paio di spagnoli e ne era molto contenta. L’anno dopo avrebbe richiesto il passaporto e sperava di ottenerlo per recarsi in Spagna.

    Sapevo che non poteva cambiare denaro rumeno e le chiesi come avrebbe risolto quel problema.

    I miei nuovi amici hanno promesso di aiutarmi. Un giorno li ripagherò in qualche modo, ovviamente, disse molto sicura di sé; mentre mi parlava, guardava verso le aule.

    "Perdona," disse e si allontanò da me. La vidi fare un cenno con la mano a una ragazza che usciva da un’aula. All’improvviso il mio cuore cominciò a battere forte, come se stesse per scoppiarmi in petto. Era la ragazza con la treccia corvina, che sorrideva e salutava anche lei la Señora Panduru. S’incontrarono e scambiarono qualche parola. Poi insieme si diressero verso di me.

    Ti vorrei presentare Ariella, disse la Señora Panduru. Flonta è il mio miglior studente, esagerò.

    Feci il baciamano ad Ariella, com’era costume da noi. Quasi ritirando la mano, arrossì: non era abituata a quel genere galanterie.

    Te l’affido, Flonta. È la tua occasione di parlare con un’italiana, mi disse la Señora Panduru con un sorriso. Poi se ne andò senza dir altro.

    Il cuore mi batteva forte, come se stessi correndo gli ultimi cento metri di una maratona. Il mio desiderio di incontrare questa ragazza, a cui avevo continuato a pensare tutta la settimana, era esaudito ed ora mi mancavano le parole. Sapevo di dover dire qualcosa. Dopotutto ero l’uomo e a me spettava l’iniziativa. Ariella mi facilitò il compito, spostando lo sguardo da me alla compagna Panduru che già scendeva i gradini della Facoltà di Giurisprudenza.

    Signorina, lei è la prima straniera con cui abbia mai parlato, dissi, sperando di impressionarla. La impressionai veramente, a giudicare dallo stupore nella sua voce.

    Davvero? chiese con una leggera cantilena, stupita e divertita. Ma, ascolta, continuò, tra il serio e il faceto, cominciamo con il piede giusto. Diamoci del tu. Mi farebbe piacere.

    Va bene, dissi un po’ imbarazzato.

    Ariella, con la sua lunga treccia, mi sembrava proprio una diligente scolaretta, perché appariva molto più giovane della sua età; quando sorrideva, le sue labbra ben modellate rivelavano denti bianchissimi che spiccavano sulla sua carnagione olivastra. Guardando con soggezione questa incantevole ragazza capitalista, tutti gli insegnamenti impartiti dal nostro regime – che i paesi capitalisti e, implicitamente, i loro cittadini, erano i nostri nemici – volarono dalla finestra. Tutte le leggi che vietavano rapporti personali tra noi e loro diventarono immediatamente irrilevanti per me.

    All’epoca c’erano due tipi di crimini che potevi commettere contro lo Stato: propaganda contro il sistema socialista e tradimento – vari tipi di tradimento. Parlando liberamente con stranieri avresti potuto facilmente denigrare il sistema socialista e divulgare chissà quali segreti vitali per il funzionamento dello Stato. Dovevamo sempre tener presente che il nemico capitalista non dorme mai. La legislazione era scritta sommariamente, ma aveva una portata ampia per consentire alla Securitate (la polizia segreta rumena) di agire a sua discrezione contro un sospetto. Chiunque poteva diventare un sospetto in qualsiasi momento. La punizione variava da cinque a vent’anni di prigione, più la confisca dei beni. In certi rari casi era prevista la condanna a morte.

    Quali seminari hai seguito finora? chiese.

    Le dissi che non ne avevo seguito nessuno, dato che noi studenti eravamo lì solo come guide. Sembrò un po’delusa, ma mi disse che era estremamente contenta di essere venuta al Congresso e che la interessava la linguistica strutturale e stava già lavorando come ricercatrice nel settore. Aveva qualche anno più di me e si era laureata tre anni prima all’Università Statale di Milano. Quindi, in tono confidenziale, mi domandò:

    Cosa fai oggi pomeriggio?

