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Meraki: Il talento di vivere
Meraki: Il talento di vivere
Meraki: Il talento di vivere
E-book153 pagine2 ore

Meraki: Il talento di vivere

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Info su questo ebook

Meraki è una parola greca di quelle intraducibili, come ce ne sono in quasi tutte le lingue, che significa fare qualcosa, una grande impresa o un piccolo gesto quotidiano, con tutto il cuore.
Francesca Romana de’ Angelis sceglie qui Meraki come titolo perché è una parola di cui è facile innamorarsi, perché è in quella idea di civiltà l’inizio della nostra storia, perché in appena sei lettere racconta passione, impegno, generosità, slancio, dedizione. Tutti sentimenti che, illuminati dalla ragione, appartengono ai protagonisti di questi dodici incontri.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2021
ISBN9788838251009
Meraki: Il talento di vivere

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    Anteprima del libro

    Meraki - Francesca Romana De’ Angelis

    FRANCESCA ROMANA DE’ ANGELIS

    MERAKI

    Il talento di vivere 12 incontri

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Universale 2612-2812

    ISBN 978-88-382-5100-9

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838251009

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    ELENA GIANINI BELOTTI

    GIULIA MAFAI

    VALERIA DELLA VALLE

    ROBERTO RICCARDI

    ALESSANDRO PAGLIARA

    NOEMI DI SEGNI

    NICOLA PIOVANI

    NICOLA LONGO

    ANDREA DE PASQUALE

    LAMBERTO MAFFEI

    CLAUDIO RINALDI

    STEFANO COSTANTINO

    «La luce illumina quelle persone…che talvolta abbiamo l’immeritata felicità di incontrare e che ci rivelano…la verità, la grazia e l’incanto dell’esistenza».

    ( Claudio Magris, Itaca e oltre )

    INTRODUZIONE

    Meraki è una parola greca che significa fare qualcosa, una grande impresa o un piccolo gesto quotidiano, con tutto il cuore. Tradurre non è solo offrire la possibilità di leggere in una lingua amica quello che altrimenti rimarrebbe sconosciuto, è molto di più: un atto di condivisione, l’avvio di un dialogo, un’idea di vita e di mondo. Meraki è una parola di quelle intraducibili, come ce ne sono in quasi tutte le lingue. La loro intraducibilità non è egoistico e altezzoso ritrarsi, rifiutando di indossare un’altra veste, è piuttosto proteggere suono e significato come si farebbe con una gemma preziosa.

    Viviamo in tempi di sovrabbondanti anglicismi e accogliere come titolo una parola straniera può sembrare una stravaganza o un cedimento alla moda. Non è così. Ho scelto Meraki perché è una parola di cui sono innamorata, perché è quella civiltà l’inizio della nostra storia, perché «quasi tutto quello che gli uomini hanno detto di meglio è stato detto in greco» come scriveva Marguerite Yourcenar, perché come cittadina europea ancora piango i dolori che l’Europa non risparmiò al popolo greco. E infine perché in appena sei lettere Meraki racconta passione, impegno, generosità, slancio, dedizione, tutti sentimenti che illuminati dalla ragione sono protagonisti di queste pagine.

    14 giugno 2017. Quel giorno alla Sapienza si teneva la lezione di congedo di Luca Serianni. Un’aula colma di persone, moltissimi in piedi. Amici, colleghi e tanti allievi, più generazioni raccolte insieme. Congedo sembra una parola triste, ma quel giorno non lo era affatto. Forse perché gli allievi presenti, quelli che lo erano stati un tempo lontano e i giovani ancora studenti, quasi per magia sembravano una cosa sola. Da loro veniva un’aria buona di giovinezza, la stagione dei sogni quando tutto sembra possibile, anche credere che gli anni non volano. Un giorno di festa, quel giorno.

