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Il mio nome è Cesare Lombroso
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E-book272 pagine3 ore

Il mio nome è Cesare Lombroso

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Info su questo ebook

Cesare Lombroso, psichiatra e grafologo forense, nonché discendente diretto del creatore della Criminologia di cui porta il pesante fardello del suo nome, viene chiamato sull’isola di Sansego per indagare sull’omicidio di Antonio Picinić. Sul suo corpo, l’omicida ha lasciato un biglietto scritto a mano e le autorità locali sperano che un’indagine grafologica possa trovare velocemente il colpevole.
Cesare è conosciuto sull’isola, che frequenta da anni come ospite di Gian Giorgio Delle Rive, uomo ricco e influente.
Per riuscire meglio nella risoluzione del caso, Cesare collaborerà con la sua giovane assistente, Marta Bouvier, che si dimostrerà fondamentale per la conduzione dell’indagine.
Intanto, Cesare viene anche coinvolto in un’indagine segreta parallela dall’amico Gian Giorgio, vittima egli stesso di un avvelenatore che sta tentando di ucciderlo lentamente.
Le indagini si dimostreranno complesse e inaspettatamente collegate.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2024
ISBN9788892968523
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    Anteprima del libro

    Il mio nome è Cesare Lombroso - Roberta Melli

    23 maggio 2015: la laurea

    Mi chiamo Marta Bouvier. Nonostante il mio cognome sono italiana, nata a Trieste il 5 maggio 1988, da padre di nazionalità italiana e madre istriana. Mia mamma sosteneva di non avere un’identità nazionale, ripeteva che non possedeva una vera patria. Le era stata rubata quando era bambina, nel momento stesso in cui le avevano ucciso il padre e il fratello maggiore senza nessuna colpa, se non quella di essere italiani.

    Mi ripeteva che quello era il destino che attendeva anche me, esule sempre e dovunque, e io ci avevo creduto. Scoprire poi che il mio cognome è lo stesso di una celebre first lady e che viene citato in un cartone animato americano, mi ha tolto ancora di più l’idea di appartenere a una qualsivoglia terra.

    Ma tutto questo non c’entra nulla con la mia storia.

    Tutto cominciò un lontano giovedì di ottobre del 2015, il giorno in cui mi avevano proclamata Perito grafologo forense presso l’Istituto Morettiano di Grafologia di Padova, dove avevo portato e discusso una tesi di criminologia dal titolo: «Segni grafologici concomitanti nella grafia di due assassini seriali: la premeditazione».

    Fu una giornata magnifica, in cui ogni cosa stava andando esattamente come desideravo, curando ogni particolare, immaginando ogni possibile domanda… ma non tutto era sotto il mio controllo.

    Mentre uscivo dall’aula, sorridendo ai parenti e agli amici che erano venuti a Padova per festeggiarmi, mi accorsi di lui. Era in piedi, a una distanza sufficiente per avere una prospettiva completa di quanto stava accadendo, e mi guardava fisso.

    Non lo avevo mai visto prima, ma tutti i professori della commissione e i grafologi che stavano seguendo un convegno di Grafologia professionale e che in quel momento erano in pausa nei corridoi dell’istituto, sembravano conoscerlo da tempo.

    «Salve, dottoressa» mi disse appena mi vide sola alla macchinetta del caffè, mentre fuori, nel cortile, gli amici mi stavano preparando una sorpresa. «Ho ascoltato con molta attenzione la sua tesi e devo dire che l’ho trovata molto interessante.»

    «Lei è molto gentile, signor…»

    «Ha ragione, non mi sono presentato» mi rispose con uno strano sorriso tra il sornione e l’ironico. «Sono il professor Cesare Lombroso.»

    «Cesare Lombroso?» ripetei incredula.

    «Sì, lo so, quando devo dire il mio nome provo ancora imbarazzo come un ragazzino, ma questo è, e non posso far molto al riguardo.»

    «Be’, di sicuro non passa inosservato» risposi, capendo in quel momento il perché di quello strano sorriso, ma non feci in tempo a chiedergli come mai portasse un nome così altisonante che lui mi incalzò: «Le volevo chiedere già da subito, visto che, mi pare di capire, tra breve dovrà presenziare a una festa, se lei è disponibile a un lavoro come grafologa all’estero…»

    «Di già?» mi sfuggì mio malgrado. «Ma, non so, non mi sento all’altezza, sono appena stata proclamata, cioè d-dipende…» cominciai a balbettare senza riuscire a mettere insieme un pensiero coerente, tanta era la mia sorpresa e la mia felicità.

