Te ne rammenti come eravamo?: Si giocava per le strade – Si scriveva con la penna
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Ci narra com'era la gente di una volta, quali erano le usanze, le bevande, i cibi e i passatempi, le feste durante l'anno, i giochi dei ragazzi, la natura e l'amore. Ci racconta degli sviluppi e dei cambiamenti da lei vissuti nelle piccole come nelle grandi cose, del mondo dei nonni di un tempo, descrivendo gli strani effetti dell'avanzare tecnologico e del primo bacio, dell'emancipazione della donna e del passaggio dalla lira all'euro.
L'autrice regala agli anziani un mondo di ricordi, mentre apre alla gioventù un modo per rivivere la storia. Le illustrazioni, come in tutti i suoi libri, sono un contributo di suo figlio Cesare Serni, scomparso di colpo dopo verle completate.
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Anteprima del libro
Te ne rammenti come eravamo? - Miriam Serni Casalini
Cintoia • Greve • Chianti
8
Collana diretta da
GIOVANNI WEIDINGER
MIRIAM SERNI CASALINI
TE NE RAMMENTI
COME ERAVAMO ?
SI GIOCAVA PER LE STRADE –
SI SCRIVEVA CON LA PENNA
Copertina e tavole di
CESARE SERNI
MIRIAM SERNI CASALINI:
Te ne rammenti come eravamo ?
Si giocava per le strade – Si scriveva con la penna
Vienna: HOLLITZER VERLAG, 2022
(= Cintoia • Greve • Chianti 8)
Lettorato: DAVID MERLIN (Vienna), STEFANO CAVALLERIN (Perugia)
Redazione: KUNO TRIENTBACHER (Vienna)
Impaginazione e design copertina: GABRIEL FISCHER (Vienna)
Acuarello copertina e illustrazioni interne: CESARE SERNI (Panzano in Chianti)
Prodotto nell’UE
© HOLLITZER VERLAG, Wien 2022
Tutti i diritti riservati.
HOLLITZER VERLAG
della
HOLLITZER BAUSTOFFWERKE GRAZ GMBH
ISBN edizione stampa 978-3-99012-965-4
ISBN epub 978-3-99012-966-1
www.hollitzer.at
PROLOGO
Per introdurre questa mia ultima ‘creatura’ mi ripeterò? Sicuramente!
È proprio un’abitudine degli anziani andare e riandare sui soliti argomenti fino a stufare chi ascolta, e io, novantenne, non faccio eccezione. Ma nonna, questo me l’hai già raccontata, uffa che barba!
E poi come si sa non sono una scrittrice ma solo una raccontastorie, storie che amo incartare nella cultura toscana dove mi sono formata, tra la mia gente.
Dice Jacques Loew, ’un vecchio che muore è una biblioteca che brucia’. Prima che la mia biblioteca bruci, in tutti i miei scritti mi è piaciuto salvare costumi, tradizioni, saggezza popolare che abbiamo avuto in retaggio e che vanno scomparendo. Non sono un vigile del fuoco, cerco solo di salvare frammenti di tempo che non sono da buttare alle ortiche.
Il nostro passato si salva in tanti modi, c’è la pittura, la poesia, la musica, la scrittura, canzoni, usanze, proverbi, ci sono questi miei ‘pezzetti di vita’.
Gli anziani ancora una volta ci si ritroveranno, i giovani…chissà, a qualcuno potranno sembrare barzellette.
Questa non è Accademia, ma Memoria espressa in maniera semplice e spero gustosa.
La stessa semplicità di espressione usata da mio figlio Cesare Serni con la sua matita per dare colore e calore a queste pagine.
Il mio primo libro di questa collana, Dal tetto al pagliaio, lo dedicai così:
"A tutti coloro che amano questa terra e le sue tradizioni,
siano essi Chiantigiani per antica stirpe,
per recente adozione,
immigrati in atto e futuri…
oppure turisti di passaggio."
Anche qui mi ripeto. Stessa dedica!
Miriam
AUTORITRATTO
Mi chiamo Miriam. Sono nata a Firenze nel 1928. Novantaquattro anni fa.
Si respirava ancora aria dell’Ottocento, ma ci si apriva alla modernità, e io in queste due epoche mi sono formata: ‘da bosco e da riviera’, come si suol dire.
Avrei voluto fare la maestra, invece, giovanissima, appena passata la guerra, mi sposai e andai contr’acqua, dalla città alla campagna, a San Polo in Chianti, paese d’origine dei miei nonni materni.
Sono stata moglie, nuora, madre, suocera, nonna, con tutto ciò che questo comporta.