    Chi ha avuto la fortuna di esser lì ha ascoltato una lezione bellissima sull’insegnamento dell’italiano, con un esordio e una conclusione che non si dimenticano. Dal ricordo commosso dei maestri che gli avevano indicato la strada, alla riflessione sul suo ruolo di docente con il richiamo all’articolo 54 della nostra Costituzione: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». In quarant’anni di insegnamento Luca Serianni, nel pieno rispetto del dettato costituzionale, ha certamente svolto il suo servizio «con disciplina e onore», ma anche con infinita passione. Ha offerto un altissimo magistero, riconosciuto e valorizzato talenti, indicato itinerari di studio nel rispetto delle inclinazioni individuali e soprattutto ha sempre accompagnato i suoi studenti con fiducia e speranza convinto che «Chi sceglie di fare l’insegnante non può permettersi il lusso di essere pessimista, perché ogni allievo è una risorsa preziosa».

    Quando Luca quel giorno finì di parlare e la sala risuonò di interminabili applausi che valevano abbracci, nacque l’idea di questo libro. Trattenere in qualche modo quella umana ricchezza di vita e di pensiero, offrire una testimonianza, in tempi di tanto egoistico ritrarsi, dando voce a protagonisti diversi per formazione, scelte, interessi, esperienze, ma legati dal sentimento forte di un impegno appassionato. A Luca Serianni va il mio grazie di cuore, senza di lui questo libro non ci sarebbe.

    Meraki è stato una meravigliosa avventura. Gli incontri si sono rivelati davvero tali, gli intervistati si sono fidati e affidati, la conoscenza è cresciuta insieme alla confidenza e al comune ragionare. Ringrazio tutti per la generosità con cui mi hanno raccontato la loro vita, per i ricordi i pensieri e i sentimenti che hanno voluto condividere, per le emozioni che le loro storie mi hanno dato, per le parole che ho raccolto e che custodisco come un dono.

    Francesca Romana de’ Angelis

    Le interviste sono state pubblicate ne «L’Osservatore Romano». Ringrazio il Direttore Andrea Monda per averle accolte e Giulia Galeotti, Responsabile delle pagine culturali, per aver seguito con tanta sollecitudine la loro pubblicazione.

    ELENA GIANINI BELOTTI

    LA DONNA CHE HA DATO VOCE A CHI NON L’AVEVA

    Elena Gianini Belotti è nata a Roma nel 1929. Diplomata alla Scuola Assistenti dell’Infanzia Montessori ha diretto per vent’anni, dal 1960 al 1980, il Centro Nascita Montessori, il primo in Italia, che prevedeva, nel rispetto della mamma e del bambino che doveva venire alla luce, corsi di preparazione al parto e cura del neonato. Dall’osservazione dello sviluppo infantile e dei condizionamenti sociali e culturali a cui erano sottoposti i bambini nei primissimi anni di vita nacque nel 1973 il saggio Dalle parte delle bambine, un testo destinato a segnare un’intera generazione di donne, un successo editoriale durevole e internazionale con oltre 50 ristampe e traduzioni in 15 lingue. Dopo il felicissimo esordio seguono altri saggi e numerose opere di narrativa tra cui : Prima le donne e i bambini (1980), Non di sola madre (1983), Il fiore dell’ibisco (1985), Adagio un poco mosso (1993), Pimpì Oselì (1995), Apri le porte all’alba (1999), Voli (2001), Pane amaro (2006), Cortocircuito (2008), Onda lunga (2013). Ha inoltre collaborato a quotidiani e periodici e scritto articoli di carattere pedagogico per riviste specializzate. Attualmente vive tra Roma e la campagna senese.

    Alta, snella, un lampo di chiarore negli occhi, una capigliatura folta e bianchissima, una voce ancora ferma e l’andatura di chi della giovinezza ha mantenuto il passo lungo e sicuro. In viso un’espressione accigliata che quando cede lascia il posto a una risata di gusto; qualche asprezza esibita, il suo modo di ribadire che il tempo non l’ha cambiata e che il mondo, oggi come allora, così com’è non le piace. Incontro Elena Gianini Belotti nella sua bella casa romana circondata da una grande terrazza che affaccia sul verde di Villa Glori. Le interviste non le piacciono – lo ribadirà più volte nel corso della nostra conversazione – perché, spiega, tutto quello che aveva da dire l’ha detto nei suoi libri. Per legame di affetto non mi ha detto di no, ma pone qualche condizione iniziale – poche domande e solo quelle condivise – che poi dimentica quando parlando si lascia andare e la memoria diventa racconto.

