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Il giardino degli aranci
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Il giardino degli aranci
E-book138 pagine1 ora

Il giardino degli aranci

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Info su questo ebook

Massimo Cozzi è nato l’8 marzo 1949 a Civitavecchia, dove tuttora vive. Si occupa di Letteratura italiana e di poesia del Novecento.
Ha svolto attività di studio e di ricerca sul: “Cambiamento organizzativo e la gestione delle risorse umane”. È autore di numerose pubblicazioni, dispense e del libro: La regolazione e lo sviluppo organizzativo del sistema sportivo italiano (2004).
Ha svolto attività di formazione e si è occupato dell’organizzazione di corsi di formazione, in collaborazione con la LUISS-Management e la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
Ha avuto incarichi di docenza, presso la cattedra di Sociologia della Facoltà di Magistero e presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.
Ha insegnato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “LUMSA” di Roma.
Il giardino degli aranci è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9791220134286
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    Anteprima del libro

    Il giardino degli aranci - Massimo Cozzi

    Prologo

    Quell’autunno sembrava voler rinunciare a recitare la propria parte, aprendo, con molto anticipo, le porte all’inverno.

    Da più di un mese una pioggia battente, un freddo pungente e un vento teso di grecale sferzavano, senza tregua, la città.

    Le condizioni climatiche e il grigiore incombente delle giornate, livide e senza sole, influivano sull’umore di Armando, la cui esistenza era cadenzata dall’angoscia e dalla paura di vivere.

    Aveva tagliato i ponti con un passato che non gli apparteneva e, forse, non gli era mai appartenuto. Viveva confinato nel proprio presente senza avere alcun interesse per il futuro. Usciva di casa solo per sbrigare le incombenze della quotidianità. Ancorato alla monotonia delle abitudini, le sue giornate scorrevano lente e noiose. Una profonda apatia s’era impossessata di lui e l’aveva reso indifferente a tutto quello che lo circondava: le cose, le persone avevano perso la loro fisicità come se la loro essenza fluttuasse nel vuoto di una dimensione impalpabile.

    Il tempo e lo spazio, sempre fissi e uguali, s’erano rarefatti. Tutto accadeva in una sospensione immobile.

    S’interrogava spesso ma non trovava alcuna risposta per acquietare la sua ansia e dissolvere le grigie ombre che affollavano la sua mente.

    Il suo fisico aveva risentito della condizione emotiva nella quale era scivolato: era ingrassato, i suoi gesti avevano subito un rallentamento motorio. Il corpo mostrava i segni dell’età, anche se taluni atteggiamenti, la sua complessione stenica e l’andatura veloce ricordavano quelli dell’atleta che era stato. Superava di poco l’altezza media, ma appariva più alto per la prevalenza della lunghezza degli arti inferiori su quella del tronco. I lineamenti del viso evidenziavano, oltre al gonfiore della faccia, occhiaie marcate e borse sotto gli occhi, solo questi, mobilissimi e del colore vellutato dell’ambra, avevano mantenuto l’espressione viva e dolce di un tempo. I capelli, quasi del tutto canuti, tranne una corona scura alla base del capo, si erano diradati nella parte superiore e sulle tempie, lasciando intravedere la cute rosata del cuoio capelluto.

    Con il passare degli anni, aveva perso l’ambizione, la caparbietà e la grinta di farsi largo che gli avevano consentito di raggiungere il vertice dirigenziale dell’amministrazione presso la quale aveva lavorato. La pigrizia fisica e mentale aveva limitato le sue capacità, lo aveva reso incapace di reagire. Aveva scelto di disertare ogni impegno per starsene, defilato, in disparte.

    La mattina del quattro novembre, al risveglio, dopo una nottata insonne, il suo stato era pietoso. Non riusciva a comprendere il motivo della sua condizione che rendeva banale qualsiasi cosa pensasse di fare. Valutò a lungo prima di decidere se ne valesse, ancora, la pena; concluse che sarebbe stato inutile continuare il rapporto che lo legava all’università, presso la quale aveva continuato ad insegnare anche dopo la pensione, anticipata a cinquantasette anni. Quella mattina, stracciò la lettera d’incarico e il contratto che gli uffici di segreteria avevano predisposto per lui. Era consapevole che avrebbe rinunciato all’unico stimolo rimastogli.