Ho amato la natura, la mia gente, l’arte, la storia, la mitologia, la letteratura. I libri!
Con i miei amici scrittori ho viaggiato nel tempo, nei sentimenti, nello spazio, nella fantasia. Quando, ormai in là con gli anni, incoraggiata da mie amiche insegnanti, ho cercato di imitarli, mi sono accorta di non essere né una scrittrice né una poetessa, solo una ’raccontastorie’.
E questo faccio e continuo a fare anche a Panzano, dove ci siamo trasferiti all’inizio del terzo millennio. Filastrocche, poesie, ninne nanne, storie per i piccoli; amo celebrare con la memoria pezzetti di esistenze ormai lontane, la vita agra amara dolente dolce dolcissima, con i suoi giorni vestiti sempre in maniera diversa, dei quali mi piace ricordare solo la positività.
Con i miei scritti ho sempre dato un contributo attivo a ogni manifestazione paesana, parrocchia, associazioni, feste e mostre.
Ho partecipato a concorsi di prosa e poesia ricevendo premi, attestati, soddisfazioni. Ho collaborato a mensili e settimanali, ho pubblicato alcuni libri: La triste storia della Mucca pazza (Panzano in Chianti: Macelleria Cecchini, 2001 – pubblicazione privata), Cuore di luce (Firenze: Pagnini Editore, 2005), Il Buglione (Firenze: Edizioni Polistampa, 2009), Dal tetto al pagliaio ¹ (Firenze: Edizioni Polistampa-Sarnus, 2011), La noce a tre canti ² (Firenze: Edizioni Polistampa / Vienna: Hollitzer, 2012).
Con Il Buglione ho vinto il premio speciale della Regione Toscana quale ‘Scrittore Toscano dell’Anno 2010’. Per la memoria storica chiantigiana, il Comune di Greve mi ha onorato del titolo di Cittadina Emerita
.
Da oltre 29 anni faccio parte della giuria popolare del Premio Letterario Chianti, credo di essere la più anziana lettrice, sicuramente per frequentazione attiva.
Sembra tanta roba, invece sono solo bricciche, ma mi accontento.
Dal 1999 l’amico Giovanni Weidinger, viennese, storico della cultura e imprenditore che dal 1980 vive al Castello di Sezzate – al suo gruppo aziendale appartiene la casa editrice HOLLITZER, nella quale è uscito questo mio libro – mi ha sempre sollecitato di raccogliere i miei scritti e di pubblicarli presso la sua casa editrice, certamente un grande onore per me, vedere uscire le mie pubblicazioni anche oltre il confine italiano.
Fin dal 2016/17/18, tengo una rubrica, Come eravamo
, sul settimanale locale Chiantisette, su invito dell’amico Alessandro Rossi, allora direttore, che mi disse: SuperMiriam
(così gli piace chiamarmi), raccontaci qualcosa del passato, di come eravate, magari i giochi, le paure, le punizioni…
. Invitava la lepre a correre. Certo che lo so, come eravamo.
Finché tempo mi sarà dato, vorrei riunire quanto ho scritto per quella mia rubrica.
Ecco qua. Buona lettura!
SOMMARIO
COSE DI UNA VOLTA
Cose… del tempo che fu
Nomi di battesimo
Misurare il tempo senza orologi
Diari e riassunti
Storie e cantastorie
Le canzonette
A letto con il prete
Tubi di decenza
Quando il bidet si chiamava semicupio
Pudore e ipocrisia
Vestiti
Cappelli
Il vecchio medico condotto
Medicina alternativa
Le Misericordie
COSE DA MANGIARE E BERE
La panzanella
Carestia e hamburger di… insetti
Il ‘ber fresco’: sorbetti e gelati
Frutti dell’autunno
È d’obbligo parlar di vino
Gallo nero
Il Chianti in caccia
Una tazzina di caffè
Piatti da re
Divagando di trippe fiorentine
COME ERA L’ANNO
Calendari
La Befana cioè l’Epifania
I giorni della merla
Maschere di febbraio
Ragnatele, scope e… mastrolindo
La Santa Pasqua
Resurrezione
Calendimaggio
Fine maggio inizio giugno
San Giovanni fiorentino
Il sole più lungo
Sotto l’ombrellone… un libro giallo
Acqua dolce… acqua amara
Ferragosto
Stagion de’ fichi
Vendemmia
Austerity. Lo sfarzo in crisi
Piccole pesti. Ovvero: Punir per educare è amare
Arriva il Santo Natale
Verso la luce
Al suon delle campane
Conseguenze di un censimento
Pranzo di Natale
Eccoci a Ceppo
COSE DELL’INFANZIA
Scrivere con la penna
Libri e giochi
Giochi di ragazzi
Le paure dei bambini
Fantasmi
Superstizioni
Bulli e bullismo
Distruggete la bambola
COSE DI CASA E PAESE
Orti in città
La conca d’oro
Festa della stagion bona
a Panzano
I nostri boschi
Piante non solo da frutto
Orto, altra madia del contadino
Come il Boccaccio
Bachi. Parla il gelso (da noi chiamato ‘moro’)
COSE D’AMORE
Amori d’una volta
Il primo bacio
Spose di guerra
Piramo e Tisbe
A Filippo e Alessio
Pegaso
COSE DI PASSATEMPO
Segnali di fumo
Tressette e sigaro toscano
Telefonini… che passione!