    Non lo so... niente di speciale, dissi in fretta. La sua domanda mi sorprese perché era alquanto inaspettata.

    Forse vieni in gita al Muzeul Satului, il Museo del Villaggio. Ho sentito che si affaccia su un meraviglioso lago. Ci sei stato?

    Mi piaceva la sua domanda. Potevo dire di no? Era quello che ci si aspettava da me. Ma come avrei potuto rifiutare la proposta di questa ragazza affascinante? Avrei avuto il coraggio di invitarla io? Forse no, date le restrizioni che le nostre leggi ci imponevano. L’ordine di non accettare inviti o regali da parte di stranieri mi tornò subito in mente.

    Sì, ci sono stato un paio di volte.

    Ci vediamo qui dopo la prossima conferenza? mi chiese.

    Certo, risposi con entusiasmo.

    A presto, disse, con uno sguardo tenero che mi avvolgeva l’anima.

    Ci vediamo, allora.

    Ariella se ne andò e, dopo qualche passo, si girò, puntando scherzosamente il dito verso di me: Ti raccomando, non fare tardi al nostro primo appuntamento.

    Non ti preoccupare, non mi muoverò da qui, dissi ridendo. Non potevo credere che questo stesse succedendo a me.

    Non me ne andai. Dovevo rimanere al mio posto per vedere se qualcuno di questi capitalisti usciva dalle aule delle conferenze, dove andava e cosa stava facendo. In questo modo avrei aiutato le autorità a sventare eventuali complotti contro il nostro paese.

    Certamente Ariella era molto diretta, nonostante alla prima impressione desse l’idea di essere una ragazza timida. Ero sempre più incuriosito e attratto da lei. E speravo ardentemente che non cambiasse programma.

    La porta dell’aula si chiuse dietro di lei. Il pensiero che avrei potuto seguirla con un pretesto, chiedendo a uno dei miei compagni di sostituirmi, mi passò per la testa. Invece andai nella vicina cabina di coordinamento, installata temporaneamente per noi guide. Era affollata e non c’era molto spazio. Nuvolette di fumo saturavano l’ambiente. I miei compagni tossivano, mentre fumavano febbrilmente una sigaretta dopo l’altra. Le sigarette erano straniere, soprattutto Kent. Le sigarette straniere erano disponibili nei negozi speciali in valuta straniera, accessibili solo ai visitatori dall’estero e ai membri di alto livello del Partito, oppure al mercato nero. Potevi trovare molti tipi di sigarette straniere sul mercato nero, ma per qualche ragione la marca Kent era diventata una fissazione per i rumeni. Le Kent potevano aiutarti a comprare un televisore a colori o un videoregistratore molto ambito e altri beni di contrabbando, importati dall’Occidente; una stecca di Kent poteva anche aiutarti a comprare una dentiera o garantirti un appuntamento con un famoso specialista, mentre un singolo pacchetto ti apriva piccole porte che altrimenti ti sarebbero rimaste inaccessibili. Le Kent erano diventate moneta di scambio, accettata tacitamente dal regime e, se non venivi colto nell’atto di acquistarle, eri al sicuro.

    Mi sedetti vicino a Iulia, che mi offrì una sigaretta. Nelle spirali di fumo, che salivano dalla mia bocca, mi era facile immaginarmi Ariella, il suo sorriso affascinante, i suoi capelli corvini e fui colto da un’improvvisa trepidazione: e... se avesse cambiato idea? Non volevo nemmeno pensarci e, per scongiurare quel dubbio, allungai la mano per disperdere gli anelli di fumo. Ma mi sbagliavo nel credere che avrei potuto cancellare quel pensiero dalla mia mente con un semplice gesto. La desideravo. La sua spontaneità, la facilità con cui mi aveva parlato, i suoi sorrisi, tutto in lei mi aveva colpito profondamente. Nel frattempo, nella cabina nessuno pronunciava parola, le Kent diventavano sempre più piccole fino a quando, scottando le dita dei giovani fumatori, i mozziconi finivano sotto le scarpe.