    Il primo ricordo della tua vita?

    La fisarmonica. Bellissima, color dell’argento, impreziosita da decori in madreperla e da trafori che sembravano merletti.

    Uno strumento nostalgico, amaramente umano, che fa stringere il cuore, così lo definiva Gabriel Garcí a Má rquez. Lo è anche per te?

    No, è esattamente il contrario, un suono di allegria, forse perché la fisarmonica per me è mio padre, la persona che più ho amato al mondo. Suonava in modo mirabile e la sua era una musica felice, anche se ha avuto una vita durissima. La fisarmonica lo portava lontano, in terre benevole dove nella sua vita, lunga quasi un secolo, non è mai vissuto.

    Parlami di lui.

    Un uomo mite, gentile, di tanti talenti e di poca fortuna. La sua famiglia di origine bergamasca si era trasferita alle porte di Roma, in seguito alla distribuzione che il regime fascista fece di terre incolte. A 13 anni emigrò in Svizzera, a 16 in America con il padre e i fratelli. Sul piroscafo un compaesano gli regalò la fisarmonica. Imparò da solo a suonare e quello strumento divenne il suo tesoro, la sua ricchezza, anche la sua piccola libertà. In quel mondo di soprusi, di sfruttamento e di disperazione che lo portò a tentare due volte il suicidio, grazie alla musica si inventò una nuova vita. Smise di costruire ferrovie e si guadagnò da vivere suonando alle feste di nozze degli italiani.

    E tua madre?

    Di lei ricordo soprattutto le sberle ricevute, un colpo rapido e secco che lasciava una chiazza rossa sulla guancia. A mio fratello Guido andava anche peggio: per lui oltre le sberle anche frustate sulle gambe. Era una donna severa, intransigente, durissima. Avevo tredici anni quando - lei piccola e minuta io già molto alta perché avevo ripreso da mio padre – le fermai il braccio con la mano e le dissi: «da oggi non mi picchi più». E lei da quel giorno smise di picchiarmi.

    Quando mio padre si ammalò, un’allergia alla calce che per lui muratore significò perdere il lavoro, toccò a mia madre provvedere alla famiglia. Una legge fascista imponeva alle maestre di insegnare là dove si erano diplomate e lei fu costretta a partire per Selvino in provincia di Bergamo. Il primo anno io e mio fratello restammo a Roma con mio padre che si occupò di noi e della casa. Fu un anno di grande serenità. Mia madre lo accusava di essere debole e di non saperci imporre la disciplina. Noi invece lo amavano proprio per come era: un padre non espansivo, ma a modo suo affettuoso, sollecito e capace di grande tenerezza. Un padre che non ha mai alzato le mani su di noi. Ci amava, come amava la fisarmonica, la bicicletta e come avrebbe amato un cagnoletto che per anni gli fu compagno inseparabile. Il secondo anno seguimmo nostra madre a Selvino perché anche per noi era arrivato il tempo della scuola. Ricordo il senso di smarrimento in quell’interminabile viaggio in treno e ancora di più sulla corriera che si inerpicava per una strada in salita tutta curve. Avevamo lasciato Roma per un paese che ricordo freddo, inospitale e sempre bianco di neve. Ma forse fu l’infelicità di quegli anni a farmelo ricordare così.

    Due persone tanto diverse i tuoi genitori. Che matrimonio fu il loro?

    Fu un matrimonio scelto e non imposto, questo sì, ma non credo sia mai stata un’unione felice. Si erano conosciuti a Roma nel 1925 poi lei, venuta pellegrina per l’Anno Santo, se ne tornò nelle sue terre e non si videro più. Per un anno si scambiarono delle lettere, quindi decisero di sposarsi. Due sconosciuti che diventavano marito e moglie.

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