Selfiemania
E D’ALTRE COSE ANCORA
Vivan le donne
Maria mater gratiae
Lo sciopero della mortadella
Dalla liretta vecchia cara all’euro
Gli ultimi Vespucci
Il valore di un luogo – La Sala d’Armi del Castello
Visite, Visitazioni, Storie
Ave Maria
COSE RIMATE
L’ Accademia de’ Volgari
Coronavirus
Dantesca
Un vecchio amico
Armonie
Desiderio
La quercia
Attesa
Speranza
Tramonto
E Dopo ?
I LIBRI DI MIRIAM SERNI CASALINI
La triste storia della Mucca pazza.
Vissuta con amaro-ironica allegria nell’Antica Macelleria di Dario Cecchini a Panzano in Chianti
Cuore di luce.
Il Buglione.
Ricordi, proverbi, racconti, versi e mangiari del focolare toscano
Dal tetto al pagliaio.
Bricciche del vecchio Chianti
La noce a tre canti.
Strade di città, viottole di campagna
Te ne rammenti come eravamo ?
Si giocava per la strada – Si scriveva con la penna
COSE
DI UNA VOLTA
COSE… DEL TEMPO CHE FU
Ormai i lettori sanno che vado per ricordi. Mi basta un verso, un motivo musicale, una notizia giornalistica a suscitar memorie.
Non sono né una poetessa né una scrittrice, racconto ‘storie’.
Guardo la televisione, la copiosa pubblicità ai prodotti che rendono i capelli femminili vaporosi ed ondeggianti come cascate di seta; essi mi ricordano donne che li lavavano con sapone di Marsiglia o magari con ranno di cenere. Ranno di cenere, lo stesso usato dalle gentildonne fiorentine del Rinascimento che, complici i pittori come il Botticelli con le loro Primavere, Veneri e Madonne, avevano portato in auge la moda del ‘biondo’. Siccome nelle donne fiorentine prevale il castano, per imbiondirsi le dame avevano inventato le ‘solane’: cappelli di paglia dalle larghe tese ai quali veniva tolto il cocuzzolo; dal buco, stesi sulla tesa, i capelli bagnati con ranno di cenere, costoro si mettevano sedute sulle altane sotto l’azione del sole, ripetendo più volte la bagnatura. Imbiondivano? Pare che qualche riflesso ossigenante lo ottenessero, visto che la faccenda era largamente praticata.
Le donne di un tempo non necessitavano di parrucchiere, infatti nel mio paese fin verso gli anni ’60 non ce n’erano. Per i lunghi capelli acconciati a treccia, a crocchia, a cercine, non servivano. Al bisogno forbici, anche ai ragazzini tagli fatti in casa, magari con una pentola in testa, per seguire la giusta scalatura! Per qualche arricciatura vanesia ferri scaldati al fuoco. C’erano invece tre saloni per uomo, aperti solo un paio di sere a settimana. Pareggiare baffi e favoriti, radere barbe e tagliare capelli era necessario. C’era un detto al maschile: lungo capello, corto cervello
.
Il compito spettava ai tre ‘barbitonsori’ che praticavano la bisogna a tempo avanzato. Quegli improvvisati ‘figaro’ erano braccianti o boscaioli, alla faccia della mano leggera! La moda dei capelloni arrivò dopo, e fecero scalpore i Beatles.
In città, udite, udite. La prima permanente di mia madre: capelli arrotolati su bigodini collegati tra loro da tubicini di gomma dove passava il vapore acqueo che avrebbe confermato l’arricciatura ‘permanente’, appunto. Poi, via i tubicini, fu la volta di certe pinze calde, pesantissime, le teste sormontate da un enorme elmo guerriero! Viva gli attuali prodotti chimici, per arricciare e per lisciare, perché ora vanno di moda gli ‘spaghetti’. Diceva mia nonna: Chi bello vuole apparire, un po’ deve soffrire
.
