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Memorie di un intruso
Memorie di un intruso
Memorie di un intruso
E-book207 pagine2 ore

Memorie di un intruso

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In questo romanzo autobiografico Gianfranco Fini accende la sua macchina dei ricordi e ci conduce nei suggestivi anni Sessanta e Settanta, tra i grandi artisti romani della Scuola di Piazza del Popolo, i tavolini del bar Rosati, le estati a Tor San Lorenzo, le feste al Piper e le leggendarie gallerie d’arte dell’epoca, raccontati con la lente deformante e il passo obliquo dell’osservatore che non riesce mai a sentirsi completamente parte del disegno generale: l’intruso appunto.

Un intruso che voleva fare il pittore, come i suoi amici di sempre Tano Festa, Mario Schifano e Franco Angeli, ma che poi, freddamente, ha valutato le sue reali capacità e ha deciso di intraprendere una strada meno romantica ma socialmente ed economicamente più sicura, quella dell’architettura, ovvero della musica congelata, come disse una volta Goethe riferendosi alla prima arte. Il nostro intruso, l’architetto che da piccolo voleva fare il pittore ed aveva persino sofferto orgogliosamente la fame a Parigi, getta sulle vicende e gli incontri della sua giovinezza uno sguardo tagliente, ironico e razionale, eppure pieno di umana tenerezza. Muovendosi ai margini degli eventi narrati, riesce a regalarci un’esperienza assolutamente personale, sorprendente e freschissima, piena di aneddoti esilaranti e frammenti vivacissimi di un periodo così formidabile per il nostro paese.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2019
ISBN9788831615921
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    Anteprima del libro

    Memorie di un intruso - Gianfranco Fini

    633/1941.

    RINGRAZIAMENTI

    Pensando a questo libro mi sento di paragonarlo ad un lento viaggio nel tempo, con molte inopportune soste. Un viaggio fatto da me insieme ad un altro me stesso, ventenne all’inizio e via via sempre più vecchio e più saggio. Un viaggio emozionante che mi ha obbligato a frequentare con sistematica assiduità gli evanescenti luoghi della memoria.

    Non è stato sempre facile, e forse non sarei mai arrivato alla fine se non avessi avuto l’aiuto di alcune persone a me vicine.

    Ringrazio l’amica carissima Vittoria Sivo, che mi ha incoraggiato all’inizio e sostenuto nei momenti di sconforto. Il pittore Gianfranco Notargiacomo, per avermi rammentato episodi e luoghi dimenticati di quegli anni, oltre ad aver rintracciato un altro comune amico, il fotografo Marco Glaviano, che ringrazio caldamente per la sua bella foto che compare nella copertina di questo libro. 

    Ringrazio infine mia figlia Francesca per l’editing, le trascrizioni, le correzioni e il tempo prezioso che mi ha sempre generosamente dedicato.

    Gianfranco Fini

    PREMESSA

    Quando viaggiamo in macchina ad alta velocità vediamo davanti a noi una stretta fascia verticale di panorama, praticamente solo la strada che si rimpicciolisce con qualche albero intorno che schizza via veloce. Quando rallentiamo, invece, questo quadro si apre ai lati, e così incominciamo a capire dove siamo e dove stiamo andando.

    Ho iniziato a progettare architetture quando avevo ventuno anni e adesso che ne ho ottanta ancora non ho smesso; ho solo rallentato, e ciò ha generato automaticamente una capacità di visione panoramica della mia vita e un’attenzione maggiore a quello che ho già fatto, a quello che sto facendo, a quello che avrei voluto realizzare e che non ho potuto o saputo portare a termine. Da molto tempo accarezzavo l’idea di fare una specie d’inventario che mi obbligasse a ricostruire il mio passato durante gli anni Sessanta–Settanta e oltre. Così, quasi inavvertitamente e un po’ per gioco, ho iniziato a scrivere alcune note, alcuni episodi, poiché le cose che tornano alla memoria sono immagini tremendamente transitorie, fotogrammi isolati che passano rapidi come in un film e solo la scrittura le può fissare sulla carta. Scrivere, fermare qualche dettaglio di un lontano episodio, una frase ascoltata, un nome o un volto, sono gli elementi di base che lentamente lasciano riemergere intere storie sepolte.