    L’uomo tirò fuori dalla tasca un foglietto strappato e me lo porse: lo presi tra le mani senza capire, ma la deformazione anche di un grafologo in erba era di studiare immediatamente ogni gesto grafico che si evidenziava da quelle poche righe parziali.

    «Bene, Marta, adesso guardi verso la macchinetta del caffè: ci sono cinque persone che stanno parlando mentre fanno la fila. Ha sessanta secondi per dirmi a chi di loro appartiene questa scrittura.»

    «Cosa?» gli risposi senza capire e con il batticuore vedendo che aveva incominciato a guardare l’orologio a cronometro.

    Dunque, scrittura veloce, senza inceppamenti, lettera maiuscola ammanierata, collegamenti originali e dinamici… Ci sono due donne e tre uomini. Una donna è troppo truccata, vestita in maniera vistosa, capelli statici e acconciati: esclusa. Altra donna, troppo lenta, sta bevendo il caffè sorseggiando alla velocità di una lumaca, sorride e si muove come un camaleonte sul ramo, circospetta: esclusa. Ragazzo giovane, ride, si muove in modo spigliato, occhio vigile, si gira appena sente un rumore… Sì, forse. Uomo anziano, completo beige, affabile, ascolta con attenzione, ma mi sembra troppo vecchio per una scrittura così. Ragazzo giovane, silenzioso, alla donna sono cadute delle monete e non si è neppure azzardato a raccoglierle, troppo timido, bloccato: escluso. Rimangono i due uomini… Ma sì, ci sono, è evidente!

    «Tempo scaduto. Allora?»

    «L’uomo più anziano, quello con il completo beige.»

    «D’accordo, gli altri tre erano evidentemente esclusi, ma perché non il ragazzo con la camicia blu?»

    «Per due motivi» risposi con calma. «La maiuscola ricercata, ammanierata in parte, ma con eleganza sobria, mi diceva che non poteva essere il ragazzo, perché è spettinato e ha le scarpe un po’ infangate. Una lettera ricercata tiene alla sua immagine e il vecchio indossa un completo beige, elegante ma non vistoso: sta nel profilo. Quando poi l’ho visto prelevare con una mano il bicchiere del caffè dalla macchinetta e contemporaneamente prendere il resto degli spiccioli con la destra e con un gesto veloce metterli nel taschino, ho collegato il segno Dinamica che ha nel comporre la lettera o, con la capacità di adattamento veloce alle situazioni. È riuscito a coordinare contemporaneamente due azioni distinte con le mani. Ma adesso voglio sapere se ho sbagliato.»

    Cesare rimase zitto a osservarmi, poi si decise a rispondermi con un sorriso compiaciuto: «Non l’avrei scelta se non fossi stato certo che avrebbe capito subito di chi si trattasse, e in soli sessanta secondi. Ma adesso mi risponda: vuole iniziare questo nuovo lavoro, sì o no?».

    Rimasi zitta, ancora troppo felice del mio primo piccolo successo per riuscire a razionalizzare una risposta alla velocità che lui mi chiedeva; infatti, mi sollecitò: «Benissimo, lo sappiamo tutt’e due che lo accetterà» rispose sicuro «ho guardato la sua scrittura. Se non le dispiace, le lascio il mio biglietto da visita». Intanto lo aveva tirato fuori dal taschino della giacca e me lo aveva porto.

    «A Sansego, in Croazia, c’è stato un omicidio e ho bisogno di una collaboratrice che sia intuitiva, preparata, con capacità indagatorie reali e, soprattutto, che non sia ancorata a vecchi schemi stantii e logiche obsolete.»

    «Ci sto» risposi prima ancora di rendermene conto e finalmente senza indugiare troppo.

    «Perfetto, la partenza è prevista per venerdì prossimo. Io l’anticiperò di due giorni e le spiegherò il motivo una volta che sarà arrivata sull’isola. Mi chiami domani e le darò i dettagli. Intanto si goda la sua meritata festa.» E con quelle parole chiuse ogni contatto con me, anche visivo, perché stavano arrivando i miei amici per festeggiare. In men che non si dica, ero fuori nel cortile e di Cesare neppure l’ombra.

    Maledetti grafologi, sanno già cosa dirai prima che tu stesso te ne renda conto. Ma presto toccherà anche a me.

    Con la felicità nel cuore, mi lasciai andare ai festeggiamenti.

    25 maggio 2015: in viaggio verso Sansego

    La nave di linea della Jadrolinija solcava lenta e pesante le acque scure che separavano Mali Lošinj da quell’isola amena e poco conosciuta chiamata Sansego fatta di sola sabbia, un mistero del Mediterraneo che solo pochi scienziati avevano tentato di spiegare, ma senza alcuna certezza. Le correnti in quel punto creavano zone di torbida e lasciavano perciò cadere sul fondo la sabbia rubata dalle lontane coste italiane; così, granello su granello, era sorta dal mare l’isola con la stessa bellezza di Venere generata dalla spuma delle onde.