    All’improvviso, attraverso le nuvolette di fumo, mi sembrò di vedere Ariella. Mi precipitai fuori ed eccola lì, seduta sulla panchina lungo il muro dell’atrio, con le gambe incrociate, sfoggiando il suo sorriso smagliante.

    Sei già qui? chiesi, piacevolmente sorpreso.

    Mi annoiavo alla conferenza. Preferirei uscire di qui.

    Dammi un minuto, aggiunsi. Andai da Marin, uno studente di francese, e gli chiesi di sostituirmi. Gli sussurrai la richiesta e lui afferrò il concetto, ma prima si assicurò di non essere stato notato dal supervisore. Aggiunse che voleva una parte dei regali che la ragazza italiana mi avrebbe fatto per i miei servizi e mi fece l’occhiolino, mentre mi spingeva fuori dalla cabina. Privilegiavamo i contatti con gli occidentali, perché erano non solo una fonte di conoscenza di un mondo da cui eravamo esclusi, ma anche una via per procurarci beni materiali che ci mancavano costantemente.

    Ariella ed io uscimmo. I suoi incerti passi giù per le scale mi indussero ad offrirle il braccio e lei accettò con grazia. Ebbi una visione di Ariella come un’affascinante principessa in un abito bianco, con un lungo strascico e io come il suo Principe Azzurro, in cravatta bianca e vestito a coda di rondine, che la conducevo per mano come avevo visto in certi film. Mi resi conto che la mia mente galoppava senza freno. Il pensiero ricorrente che i rapporti tra noi e gli stranieri non fossero consentiti dalle nostre leggi, mi inquietava, ma rendeva più intenso il mio sogno.

    Gli autobus noleggiati dal Congresso, schierati in fila, aspettavano di partire per il Museo del Villaggio. Salimmo sull’ultimo, in attesa che partisse. Studiavo le persone che salivano sull’autobus, tutti stranieri, riconoscibili dal taglio e dal colore dei loro vestiti, dalla loro esuberanza e dalla disinvoltura con cui parlavano tra di loro. Non fui in grado di individuare neanche uno dei miei compatrioti.

    Ariella mi raccontò di come era venuta in Romania. Parlava molto in fretta. All’inizio feci fatica a stare al passo con lei, perché la mia mente era lenta nell’elaborare quell’abbondante flusso di conversazione italiana che si riversava d’improvviso su di me, anche se non avevo molti problemi con l’italiano che sentivo a lezione e nei seminari. Ciò nonostante, godevo moltissimo della mia immersione totale nella sua lingua e dell’occasione di contemplare la giovane capitalista, seduta a suo agio accanto a me; assorbivo ogni suo gesto, il suo sorriso, gli occhi a mandorla, il movimento delle sue labra, i suoi denti bianchissimi, la danza della spessa treccia scura da una spalla all’altra. E, gradualmente, mi senitii anch’io sempre più a mio agio in sua presenza. Ma, vagamente, sentivo di essere io l’osservato – spesso avevo quest’impressione – e la necessità di temperare la sua esuberanza mi sopraffece. Le sussurrai di parlare più piano per non attrarre l’attenzione. Sembrò che capisse e si guardò alle spalle, proprio come avevo già fatto io più volte.

    Mi disse che era stata invitata in Romania da una ragazza che aveva incontrato a Malaga ad un corso estivo di filologia. Tra i professori erano presenti alcuni noti luminari del settore come Baldinger, Coşeriu, Pottier, che ora tenevano conferenze a questo congresso. Mi chiese se sapevo che Coşeriu era rumeno. Sebbene famoso in Occidente, non ne avevo mai sentito parlare prima; non era nemmeno menzionato nei nostri corsi di linguistica. Scoprii in seguito che, quando i comunisti presero il potere, lui era in Italia e non ritornò più a dare il proprio contributo al nostro paradiso dei lavoratori.

    Al corso c’erano solo due ragazze rumene, disse, e notò che non andavano mai alla mensa degli studenti come tutti gli altri. Dopo aver stretto amicizia con Cristina, un giorno Ariella visitò la loro stanza e vide le loro valigie piene di pesce e carne in scatola, cacao e capì che non avevano soldi. Più tardi venne a saperne il motivo. Non potevano uscire dalla Romania con dei dollari e la nostra moneta non era accettata sui mercati internazionali.