    Queste pagine raccontano una parte singolare e straordinaria della mia vita, trascorsa per molti anni al lato di un gruppo di artisti della mia stessa generazione, che finì per essere definito la Scuola di piazza del Popolo. Loro nel tempo, con il proprio lavoro e la propria arte, modificarono il panorama culturale del nostro Paese. Avevo mosso i primi passi con queste persone quando fare arte aveva per noi una connotazione di gioco e scommessa. In seguito me ne allontanai abbracciando un altro mestiere, rimanendo però sempre vicino a quel mondo, restando amico di tutti loro, frequentandoli con assiduità e a volte persino aiutandoli nelle loro creazioni.

    Avrei forse potuto farne parte? Il caso, o inconsce ragioni non hanno voluto. Indagare ora il perché di quella rinuncia non serve a nulla, ma ripercorrere con queste memorie quel lungo tragitto parzialmente condiviso, addolcisce alcune mie pene.

    Gianfranco Fini

    Parigi e la pittura

    Roma alla fine degli anni Cinquanta sembrava essere diventata una città di vacanze. Le sere d’estate scivolavano via in lunghe chiacchierate nei ristoranti, dove il conto in genere non superava le mille lire a persona. La guerra era un ricordo sfumato e lontano, le nuove generazioni la ignoravano, l’Italia era in piena espansione economica e se ne parlava con un certo tono da esperti economisti usando un americanismo onomatopeico molto in voga all’epoca: boom. L’esplosione, parola non tragica ma festosa, da fuochi d’artificio che a noi sembrava esprimesse al meglio il momento in cui stavamo vivendo.

    Io avevo frequentato con successo e allegria i quattro anni del liceo artistico che a quel tempo era l’unico a Roma e aveva sede in un edificio di via Ripetta. Nelle sue aule dalle grandi vetrate si studiavano materie insolite se confrontate con gli altri due licei dell’epoca, il classico e lo scientifico. In aggiunta i nostri professori erano in gran parte artisti affermati: Renato Guttuso, Franco Gentilini, Marino Mazzacurati, Toti Scialoja, e a insegnarci la storia dell’arte era il poeta Libero de Libero, che era un grande affabulatore, quando si metteva a descrivere un tempio, una statua o un teatro ellenistico, partiva da tutto quello che c’era intorno, inserendo cieli, alberi, strade, artisti, filosofi e guerre, in un calderone estremamente sapido. Con lui ogni cosa era collegata ad avvenimenti anteriori e a sviluppi successivi, in un ampio affresco nel quale tutti noi annegavamo stregati.

    Quel rapporto privilegiato e quotidiano con l’arte mi aveva svelato un mondo inatteso, un vastissimo panorama di possibilità prima impensabili. Così, a differenza dei miei compagni di classe, che non vedevano l’ora di correre a iscriversi alla facoltà di Architettura, pensai che per me sarebbe stato più interessante esplorare altre strade.

    Durante tutto il quadriennio, ma soprattutto nel corso dell’ultimo anno, le mie capacità di raffigurare con una certa qualità i temi che ci venivano proposti aveva raggiunto un livello molto buono; ricevevo complimenti e incoraggiamenti dagli insegnanti e nella scuola si era sparsa la voce tanto che gli allievi dei primi corsi, durante le lunghe ore di figura disegnata o di ornato, venivano spesso a vedermi lavorare. L’idea che quelle piacevoli ore dovessero finire con in mano righelli e compassi non mi piaceva affatto. Insomma, durante tutto l’ultimo anno di liceo mi si era ficcata in testa l’idea di andare a Parigi a fare il pittore. Avevo anche messo insieme un bel po’ di soldi facendo vari lavoretti, dando lezioni di prospettiva e di disegno, e per diversi mesi la sera avevo persino fatto il venditore di gelati in un cinema di Roma. Pensavo che quei soldi sarebbero bastati per parecchio tempo, per il resto confidavo nella sorte. E poi l’idea romantica di patire la fame a Parigi, a me che all’epoca avevo vent’anni, non spaventava per niente.