    Cesare era un neurologo e anatomopatologo affermato, con una fama che aveva superato i confini europei, ma aveva sempre un cruccio che gli rodeva il fegato, anche se non voleva ammetterlo: il suo nome.

    Ma come aveva fatto sua madre a chiamarlo come il suo illustre trisavolo? Avrebbe preferito che gli avesse dato il vero nome del celebre parente, Marco Ezechia, ma un tale appellativo era talmente assurdo anche per un uomo degli inizi dell’Ottocento, da farsi soprannominare appunto Cesare; e così, un secolo dopo, toccava a lui portarne il peso.

    Ogni volta che veniva convocato per qualcosa, nonostante le sue indiscutibili qualità, si chiedeva: Ma mi cercano per il mio nome?

    Eh sì, il suo fin troppo famoso familiare era considerato da qualcuno un genio, ma da molti un incapace imbonitore di menti semplici.

    Cesare guardava la superficie a pellicola del mare e pensava che, grazie a quell’isola meravigliosa, una volta per tutte sarebbe stato in grado di dimostrare il valore del suo avo, ma non con la scienza che tutti si aspettavano, bensì proprio con le teorie del Lombroso: la mente criminale che si può riconoscere oltre ogni ragionevole dubbio.

    L’omicidio per cui era stato chiamato dalle autorità locali era il primo a memoria d’uomo a Sansego: un’isola dove tutti si conoscevano, dove tutti in qualche modo erano parenti, come poteva nascondere un assassino tanto crudele?

    Non gli erano ancora stati comunicati i particolari, ma a maggio, quando non esistono praticamente turisti, solo uno di loro, un isolano, poteva essere il colpevole.

    Inutile fare congetture: prima doveva sbarcare e poi raggiungere la parte alta del paese dove il suo vecchio amico Gian Giorgio Delle Rive, proprietario terriero e produttore di vino pregiato, lo avrebbe ospitato come tutti gli anni, solo che, questa volta, in un periodo non proprio estivo e per un tempo indeterminato.

    Cesare aveva scelto una collaboratrice, una giovane grafologa appena diplomata: si era informato sugli allievi del corso di quell’anno e aveva avuto le loro scritture, in modo da scegliere la persona adatta e con le qualità che gli servivano, nell’unico modo certo per un grafologo. Una neodiplomata era sicuramente scevra da condizionamenti e priva di standard da riutilizzare per fare la minor fatica possibile; insomma, un’allieva da «crescere» come voleva lui.

    Il carattere poi era compatibile col suo, anche se aveva dei difetti non da poco ed era una persona difficile da controllare, ma questo non rappresentava un problema: se conosci, risolvi.

    Il problema sarebbe stato se avesse avuto quei maledettissimi ricci del Nascondimento, una sorta di piccole curve nelle lettere finali che vanno con movimento regressivo a «nascondersi» appunto sotto al corpo centrale delle lettere, cioè al rigo di base.

    Lui ne aveva l’avversione, perché quelle erano persone sempre sulla difensiva, anche se ammantate da una falsa spontaneità e apertura che gli facevano saltare letteralmente i nervi. Il fatto poi che quei ricci li avesse proprio lui, non era importante.

    Ed ecco che il suo sguardo si posò su di un tronco che galleggiava e che aveva pericolosamente lambito il traghetto.

    Allora ormai siamo arrivati, pensò e alzò lo sguardo verso quello strano scoglio di sabbia che lo attendeva con il suo ponderato silenzio fatto di versi aspri di gabbiani e fruscii taglienti. Fruscii che solo le foglie appuntite dei boschi a canneti riescono a produrre alla brezza marina che spira quasi costantemente sulle coste friabili, pur senza riuscire a scalfire il caldo soffocante che caratterizza l’isola dal termine del mese di aprile fino ai primi giorni di novembre.

    20 maggio 2015: perché?

    Picinić Antonio camminava sul molo di Sansego e guardava i pescherecci, tutti più belli e più moderni del suo, adatto alla pesca delle sardine. Non era poi così importante, non era legato ai guadagni, e col pescato, se non era pregiato come il dentice, il branzino o l’orata, non riusciva quasi a far rientrare neppure le spese. Lui però era felice, aveva trovato il suo vero tesoro e voleva che nessuno lo scoprisse, almeno fino a quando non lo avrebbe messo al sicuro. Aveva trent’anni quella vecchia barca per la pesca delle sardine lasciatagli da suo nonno, ricordo dei tempi d’oro dell’isola, quando tutti vivevano intorno alla fabbrica di pesce in scatola, una casetta proprio in prima fila, al limite del paese: cosa voleva di più dalla vita?