Altra pubblicità TV che suscita ricordi: quella del prodotto che allevia i bruciori di stomaco, pompieri che con idranti gettano una sostanza bianca risanante.
La nonna Ida, che non era la mia nonna, ma che tutti chiamavano così, era una bella vecchia saggia esperta di medicamenti empirici. Ho parlato di lei e dei suoi rimedi in altri miei libri. Il suo medicamento per i bruciori di stomaco consisteva in una chiara d’uovo, sbattuta fermissima, una spuma dura da sorbire a cucchiaiate. Diceva: Portate pazienza, è sciapita e sa di sciliato (come saliva), ma fa come una calcina alle pareti dello stomaco, rinfresca, e dopo due o tre volte vi sentirete riavere.
Oh non somiglia a quel getto della pubblicità?
Come ho già detto, la cultura contadina è ricca di medicamenti ricavati da piante, foglie, radici, erbe, terre e cere. In ogni paese c’erano donne guaritrici, rari gli uomini, che conoscevano e somministravano questi lenti ma efficaci rimedi. Donne spesso capaci di ‘segnare’ orzaioli, resipole, ragadi, e massimamente i bachi nel pancino dei bambini, i fastidiosi ‘ossiuri’. Le segnature erano sempre accompagnate da devozioni in rima, a Gesù, Giuseppe, Maria e al santo specifico.
Ma questo è argomento vasto di cui abbiamo già trattato più sopra.
Stornelli, ma fuori tema
Sotto la mia finestra c’è la menta,
vieni morino a sentì l’odore.
Se t’ho lasciato t’ha d’aver pazienza,
unnò più voglia di fare all’amore.
Quando ti presi, amor, gl’era di notte
le tue bellezze non le vidi tutte,
vidi le cose belle e non le brutte,
’un vidi che t’avei le gambe torte.
NOMI DI BATTESIMO
Leggo sempre con piacere e divertimento la rubrica di Stefano Cecchi, Buongiorno Nazione
, sul mio quotidiano fiorentino. Mi ritrovo nei suoi commenti e li condivido. Anche lui non più ‘dell’erba d’oggi’, ma assai più giovane di me, si esprime con saggezza e arguzia, talvolta mi fornisce anche argomenti per la mia rubrichetta settimanale.
La scorsa settimana riferiva di una notizia da Mosca. La Duma russa sta studiando una legge per vietare ai genitori russi di imporre nomi strani ai propri figli. Divertentissimo. Sarebbe un sollievo evitare che una bimba si porti dietro per una vita il nome di Skiler Eva (Canalis), un bimbo, Nathan Falco (Briatore), Oceano (Elkan), o altri nomi ‘bischeri’, come il Cecchi già li definiva in altri articoli di anni fa.
È passata l’epoca delle Samantha, delle Deborah, delle Suellen, dei Jeiar e degli Yuri. Sono tornati di moda i bei nomi antichi: Giulia, Carolina, Caterina, Emma, Ginevra, Veronica, Giacomo, Riccardo, Giovanni.
Quando nelle famiglie di un tempo nascevano tanti figli, mancava la fantasia. I bambini erano spesso battezzati col nome del santo del giorno e disgrazia se toccava a Cunegonda o a Frumezio. Spesso se la cavavano con i numeri. Ho una mia vecchia poesia in tema:
Scorza di quercia
Scorza di quercia le mani.
Misuravan la vita con gli eventi,
numeravano i figli al Sacro Fonte.
‘Fu quell’anno che la grandine mitragliò la vigna’.
‘Quel gruppo infame ci portò via Primetta’.
‘Si mieteva quando nacque Ottavio
e Terzo era partito per il fronte’.
In un bicchier di vino, poppa de’ vecchi
s’intingono i ricordi.
Mio nonno aveva inspiegabilmente due nomi, Ottavio all’anagrafe, Silvio al Fonte, mentre il nonno di mia nuora si chiamava Armando, così come un suo fratello! Dimenticanza? Contavano le braccia mica i nomi.
Al tempo degli infelici neonati lasciati nella ‘ruota’ degli innocenti, molto spesso il cognome restava Innocenti, Degl’Innocenti, Esposti, Degli Esposti, che da secoli sono normalissimi cognomi ricorrenti e non richiamano certo alla mente la ruota, ma capitava anche che qualche incaricato all’anagrafe appioppasse loro nomi e cognomi dispregiativi. Di questi sprezzanti impiegati a pagamento ne parla a più riprese anche Andrea Camilleri. Bella carità cristiana!
