La danza dei cavi: Storia di un viaggio
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Nel corso di questo viaggio che ha un po’ il sapore di una fuga, si intrecciano descrizioni di luoghi, incontri reali e non: tasselli della ricerca di sé e di una donna, distrattamente comparsa nella vita del protagonista a cui ha rubato l’anima.
A distanza di tempo, durante un tragitto in treno riaffiora il ricordo di quel viaggio: sono i cavi elettrici che scorrono mentre osserva dal finestrino, essi sembrano intrecciarsi come le situazioni della vita. Federico affronta i suoi ricordi, sfogliando il diario di bordo redatto in quei giorni. È un tuffo nel passato, rileggere gli eventi antecedenti al viaggio, ricercare le cause e collegarle agli effetti.
La narrazione si sviluppa, brillantemente, come in una partita di ping-pong su tre livelli: il presente, il passato prossimo e il passato remoto, che si intervallano e a volte sembrano accavallarsi.
La linea sottile che lega i tre momenti è Maria, un angelo mozarabo che sconvolge la vita di Federico nell’arco di quattro anni, in un continuo alternarsi di emozioni.
Nevralgica è la città di Barcelona, alter ego di Napoli, ma un ruolo importante l’hanno anche l’Etiopia, Genova, Milano, Roma, Valencia, la Provenza, i paesi che si dipanano sulla statale umbro-casentinese. Co-protagonista, indiscussa, è la moto, non solo un mezzo di trasporto, ma espressione di uno stile di vita.
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Anteprima del libro
La danza dei cavi - Domenico Iasiello
BMG
Introduzione
Ci ho messo diciotto anni a finire questo libro, ho dovuto raggiungere la maggiore età come scrittore. Le storie che racconto appartengono in parte alla mia autobiografia, in parte sono pura finzione, rimandano a sogni che oggi non ho più o che ho realizzato, ad aspirazioni che ho raggiunto in altri modi, per strade che all’inizio degli anni Duemila non riuscivo neanche a immaginare. Non è la mia vita, ma quella che avrei voluto a ventitré anni, quando iniziai, come esercizio per un corso di scrittura per il cinema, a buttare giù il soggetto per una sceneggiatura. Nel tempo ho preferito tramutarlo in un romanzo e quindi anche le tecniche adottate sono cambiate, ma non troppo. Ho voluto che lo stile da sceneggiatura, il raccontare per immagini rimanesse, ho l’impressione che funzioni di più. Il mio docente dell’Università Cattolica ci disse in classe: mai scrivere della propria vita, è la cosa più difficile. E infatti…
Riprendere il romanzo tra le mani di anno in anno è stato difficile: ricostruire quelle sensazioni, quelle idee sempre più lontane, ciò che ero e non sono più. Allo stesso tempo è stato un viaggio dell’anima, un pungolo continuo a non dimenticare da dove sono partito, quali ideali m’infiammassero e con quale passione vivessi. Oggi, se sono quello che sono, nel bene e nel male, lo devo molto ai miei ricordi, al mio non voler dimenticare la mia giovinezza, quando tutto mi sembrava possibile e sentivo dentro una forza infinita, quando pensavo che le parole potessero salvare il mondo perché sono l’espressione della Vita. Adesso tra i banchi di scuola, tra gli occhi sognanti e un po’ distratti dei miei alunni, affermo ancora con gioia quel principio: la Letteratura è Vita e ognuno di noi può contribuire al meraviglioso spettacolo dell’universo con un solo verso, come diceva il prof. Keating (Robin Williams) nel film L’attimo fuggente.
Questo breve romanzo di formazione ha solo questo scopo, immergermi nel mio abisso e ritornare a galla con quel verso che evochi quel flusso vitale, quel fuoco sacro che ha spesso caratterizzato la mia esistenza.
Domenico Iasiello
Prologo
Napoli, estate del 2002. Il lavoro nei Quartieri Spagnoli è molto impegnativo, i ragazzi di strada che partecipano al progetto di educativa territoriale contro la dispersione scolastica fanno fatica a essere costanti e seguire le attività che gli vengono proposte. Però, una volta affezionatisi agli educatori, si fanno guidare in capo al mondo, si aggrappano disperatamente a quelle poche ore di attenzione che ricevono al giorno. Napoli, figlia di Sibilla, città misteriosa tra Paradiso e baratro, tra il mare e il castello…
Federico ha ventisei anni, laureato in lettere, è un maestro di strada, cresciuto con il sogno di una società più giusta. Ha lottato da studente e ora da lavoratore, ha condiviso con molte persone un progetto di civiltà solidale. Da poco è rimasto senza compagna, dopo cinque anni. Ha desiderio di mollare tutto e partire per un viaggio in moto. L’idea scaturisce da un tragitto in treno, durante il quale nasce una riflessione sulla vita...