    Era arrivato alla fine del molo e aveva iniziato a passeggiare sul bagnasciuga incurante del freddo pungente dell’acqua di mare a maggio: lui era stato forgiato da quei luoghi e un piede quasi ghiacciato non era certo un problema.

    Una sensazione spiacevole, un veloce fastidio, intenso e violento, lo fece trasalire e senza rendersene conto guardò in basso e vide una lama a mezzaluna fuoriuscirgli dal costato. Un attimo, qualche decimo di secondo e si rese conto che la camicia era madida di sangue come le sue mani, che si erano avvicinate a toccare quel pezzo di metallo apparso dal nulla. Ed ecco il dolore, atroce, bruciante, stridente che usciva dalla sua carne violata, mentre vedeva sparire la lunga lama, tirata indietro da mani crudeli e sconosciute, che con un guizzo, veloci come lampi di temporale in un cielo d’agosto, e con determinata crudeltà riaffondarono la stessa lama sulla sua schiena, una, due, tre volte, fino a che, sconfitto, Antonio non cadde di peso sulla sabbia gelida.

    Rimase lì fermo, immobile, stringendo i denti per rimanere di marmo, fingendosi morto, con gli occhi spalancati verso l’acqua salmastra che gli lambiva il viso, rinnegando il dolore con tale forza d’animo da non sentirlo più. Non si rendeva conto di quanto tempo stava passando, fermo sulla riva del mare, con la testa pesante che sprofondava sempre più dentro la densa sabbia intrisa di acqua salata. Il cielo cominciò a tingersi di blu intenso, facendo risaltare la sottile unghia lucente della luna nuova, e allora Antonio decise che era il momento di tentare di alzarsi, anche perché la marea aveva cominciato ad alzare il livello del mare e l’acqua iniziava a entrargli nelle narici. Non sentiva male, e pensò che forse non fosse stato ferito gravemente, ma appena cercò di muovere gli arti si accorse che nulla del suo corpo rispondeva ai suoi comandi. Ecco perché non sentiva dolore. Era completamente paralizzato, forse a causa di una ferita più profonda che gli aveva reciso il midollo spinale. Capì che aveva padronanza solo dei muscoli del viso.

    Intanto la marea saliva, saliva, saliva, insieme alla notte che si accendeva del canto dei grilli, mentre lui respirava acqua salmastra nell’assoluta solitudine di un panico senza voce.

    La firma dell’assassino

    Cesare era sbarcato a Sansego da appena dieci minuti e già sentiva il forte bisogno di addentrarsi nei sentieri costeggiati dalle canne, verso la punta estrema a sinistra dell’isola vista dal porto, dove si trovava la chiesa di San Nicola e null’altro. Gaspare, il maggiordomo della famiglia Delle Rive, era arrivato puntualissimo sopra al piccolo trattore adibito al trasporto dei bagagli, unico mezzo di trasporto consentito a Sansego, e aveva caricato anche le vettovaglie e l’acqua in bottiglia che arrivavano come rifornimento ogni tre giorni, dato che l’isola non era provvista di acqua potabile, ma solo di quella piovana raccolta nelle cisterne sotterranee collegate alle grondaie dei tetti.

    Un maggiordomo. Di questi tempi… pensò Cesare tra sé,

    divertito come ogni volta che lo rivedeva, sempre così perfettamente ingessato come l’aveva lasciato l’anno prima, sentendosi catapultato in una società a metà tra la fine dell’Ottocento e un’epoca difficile da determinare in un posto così isolato dal resto del mondo.

    «Gaspare» disse dopo i dovuti convenevoli «se non ti dispiace, vorrei andare a piedi verso San Nicola. Vi raggiungerò intorno all’ora di pranzo.»

    «Impossibile, dottor Lombroso» lo interruppe l’uomo. «Il dottor Gian Giorgio mi ha detto di comunicarle che la stanno aspettando all’ambasciata americana per farle ispezionare il cadavere.»

    «Di già?» rispose indispettito Cesare, che mal sopportava qualsiasi forma di limitazione della sua libertà. Poi, capendo dall’espressione di quel «servitore di cera» che lui non poteva farci nulla, essendo pure ospite nella magione della famiglia Delle Rive, salì sul trattore sbofonchiante denso fumo puzzolente di cherosene e non aggiunse più nulla, concentrandosi per non pensare a come le minuscole particelle di quel veleno combusto si sarebbero appiccicate ai suoi polmoni cercando di procurargli magari un cancro.