    Qualche giorno prima, quando Ariella era arrivata a Bucarest, Cristina e suo marito la portarono in un monolocale nel centro della città e sul letto c’era un regalo per lei, un disco LP di musica popolare rumena. Le fu detto che avrebbe dormito lì. Non sapeva che Cristina e suo marito avrebbero dormito sul pavimento nella casa dei genitori di lei. Ora era molto imbarazzata e cercava un modo per ripagarli, poiché non avrebbero accettato nulla da lei.

    Fummo gli ultimi a scendere dal pullman. Il parco Herăstrău si estendeva su una vasta area lungo la riva del lago e sulle panchine sedevano persone di tutte le età. Il lago, una distesa immensa e luccicante, era pieno di piccole imbarcazioni a remi. Il gruppo procedette rapidamente verso il museo, ma noi due restammo indietro.

    Come passi il tempo? mi chiese Ariella.

    Oh, lavoro, studio e... dormo.

    E non fai nient’altro? chiese Ariella un po’ stupita.

    Veramente no. Cos’altro potrei fare?

    Non esci con gli amici?

    Non ho molti amici. Sentivo di doverle spiegare quanto ero occupato, ma mi sembrò ridicolo.

    Strano! Io ho molti amici, ci aiutiamo a vicenda, facciamo molte cose insieme. A volte potremmo non vederci per mesi, a volte anche per anni, ma restiamo sempre amici.

    Il suo concetto di amicizie estese era troppo stravagante per me. Io potevo contare i miei amici sulle dita di una mano. Il fatto che mio padre fosse stato considerato per molti anni un chiabur – nemico del popolo – aveva limitato la cerchia dei veri amici intorno a me. Mi ci ero abituato col tempo. Ariella parlava di amici in Spagna, Portogallo, Romania e così via. Che lusso, pensai. Sembrava, dal modo in cui parlava, che per lei lo studio fosse un’attività marginale. La invidiavo per essere così tollerante nei confronti dell’amicizia e adoravo il suo atteggiamento quasi spensierato nei confronti della vita; improvvisamente desiderai tanto di essere nella sua pelle e fuori dal mio ambiente grigio e limitante. Studio e lavoro sembravano essere il mio intero mondo.

    Troppo bello per essere vero, fu l’unica cosa che mi uscì dalla bocca.

    Per noi è il piacere di incontrarci, discutere, scambiare idee. Non dobbiamo avere opinioni e filosofie identiche.

    Era evidente che lei non sapeva molto del mio mondo, dove lo scambio di idee poteva essere pericoloso. Sapevamo che criticare il governo era un’offesa, ma anche l’acquisto e la discussione di libri stranieri non erano tollerati. Molti libri nelle nostre biblioteche potevano essere consultati solo con un permesso speciale. Anche la corrispondenza con gli stranieri non era consigliabile. Ariella era fortunata. Il mio mondo era così diverso dal suo. Molte cose erano capovolte, niente quadrava. Come poteva essere altrimenti, quando nella nostra autoproclamata società materialista erano le cose materiali che ci mancavano di più. Era evidente a tutti che il mondo occidentale era materialmente più ricco del nostro. Eravamo tutti bisognosi, poveri in confronto. Quindi l’amicizia era spesso limitata a uno scambio di merci che creava una catena di obblighi reciproci. Avevamo bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere, poiché il regime si preoccupava principalmente di ciò che non potevamo fare e che non potevamo avere. Ho l’obbligo di fare questo per lui o per lei, era quello che sentivi spesso e questo era il cemento che teneva insieme gli individui nel mio mondo. Una vita piena di obblighi, e spesso priva di sentimenti, non era affatto divertente, ma ci teneva impegnati. Per quanto riguarda lo scambio di idee, be’, potevamo correre il rischio di farlo in privato, mettendo alla prova la fiducia di familiari e amici.

    Beata te! dissi e mi sentii subito in colpa per la mia mancanza di fantasia. Poi sentii il bisogno di spiegarle con calma che dovevamo sempre prestare attenzione a cosa dicevamo e a cosa pensavamo, perché nella nostra società anche i muri avevano le orecchie e gli occhi della Securitate.

