Ombre
Di Paola Zoli
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Anteprima del libro
Ombre - Paola Zoli
OMBRE;
PARTE PRIMA
FIAMMA
Questa mattina, dopo tanto tempo, ho aperto il cassetto segreto della mia scrivania, quello che tengo sempre chiuso a chiave, non perché vi siano cose che non devono essere trovate da nessuno ma perché vi è un frammento della mia vita che mi ha segnata profondamente e di cui non mi va di parlare a chi mi sta ad ascoltare con aria incredula e quasi sarcastica. Il sarcasmo veramente non me lo spiego; semmai mi aspetterei che il mio interlocutore mi dicesse che è stato tutto un lunghissimo sogno, oppure un’allucinazione. Anche se so che non è così, accetterei di passare per visionaria, ma non per mezza matta. Eppure ho provato qualche volta, timidamente, a sondare il terreno e a tentare di raccontare quel che mi era capitato tanti e tanti anni fa, nei lontani anni ’60, e ci ho provato con le persone che meglio mi conoscevano e che avrebbero dovuto sapere che sono incapace di dire bugie o di esagerare i fatti, oppure di dar libero sfogo alla mia immaginazione tanto da inventarmeli. Non mi hanno mai creduta e dopo un po’ ho smesso di parlarne perché percepivo subito il loro tono incredulo e derisorio.
Nel cassetto segreto c’è una scatola di latta rossa che contiene alcune lettere, tutte lettere di Fiamma tranne una che ricevetti da sua madre. Ci sono poi delle fotografie, mie e sue e di noi due prese con l’autoscatto, e poi ci sono quelle due fotografie e, in fondo alla scatola piegato in quattro, un giornale inglese dell’epoca. Tutti ricordi legati a Londra: Fiamma mi scriveva da Londra e lì erano state scattate gran parte delle fotografie, tranne alcune che erano state prese in occasione di gite turistiche in altre parti dell’Inghilterra. Soltanto la lettera di sua madre veniva dalle Marche, ed era una lettera disperata.
Certo, non è che per pensare a Fiamma, e a tutto quello che è successo e che ha coinvolto anche me, io abbia bisogno di aprire questo cassetto e far uscire i ricordi come dal vaso di Pandora; nonostante la mia vita non si sia fermata a quel punto e sia andata avanti concedendomi la grazia di una famiglia serena, in vari momenti della mia giornata io ritorno a quel tempo e a quei fatti e ancora oggi continuo a farmi delle domande, anche se non metto minimamente in dubbio di aver vissuto quello che ho vissuto. L’aprire quella scatola però me lo fa sentire ancora più reale: mi par quasi di risentire gli odori, i sapori, di provare le sensazioni di quei giorni lontani, irripetibili per chiunque non sia più giovane ma in particolar modo indimenticabili per me che a quei giorni resto ancora aggrappata con una parte della mia mente.
La Londra che abbiamo vissuta noi, Fiamma ed io, era la swinging London
della seconda metà degli anni sessanta, la Londra dei Beatles e dei Rolling Stones, di Mary Quant, di Twiggy e della mitica Biba, il bazar di moda a basso costo più popolare fra tutte quelle ragazze che volevano essere in
senza dilapidare i loro modesti risparmi.
A dire il vero, io a Londra mi ci ero ritrovata un po’ mio malgrado: all’epoca, dovendo scegliere una facoltà dopo il liceo, lo studio delle lingue sembrava la risposta più innovativa al desiderio di emancipazione delle ragazze della mia generazione. Naturalmente le donne che sceglievano ingegneria o una qualsiasi facoltà scientifica che non fosse quella di scienze naturali e biologiche, erano mosche bianche e fino ad allora la popolazione studentesca femminile si era riversata in massa sulla facoltà di lettere antiche rendendola pressoché satura; perciò, per una ragazza che non avesse particolare disposizione alla matematica, il futuro pareva essere lo studio delle lingue. Questo, nell’immaginazione di una ragazza di allora, significava anche viaggi e…libertà, anche se poi si finiva quasi sempre per riporre le valigie in cantina e rassegnarsi a fare l’insegnante esattamente come le nostre colleghe di lettere; l’unico filo che ancora ci teneva legate all’idea del viaggiare, era la necessità di praticare di tanto in tanto, sul posto, la lingua che ci eravamo impegnate ad insegnare.
Nel mio caso poi, la scelta delle due lingue principali era stata una scelta quasi obbligata: la mia preferenza sarebbe stata decisamente per la lingua spagnola ma mi fu fortemente consigliato di scegliere la lingua inglese e quella tedesca, la prima perché era quella più comunemente usata a livello internazionale (e quindi anche la più insegnata) e la seconda perché pareva destinata a diventare una lingua estremamente utile nei rapporti commerciali. Io invece, fin da bambina, sognavo la Spagna, la Spagna dei gitani, del flamenco, dei mori, la Spagna leggendaria che vedevo rappresentata sulla scena nelle opere di Verdi. Mi si fece ragionare e mi si convinse che lo spagnolo era talmente simile all’italiano che non era il caso di perderci quattro anni di studio quando avrei potuto facilmente impararlo, in seguito, in poco tempo. A malincuore quindi mi rassegnai a sceglierlo come corso complementare della durata di un anno e mi resi conto che non sarebbe bastato quell’anno per farmelo imparare; tuttavia la priorità al momento era lo studio approfondito della lingua inglese (e, naturalmente, della sua letteratura) e il modo migliore per imparare una lingua era andare sul posto.