    Questa partenza preoccupava invece molto mio padre e soprattutto mia madre, che era convinta di perdermi per sempre. Avevamo vissuto insieme fino ad allora, nello stesso modesto appartamento dove ero venuto al mondo con una levatrice (oggi impensabile), al primo piano di un piccolo edificio del centro di Roma, dove d’estate si moriva di caldo e d’inverno, dato che non c’era riscaldamento, si congelava. Certi giorni di febbraio ero costretto a studiare ben chiuso in un pesante cappotto, seduto al grande tavolo del soggiorno, da dove ogni tanto dovevo sloggiare perché era lì che mio padre, sarto, tagliava con pesantissime e grandi forbici larghe falde di tessuto nero o purpurei rotoli di seta cardinalizia che lui chiamava rosso ponsò. Nel tempo si era andato specializzando, non so bene come e perché, nella sartoria ecclesiastica, e non era raro incontrare in giro per casa qualche sacerdote venuto per una prova della sua nuova tonaca.

    Naturalmente né mio padre né mia madre approvavano quel mio progetto, e tentarono in tutti i modi di dissuadermi, ma infine di fronte alla mia determinazione si rassegnarono. Il giorno della mia partenza, nel gennaio del 1958, vollero però accompagnarmi alla stazione e si fermarono per darmi le ultime raccomandazioni, le lettere da scrivere periodicamente, le compagnie da evitare e via discorrendo. Avevo già messo la valigia sulla reticella dello scompartimento ed ero sul predellino, aggrappato al corrimano, mentre loro erano rimasti in piedi sul marciapiede di fronte a me. Un inserviente incominciò a chiudere con forti colpi metallici le ultime porte rimaste ancora aperte. Mia madre continuava a guardarmie sconsolata, e mentre il treno incominciava lentissimamente a muoversi, si protese per un ultimo bacio. Mio padre mi strinse la mano, dove trovai con sorpresa un piccolo involto con i soldi che mi aveva fino ad allora negato. Li guardai dal finestrino, mentre rimpicciolivano sotto l’ombra della pensilina, poi mi sedetti con un tremendo nodo in gola mentre il treno aumentava la sua velocità, sferragliando tra ragnatele di binari e anonimi edifici della periferia romana. Solo allora, osservando quel paesaggio urbano che si dispiegava sotto un cielo plumbeo, tra le ultime case e i radi pini della campagna, mi resi conto che stavo abbandonando tutto quello che era stato fino a quel momento il mio mondo conosciuto, per un futuro assolutamente incerto, nella nuova grande città di un paese straniero di cui conoscevo a malapena la lingua.

    Il mio proposito era di rimanere per un lungo periodo a Parigi, che credevo fosse ancora il centro dei movimenti artistici più importanti, sebbene la migrazione di molti pittori europei in fuga, prima e dopo l’occupazione tedesca del 1940, avesse di fatto spostato il baricentro dell’arte al di là dell’Atlantico. Così, mentre me ne stavo a Parigi inseguendo il sogno di fare l’artista forse per il resto della mia vita, avevo già sbagliato destino e tempi.

    Dopo qualche mese la mia determinazione di seguire quella strada si stava legittimando tra le poche lezioni rubate all’École des Beaux–Arts e qualche rara incursione a La Sorbonne per ascoltare complicate astrazioni filosofico–letterarie, visite ai musei e soprattutto alle tante gallerie di Parigi.

    Facevano parte del rituale anche le lunghe sedute, la sera, ai tavoli del Deux Magots o del Café de Flore, dove convergevano artisti e intellettuali insieme a belle donne e varia umanità. Ricordo che proprio in uno di questi due caffè conobbi Claudio Cintoli, come me giovane pittore romano; mi aveva preceduto da un bel po’e sembrava ben inserito in quel mondo. Grazie a lui entrai quasi subito a far parte di un variegato e cosmopolita gruppo di artisti di varie età: alcuni erano francesi, ma c’era anche uno spagnolo, un lituano o polacco, non ricordo bene, e un giovane algerino tenebroso e irascibile, politicamente schierato contro tutto quello che sapeva di francese. Eravamo eternamente squattrinati e ogni tanto ci s’incontrava in piena notte a Les Halles, che ancora non erano state demolite per far posto al Beaubourg e al grande centro commerciale attuale. Tra le viuzze di quel quartiere arrivavano la notte centinaia di camion con le derrate alimentari che il giorno dopo avrebbero sfamato Parigi, e c’era sempre qualche autocarro da scaricare. Erano pochi soldi, ma sicuri e benvenuti, e io ebbi sempre l’impressione che per quei camionisti, così burberi in apparenza, quelle ore di lavoro pagato in contanti fossero più un modo non offensivo per darci una mano che una loro autentica necessità.