    Quest’organismo fu creato nel 1948 ed entro il 1960 aveva già messo in atto un formidabile sistema di sorveglianza e repressione, che ricorreva ad arresti nel cuore della notte, botte, torture e stupri. Metteva in pratica gli obiettivi del Partito diffondendo la paura. Si stimava che i collaboratori della Securitate ammontassero a centinaia di migliaia. Ciascuno di noi poteva essere considerato un nemico e perciò ci sentivamo costantemente sorvegliati.

    Ariella disse che stava cercando di capire, ma lo trovava difficile. Per un momento la sua incertezza mi fece balenare alla mente un’idea folle. E se lei, con quel suo sorriso accattivante, stesse lavorando per loro? Tutto era possibile. Non c’era poi voluto molto, con il suo atteggiamento aperto e il suo discreto fascino, a farmi parlare. Guardando perplesso la mia esperta Mata Hari e rendendomi conto che le mie osservazioni erano andate troppo in là, sentii l’improvviso bisogno di rimediare in qualche modo a ciò che avevo detto, forse minimizzando il senso delle mie parole, ma qualcosa mi paralizzò; non feci niente. Mi guardai intorno e la guardai di nuovo. Eppure, quel sorriso non sembrava il sorriso di un traditore. Ma com’era il sorriso di un traditore? Non potevo lasciare che il panico del momento rovinasse tutto. Troppo spesso in passato mi ero fatto guidare da regole che si potevano riassumere nella semplice frase nu se poate, non si può, con cui le istituzioni risolvevano le domande dei cittadini e avevo rinunciato ad insistere. E troppe volte mi ero poi pentito delle mie decisioni.

    Ci sediamo? chiese Ariella indicando una panchina vuota.

    Sì, devi essere stanca, osservai.

    Si diresse lungo il sentiero verso una panchina. La seguii, felice che il nostro gruppo non si vedesse più e che la guida non ci potesse richiamare. Ci sedemmo. La folta corona di un enorme albero si levava sopra di noi come una magnifica cupola. I suoi rami bassi ed estesi erano carichi di bellissimi fiori candidi. Caldi raggi di sole guizzavano tra i rami e danzavano sull’erba. Una leggera brezza ci portava il fievole infrangersi delle onde sulla riva del lago. Profumi delicati emanavano dalle aiuole variopinte sparse intorno a noi.

    Che fiori superbi! esclamò Ariella. È come un paradiso qui.

    Fui tentato di dire, sarcasticamente, paradiso dei lavoratori, la frase usata alla nausea dalla propaganda ufficiale, ma decisi di aver già parlato troppo di politica.

    Mi piacerebbe che tu avessi ragione, risposi invece.

    Mi alzai, spezzai un ramoscello fiorito e glielo offrii. Lei mi ringraziò, con occhi sorpresi e guance arrossate, poi staccò un rametto di fiori e lo fissò timidamente in cima alla sua treccia corvina. Quei fiori le davano un’aria festosa e sembravano essere al loro posto naturale. Fui tentato di abbracciarla. Non lo feci, ma riuscii a malapena a trattenermi. Mi sentivo più leggero e decisi che la paranoia, che ogni tanto mi assaliva, non avrebbe dovuto ostacolare il mio divertimento con la mia affascinante compagna. I suoi occhi, che mi fissavano come se volessero penetrarmi l’anima, il timido rossore delle sue guance, il modo civettuolo in cui inclinava la testa quando sorrideva e il tono di voce, dolce e premuroso, quando faceva domande che considerava indiscrete erano autentici, sicuramente, e ispiravano fiducia. Ora tutto in lei contraddiceva le mie precedenti paure che potesse essere un’agente che lavorava contro di me. Non avrei dovuto dubitare del mio primo istinto e ora rimpiangevo quel momento di debolezza.

    Avrei voluto con tutto il cuore poter fermare quegli attimi trascorsi insieme e incorniciarli tutti come quadretti, con noi due al centro come figurine inseparabili.

    Il chiassoso gruppo dei partecipanti al Congresso, dopo aver percorso l’itinerario

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