C’erano nomi mal sopportati, in particolare dalle ragazze, dati in memoria di parenti defunti, o nomi dati in onore della Madonna, come Maria Annunziata, Maria Carmela, Maria Assunta, che diventavano Nonzia, Carmelina, Assunta, Ciata, e via discorrendo.
Io sono sempre stata contenta del mio nome, anche se spesso alterato. Il nonno e la nonna mi chiamavano Miriana, figurarsi se un fiorentino termina con un finale in emme. La mia maestra delle elementari invece abbondava, per lei ero Miriamme, per i più Miria. E la scampai bella; mia madre, dopo aver letto un libro rosa, voleva chiamarmi Magalì, come l’eroina francese del romanzo. Fu merito del frate cappuccino che in Maternità passava subito a battezzare i neonati, se non fui chiamata così. Costui, indignato da Magalì, affermò perentorio che manco a un cane si mette questo nome
. La mamma, lì per lì mortificata, raccontava poi divertita che intervenne un medico a suggerirle il nome, e che fu preso a sfottò dai colleghi per presunti trascorsi amori orientali.
Gian Luigi Beccaria ha scritto anni fa un ponderoso libro édito da Einaudi, I nomi del mondo, lo acquistai subito, ma in quel saggio mi ci persi. Lo riprenderò in mano.
Non mi perdo invece nei nomi fiorentini del ’300. Belli nella definizione originale, ancor di più in certe forme ridotte del parlar toscano. Dante, che deriva da Durante, Lapo da Jacopo cioè Giacomo, Vieri da Oliviero, Neri da Ranieri, Corso da Bonaccorso, Duccio da Ubaldo- Balduccio, e così avanti a iosa. Per le bambine, Tessa deriva da Contessa dato in onore di Matilde di Toscana, Bella da Gabriella, Lapa da Giacoma, Tea da Dorotea e via dicendo. Di troncamenti, elisioni, peggiorativi, che poi diventano soprannomi, mi sono divertita a farne un elenco lunghissimo. Ecco, ora, i bei nomi degli amici di Dante, Piccarda, Forese, Corso, Folco, della madre Gemma, di Beatrice che dà beatitudine e Lucia portatrice di luce, le due donne che accompagnano il poeta nel viaggio verso l’Empireo.
Interessante la ricerca dell’origine che spesso m’intriga: longobarda, latina, greca, orientale, non sempre facile. Un esempio. Sappiamo che la madre di san Francesco, Monna Pica, era francese. Il ricco mercante assisano Pietro Bernardone commerciava in Francia con le sue stoffe. Anche quando nacque, il figlio era colà, il bambino fu battezzato Giovanni, ma al rientro il padre volle chiamarlo Francesco, in onore della terra di Francia che gli aveva dato la moglie e contribuito alla ricchezza.
Monna sta per madonna, ossia signora, ma Pica? Non ho riscontri, ma mi piace pensare un diminutivo di Piccarda, da Piccardia, sua terra di Francia. Forse sbaglio. Qualcuno lo sa?
MISURARE IL TEMPO SENZA OROLOGI
Il tema per il consueto ‘pezzetto’ me lo suggerisce anche oggi una notizia giornalistica.
Pare che la crisi si faccia sentire anche in Svizzera, la patria degli orologi. Gran calo di vendite. La causa? Non abbiamo più bisogno di consultare spesso gli orologi per sapere l’ora. Ce la fornisce esatta la tecnologia moderna che abbiamo sempre tra le mani: telefonini, iphone, ipad, tablet, smartphone e così via, la leggiamo sul computer, alla TV. Degli orologi si fa minore uso, quindi minor consumo, minor necessità di cambiarli o di acquistarne di nuovi. Così è.
Invece, ai tempi della mia giovinezza, il regalo più ambito in occasione della prima comunione, o per una promozione scolastica, era proprio l’orologino. Che sciccheria averlo e mostrarlo al polso! Al ferroviere che dopo anni di devoto servizio andava in pensione, la direzione faceva omaggio di un bel cipollone
d’argento, o argentone, con inciso FS (Ferrovie dello Stato), e relativa catena da esibire con orgoglio sul panciotto. Pure con un bell’orologio era premiato il fedele impiegato o il dirigente d’azienda. Un oggetto utile e di prestigio.
Per sapere l’ora della scuola, del lavoro o di un qualsiasi impegno, nelle case bastava una sveglia, che di solito campeggiava sul cassettone della nonna. Solo nelle case borghesi una pendola scandiva il tempo con il suo tic-tac.
Per l’uomo antico, invece, non valeva il concetto di tempo, se non quello connesso al sole,