    Verso la metà di febbraio sulla città era sceso un freddo polare, io avevo abbandonato la mia calda stanza con moquette rosso fuoco dove avevo dipinto i miei primi quadri, il piccolo Hotel Bonaparte nella omonima via a pochi passi da Saint–Germain–des–Prés, e mi ero trasferito in un albergo più economico in rue Soufflot, vicino ai giardini del Lussemburgo, dove però il riscaldamento funzionava malissimo. La mia stanza era nel sottotetto, in quel piano a mansarda che nelle case parigine delle epoche passate era destinato alla servitù. Il tetto di ardesia lasciava passare il freddo dell’inverno e s’infuocava durante l’estate.

    Seguitavo a frequentare i luoghi deputati agli incontri e agli scambi, e una sera Claudio Cintoli mi portò con sé a La Cupole, dove incontrammo una coppia di amici suoi borghesi che mi presentò come collezionisti e che per fortuna pagarono il conto. Il posto mi piacque subito per la sua strana caratteristica di agone sociale, di piazza italiana o di teatro d’opera. Da ogni tavolo si aveva una buona visuale d’insieme e dell’entrata, così era un continuo ritrovarsi tra amici e un deambulare da un tavolo all’altro per scambiare ossequi. Le persone che entravano scrutavano in giro con curiosa attenzione, e talvolta facevano cenni a qualcuno lontano, come a dire: «Ah, ci sei anche tu, poi passo a salutarti!».

    Intanto continuavo a incontrare gente, e feci temporanee amicizie con pittori di cui non ricordo più il nome. Naturalmente frequentavo spesso Claudio, di cui ero diventato buon amico. Con lui feci quell’anno lunghe camminate o brevi tragitti in metrò per presenziare alle inaugurazioni di mostre dove era possibile conoscere altri artisti, critici d’arte e, secondo lui, anche potenziali collezionisti. Una sera mi portò in una galleria di cui avevo già letto le vicende: fu aperta nel 1940 da un architetto e artista, René Drouin insieme a un visionario che divenne poi un grande gallerista, Leo Castelli. Nei locali di quella galleria, nel 1944, si fece una primissima mostra collettiva di arte concreta e, persino durante l’occupazione nazista, una di Jean Dubuffet.

    Comunque in quegli anni la galleria di cui si parlava molto, e la più importante per l’attività che svolgeva, non era quella di René Drouin ma la Galerie de France, diretta da Gildo Caputo, un francese di origine italiana che non ebbi la fortuna di conoscere personalmente.

    In quella galleria, che si trovava in Faubourg Saint–Honoré, furono ospitate durante l’anno della mia permanenza a Parigi molte mostre interessanti. Non le ricordo tutte, ma ho ancora presente la mostra elegantissima di Gustave Singier e poi quella di Hans Hartung, che condizionò per qualche tempo la mia idea di pittura.

    Altra galleria interessante del momento era la Iris Clert, gestita dalla proprietaria da cui aveva preso il nome, donna curiosa e volitiva che amava stupire organizzando mostre insolite e stravaganti. Nel locale, costituito da un’unica stanza con vetrine su rue des Beaux–Arts e sul retro, organizzò nell’aprile del 1958 una mostra che aveva scatenato un putiferio di critiche e un tripudio di encomi, con file interminabili di curiosi che gremivano il marciapiedi. Era l’esposizione di Yves Klein Le vide (il vuoto), presentata da Pierre Restany. La stanza–galleria era stata lasciata completamente vuota: il soffitto, il pavimento e tutte le pareti interne erano state ridipinte di bianco. Naturalmente non c’erano quadri esposti, e si entrava solo a piccoli gruppi e per pochissimo tempo. Era uno spazio che disorientava, con il suo intenso biancore. Era soprattutto una provocazione, ma indicativa dell’interessante percorso artistico successivo di Klein.

    Passavano i giorni, e io tra una mostra e l’altra, tra un bicchiere di vino al Flore e una chiacchierata con qualche nuovo amico, continuavo a combattere con la mia condizione di espatriato, con i soldi che se ne andavano e le idee che non arrivavano. Le varie mostre che vedevo mi mandavano spesso in confusione. Dipingevo in albergo, in uno spazio ristretto e su piccole tele: quello che producevo non mi entusiasmava per niente ed ero più occupato a distruggere tele già dipinte che a crearne di nuove.

    A volte non vedevo nessuno per giorni. La solitudine non mi pesava, anzi limitare le relazioni

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