    L’insegnamento, negli ultimi quindici anni, aveva rappresentato un’esperienza gratificante, in grado di farlo sentire vivo e utile, perché gli aveva consentito di mettere a disposizione degli altri le proprie conoscenze, oltre alle proprie competenze, acquisite in trentacinque anni di lavoro.

    Nelle sue lezioni, aveva scelto di utilizzare una comunicazione a due vie, coinvolgendo i propri allievi a partecipare in maniera attiva, attento a comprendere i loro bisogni, ad ascoltare le loro richieste e i loro suggerimenti. Aveva vinto la scommessa con se stesso: li aveva coinvolti, soprattutto, a livello emotivo, proponendo loro, attraverso la simulazione e le dinamiche di gruppo, un’esperienza che li aveva messi in gioco nella loro totalità di individui. Era riuscito a suscitare in loro la curiosità e l’interesse per la propria materia, a stimolare l’amore e la passione per la conoscenza.

    La novità del metodo e degli argomenti, la capacità di gestione dell’aula gli avevano procurato la simpatia e l’apprezzamento degli studenti per i quali era il prof. Si compiaceva di essere appellato in quel modo, gli piaceva credere che quel sostantivo non fosse la semplice abbreviazione di professore, ma un vocabolo coniato, simpaticamente, apposta per lui.

    Lo aveva sempre gratificato insegnare, lo aveva fatto con passione, ora, quella scelta lo rendeva consapevole che non avrebbe più provato quell’emozione, perché stava per tagliare il legame che lo teneva ancorato alla vita attiva e gli consentiva di essere in relazione con gli altri. In preda all’agitazione, trasse un lungo sospiro per liberarsi dall’ansia, dalla paura del vuoto e della solitudine che avvertiva in quel momento.

    1.

    Clara

    La sera prima suo figlio, dopo il fine settimana trascorso in famiglia, se n’era ritornato a Roma, dove viveva da circa un anno.

    – Dove vai? – gli chiese Armando, vedendolo intento a preparare la borsa da viaggio.

    – Torno a casa mia, – rispose, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo.

    – Ma casa tua è questa!, perché hai deciso di partire con questo temporale che si sta avvicinando e non promette nulla di buono?

    – Sì e non tornerò prima di Natale..., – rispose, sbrigativamente, il figlio.

    – Ma Natale è tra più di un mese!, – replicò il padre.

    – Uffa – sbuffò, stizzito, Alessandro.

    – Non hai sentito cosa ha detto il telegiornale? La Protezione civile ha diramato comunicati di allerta meteo, sono previste trombe d’aria sul litorale nord, proprio qui da noi, – lo incalzò Armando, cercando di dissuaderlo.

    – Sì, ma vado in treno e tra un’ora sarò arrivato.

    Chiese se ci fossero un paio di calze pulite da portarsi via ma non ebbe risposta. Dopo avere oltrepassato la porta del primo corridoio di casa, percorse l’altro e, continuando a parlare per chiarire il motivo della sua decisione, guadagnò l’uscita.

    – Papà lo sai, qui con lei non ci posso stare più di una giornata, se desideri vedermi, mi telefoni e ci vediamo dove vuoi, – aggiunse sull’uscio.

    – Be’ io vado, ciao, – disse, scendendo i primi gradini delle scale dopo il pianerottolo, mentre suo padre rispondeva al saluto dal vano della porta di casa socchiusa, seguendolo con lo sguardo.

    – Ciao, abbi cura di te.

    Con sua madre non c’era mai stato un buon rapporto ma la situazione era peggiorata da quando le aveva comunicato di voler interrompere gli studi universitari e di volere vivere alla giornata.