    Arrivato davanti all’ambasciata, scese da quel mezzo di trasporto improvvisato e si avviò all’entrata, pensando a chi mai avesse deciso di chiamare «ambasciata» un circolo culturale fondato dai numerosi migranti che tutte le estati ritornavano sull’isola dagli Stati Uniti.

    L’edificio, bianco e di stile coloniale adornato da troppe colonne e statue di pietra di dubbio gusto, si affacciava proprio sulla spiaggia principale, l’unica attrezzata con ombrelloni e sdraio di tutta Sansego: all’ingresso c’era sempre un militare statunitense che incuteva soggezione. Lombroso non comprendeva il motivo per cui gli Stati Uniti mandassero ogni anno dei militari a presidiare il palazzo: tutto ciò gli dava l’idea che in realtà fosse una struttura di copertura per chissà che altro.

    La camera ardente era rinfrescata da un vecchio e rumoroso condizionatore d’aria in versione split, che faticava a tenere l’ambiente realmente fresco come sarebbe stato necessario.

    Per fortuna il cadavere, sistemato lì da cinque giorni, non emetteva odore poiché il processo di decomposizione non era ancora iniziato del tutto, anche se la temperatura della stanza faticava a restare sui dieci gradi di giorno, ma scendeva a sette di notte.

    Picinić Antonio, il giovane uomo ucciso, non era morto per le ferite riportate dal violento attacco dell’assassino, bensì era annegato a causa della recisione del midollo spinale a livello della vertebra cervicale c8, che lo aveva paralizzato dal collo in giù e che non gli aveva permesso di scampare alla marea che si era alzata con la luna nuova.

    Picinić era figlio di un ricco imprenditore edile di Boston originario di Sansego, e ad appena ventitré anni aveva rinnegato le scelte del nonno paterno, tanto da ritornare sull’isola per vivere la vita che, secondo lui, era quella per cui erano stati generati. Il padre lo aveva diseredato e a lui era toccata solo l’eredità da parte materna, una piccola casetta nel borgo antico dell’isola e un peschereccio per le sardine.

    Ecco il motivo per cui la sfortunata vittima era stata portata all’ambasciata e aveva avuto un trattamento così particolare.

    Ma perché le autorità di Sansego, attraverso il suo amico Delle Rive, avevano chiamato un neurologo anatomopatologo, oltretutto neppure medico legale? In fondo, l’autopsia era stata già fatta, anche se, di prassi, il corpo avrebbe dovuto essere trasportato a Fiume.

    «Professor Lombroso, immagino.» Una voce profonda proveniente da un angolo buio della camera ardente lo aveva fatto trasalire. «Piacere di conoscerla.» L’uomo che aveva appena parlato uscì dall’ombra per presentarsi: «Sono Luka Tarabokija, il sindaco di Susak».

    L’uomo appariva un po’ rozzo nei modi e nell’abbigliamento, ma gli occhi piccoli e penetranti suggerivano un’anima ben diversa.

    Dopo i soliti convenevoli e una breve descrizione della dinamica dell’omicidio, Tarabokija svelò finalmente il motivo per cui avevano cercato l’aiuto del famoso professor Lombroso che, tra i tanti titoli, era anche un grafologo criminale di fama.

    «Nella schiena del povero Antonio, al centro del costato, era ancora conficcata l’arma: un coltello strano, dalla lunghezza complessiva di 26 centimetri, la lama in acciaio inox di 14 centimetri di lunghezza, 3 centimetri di larghezza e 3,2 millimetri di spessore. Il manico è stato realizzato da un artigiano, in corno di cervo sembrerebbe, la lama invece è di tipo industriale. E poi c’era anche un foglio di carta bloccato tra l’impugnatura e la carne…»

    «Un foglio?» chiese Cesare. In realtà il suo amico Gian Giorgio gli aveva anticipato qualcosa attraverso il suo maggiordomo, ma gli aveva fatto promettere di non lasciarlo intendere e di mostrarsi stupito.

    Tarabokija si avvicinò a un tavolino poggiato alla parete sud della stanza e prese una busta trasparente da cui estrasse un foglio.

    «Ecco, tenga» gli disse porgendoglielo, «lo guardi pure con calma. È scritto a mano con un pennarello indelebile su di un foglio plasticato.»

    Lombroso lo prese e si spostò verso la finestra che dava direttamente sulla spiaggia e cominciò a scrutarlo.

    Lesse con voce incredula. «Ma che razza di messaggio è? Non rientra nella prassi abituale

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