Durante il mio percorso universitario feci un primo viaggio in Inghilterra, a Cambridge, della durata di tre mesi e trascorsi quel periodo studiando in una scuola per stranieri e osservando le differenze tra due città universitarie così lontane e così famose come quella di Cambridge e quella di Bologna, dove io studiavo e che era la più antica delle due, anzi la più antica di tutte le università europee. Mi stupì il fatto che la comunità studentesca, lì, mi sembrava molto simile a quella a cui ero abituata: gli studenti tendevano a fare gruppo e a sentirsi, come ci sentivamo noi a Bologna, quasi come un’etnia a sé, privilegiata. Potrei dire di aver passato tre mesi molto piacevoli, anche perché Cambridge è una cittadina verde e ridente, attraversata da un fiume che si può navigare su barche a remi, ma per godere appieno di un soggiorno all’estero bisogna aver superato la nostalgia di casa che prende un po’ tutti i ragazzi le prime volte che si allontanano dalla famiglia. Feci alcune amicizie, qualche giro turistico in altre parti dell’Inghilterra e tornai a casa abbastanza riconciliata con l’idea di dover tornare ancora in quel paese. Il mio viaggio in Spagna, che io avevo sempre sognato, non era accantonato ma soltanto rimandato. A quel primo viaggio in Inghilterra ne seguirono altri tre ma non più a Cambridge, bensì a Londra. Fin dal mio primo soggiorno in questa città avevo avuto modo di accorgermi delle opportunità che essa poteva offrire e della rete di relazioni che uno poteva tessere, non solo tra studenti, se aveva un po’ di iniziativa. Lo spirito di aggregazione degli inglesi li portava a riunirsi nelle società più disparate (e a volte più bizzarre) e a queste chiunque poteva accedere se soltanto si mostrava incuriosito dai temi che trattavano; ciò significava che era difficile sentirsi del tutto soli a Londra, perché c’era sempre un posto dove potevi andare a prendere una tazza di the e a parlare con qualcuno.
Io poi che, a Bologna, avevo frequentato la sede locale del British Council, cominciai subito da lì perché sapevo che mi avrebbero offerto un appoggio concreto nella soluzione di eventuali problemi e perché fornivano una serie di servizi utili a far conoscere gli stranieri tra di loro e a farli socializzare. Quel mio secondo viaggio, il primo che feci a Londra, mi fece scoprire un mondo nuovo, un mondo che non conoscevo e per me, che venivo dalla provincia romagnola a quel tempo piuttosto chiusa in sé stessa, fu come una rivelazione. Da allora, i viaggi che feci in seguito a Londra li feci con entusiasmo.
Fu nel mio quarto viaggio in Inghilterra (il terzo che feci a Londra) che conobbi Fiamma. Io ero già laureata e avevo passato l’esame di abilitazione all’inizio di quell’estate, l’estate del 1966. Durante tutto l’inverno e la primavera, mentre preparavo l’esame, avevo insegnato in diverse scuole come supplente di inglese per guadagnare i soldi necessari a realizzare un progetto che avevo in mente qualora fossi riuscita a superare lo scoglio dell’abilitazione. Avevo deciso di prendermi un anno sabbatico e di rinunciare a qualsiasi chiamata che mi fosse arrivata dal Provveditorato o dalle varie scuole per trascorrere un lungo periodo di studio in Inghilterra in modo da sentirmi ben preparata quando avessi avuto un incarico a lungo termine. Il ’68 si stava avvicinando e, anche se nessuno di noi poteva prevedere allora quello che sarebbe poi successo, già cominciavano a spirare venti di ribellione nelle nostre scuole e a me, che cominciavo appena a rendermi conto di essere passata dall’altra parte della barricata, questo sordo brusio di malcontento creava un certo disagio.
Ero ben consapevole del fatto che noi uscivamo dall’Università con una preparazione teorica buona e a volte eccellente, ma senza aver fatto alcun tirocinio; in altre parole ci mancava del tutto la pratica, che si supponeva ci saremmo fatta sul campo a scapito dei nostri alunni e della nostra serenità. Quei mesi in cui saltuariamente avevo insegnato come supplente mi avevano fatto capire che ancora non sapevo come affrontare una classe né dal punto di vista del metodo né da quello della disciplina, ed è molto più difficile mantenere la disciplina se ti senti insicura e non sai farti rispettare come insegnante. Sapevo che in Inghilterra si tenevano corsi di preparazione all’insegnamento e già nel mio viaggio precedente ero stata tentata di seguirne uno, ma le date non si combinavano con quelle del mio soggiorno; questa volta però avevo programmato le cose in modo da partire con l’iscrizione già in tasca, che avevo effettuato con l’aiuto del British Council di Bologna, e con le idee ben chiare su quella che sarebbe stata la durata del mio soggiorno (circa nove mesi, cioè: autunno, inverno e primavera). Quanto all’alloggio, avrei passato i primi giorni alla Y.W.C.A. e intanto mi sarei cercata una camera in un appartamento.
Partii a settembre, con un paio di settimane di anticipo sulla data di inizio del corso perché volevo avere il tempo di trovare una stanza in cui poter vivere con una certa comodità e che non avesse l’aspetto squallido di tante bedsitters che avevo visitato durante i miei precedenti soggiorni a Londra. Naturalmente il corso non sarebbe durato nove mesi (che era più o meno il tempo in cui volevo restare in Inghilterra), ma avrei potuto rinnovare l’iscrizione in seguito o sceglierne un altro di livello più avanzato, il che mi avrebbe anche consentito di rinnovare il mio permesso di soggiorno. A quell’epoca le cose erano molto più complicate di adesso, l’ufficio di immigrazione era assai severo con chi entrava nel paese e purtroppo temo che questo atteggiamento di diffidenza stia per ritornare dopo il distacco