    Il treno delle diciannove e quindici era in orario. Alessandro salì, sedette vicino al finestrino, come faceva di solito, per vedere il mare, finché i binari della ferrovia seguono, parallelamente, la costa prima di addentrarsi all’interno di quel tratto di territorio.

    La visione del mare gli rendeva meno traumatico il distacco da quello che, fino a un anno prima, era stato il suo mondo.

    Il mare era scuro, perché era già buio e non c’era la luna. In lontananza, si poteva scorgere il bagliore dei fulmini che, a intervalli regolari, scanditi dal fragore dei tuoni, rischiarava la superficie bituminosa dell’acqua, inargentandola di striature brillanti come stelle.

    Seduto, senza quasi accorgersene, si mise a inseguire i propri pensieri. Pensava al padre depresso, stanco e senza più motivazioni, al quale lo legava un sentimento di profondo affetto e gratitudine, perché era sempre disponibile e, con puntuali rimesse di denaro, lo aiutava a sbarcare il lunario, pensava alla propria solitudine, addolcita dai momenti di serenità vissuti con Clara, che avrebbe visto, di lì a poco, una volta tornato a casa.

    Clara frequentava la facoltà di medicina e, nei momenti liberi dallo studio, era sempre con Alessandro del quale l’affascinavano l’intelligenza, la facilità d’eloquio, la bellezza, l’aspetto fine e i modi gentili; lui era attratto dalla bellezza di lei, resa eterea dal colorito chiaro della pelle, dai grandi occhi azzurri, dai capelli fulvi.

    Il treno era in orario. Decise di scendere a una stazione intermedia, valutandola più comoda rispetto alla destinazione finale, perché stava piovendo e non aveva con sé l’ombrello. Con quell’acquazzone si sarebbe infradiciato da capo a piedi se non avesse optato per il sottopassaggio coperto fino alla metropolitana, da lì, cambiando linea, avrebbe proseguito fino alla fermata più vicina a casa.

    Nel frattempo, la pioggia era quasi cessata. Veniva giù una leggera acquerugiola, quasi impercettibile, che non dava fastidio. La pioggerella scendeva così lentamente che il vento sembrava cullarla nell’aria: volteggiava, sospesa come per magia, descrivendo un volo circolare prima di toccare terra, come a prendersi gioco della legge di gravità.

    Rimase colpito dall’insolita visione, interpretò quel segno come un monito per la propria coscienza: come la pioggia era rimasto sospeso in una dimensione inconsistente, inseguendo il sogno di aspirazioni vane e di ideali illusori.

    Per non bagnarsi troppo, percorse a passo veloce il breve tratto di strada per raggiungere la sua abitazione, rasentando i muri dei caseggiati vicini.

    Aprì il portone, prese l’ascensore per salire fino al quinto piano di quel palazzone, nel rione Monti. Entrò in casa. Dal silenzio e dal buio, appena rischiarato dalla luce fredda e metallica che filtrava dai vetri delle porte, percepì che le due ragazze con le quali condivideva l’appartamento non c’erano – anche loro trascorrevano il fine settimana in famiglia e, come spesso accadeva, sarebbero rientrate nel primo pomeriggio del lunedì.

    Spalancò la porta della sua stanza, accese la luce sul comodino e si sdraiò sul letto ancora da rifare. Disteso continuò a inseguire i propri pensieri. Senza accorgersene, si abbandonò a un leggero e dolce dormiveglia, a tratti riuscì perfino a sognare. Sognò i momenti felici e spensierati, le storie fantastiche e le favole che il padre gli raccontava, da bambino, prima di andare a dormire. Si addormentava felice, dopo aver chiesto che la stessa fiaba gli venisse raccontata più volte, sempre nello stesso modo, sera dopo sera. Una gliene piaceva più delle altre e suo padre doveva fare attenzione a ripetergliela con le stesse, identiche parole per evitare le sue immancabili richieste di rettifica. Spesso accadeva che il padre si addormentasse prima di lui, allora, calandosi dal letto, andava in cucina dalla

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