1
La danza dei cavi
Mattina, il sole appena sorto. Ero in treno, in una carrozza di un Regionale: quadretti d’inchiostro a china che raffigurano le città italiane, le poltrone di finta pelle marrone, le pareti con pannelli color legno e il classico odore di vecchio, di stantio e di fumo delle seconde classi dei treni economici. Un prete sonnecchiava, accanto a un ragazzo con l’iPod e musica metal a tutto volume nelle cuffie, una donna sposata guardava la sua fede e ci giocava nervosamente con la mano, aveva gli occhi tristi, persi nel cielo oltre il finestrino.
Girai istintivamente lo sguardo verso il paesaggio: si vedevano il mare e delle case qua e là. Alzai gli occhi e notai i cavi elettrici ferroviari che danzavano all’andare del treno. Scrissi.
Diario, 22 giugno 2002
Seduto vicino al finestrino dello scompartimento di un treno, mi scorgo a osservare senza sosta i cavi elettrici ferroviari. Sembra quasi che danzino...
S’incrociano, si scambiano, s’ingrandiscono, rimpiccioliscono, si accoppiano, si dividono...
Guardo tutti i loro movimenti senza però riuscirne a percepire le cause.
Mi sento catturato...
2
Nella stanza
Novembre 2003. Sono nel letto, in una notte di pioggia, con il mio diario tra le mani. Non posso togliermi dalla mente quella danza di cavi. Troppe storie tornano e quel viaggio mai finito...
A che punto sono, che mi sta succedendo? La serenità che sento è apparente?
La camera è illuminata da una luce soffusa artificiale, emanata da una lampada da notte. La stanza sul lato sinistro ha una finestra, le pareti sono verde pastello, sulla destra c’è una scrivania di legno massello, con una libreria di abete, che la sovrasta, stracolma di libri; accanto al letto una chitarra folk appoggiata alla parete piena di foto protette da plexiglass, una pila di spartiti e giornali, affianco alla chitarra un comodino basso dipinto di rosso pompeiano, sopra una lampada verde in stile antico, un posacenere di terracotta, un libro di poesie di Salinas. Infine un letto matrimoniale, con la spalliera in ferro battuto nero.
Sono steso e sfoglio il mio diario personale di foglie di canapa: rileggo gli appunti del mio ultimo viaggio.
Diario, 30 ottobre 2003
Piove... è notte fonda...
Un senso di pace e tranquillità penetra il mio spirito. Anche il rumore cadenzato delle gocce d’acqua sulla lamiera, che di solito mi avrebbero snervato, dà un ritmo incalzante alla mia voglia di sonno.
È mercoledì, anzi ormai giovedì, e questo, da domenica, è il primo momento di tregua dalle attività, il primo istante di raccoglimento.
I tuoni fuori mi fanno accoccolare ancor di più nel letto e mi consentono di sentire e gustare meglio il calore sotto le coperte, il riposo dopo la stanchezza.
Le palpebre si appesantiscono dolcemente, rannicchiandosi sugli occhi, pregandomi di chiuderli, per potersi distendere.
Negli attimi in cui la pioggia non picchia sulle tapparelle, m’immergo in un silenzio totalizzante, che sgombera la mia anima dai pensieri affannosi: il lavoro, la casa, il viaggio, la lontananza.
Era da tempo immemorabile che non provavo queste sensazioni, alcune sono finanche inedite...
Sì, sto meglio... mi sto curando bene...
Senza esserne cosciente, ho scelto la terapia giusta al mio logoramento apatico.
È piacevole, riempie di gioia la consapevolezza di star vivendo senza interruzioni, di provare tutti i sentimenti fino in fondo, dall’euforia, eccitata dalla novità, alla malinconoia rattristante delle sere solitarie.
Per la prima volta mi scopro ad assorbire le mie letture e a esserne assorbito. Finalmente vedo i collegamenti, riconosciuti gli sforzi, chiari i concetti; mi accorgo che tutto mi gira nella testa durante il giorno senza abbandonarmi, pronto a soccorrere la mia memoria punzecchiata da qualche sollecitazione esterna.
Rileggendo, quasi mi assale la paura di sentirmi troppo bene, che è tutto solo e ancora un’illusione, che il domani sarà lesto a smentire...
Forse in futuro cadrò nuovamente, ma da oggi so che, se cadrò, sarà per rialzarmi.
Ciò che assaporo qui e ora, niente e nessuno potrà più togliermelo; il ricordo del passato, di ciò che è potuto accadere, anche se un po’ sbiadito, mi farà cosciente, mi riconsegnerà quello che ho di buono, la mia forza, il mio coraggio, il peso delle esperienze vitali e umane, i miei miglioramenti...
3
In partenza
Da poco si era conclusa la mia storia con Morgana, durata cinque anni, trascinata fino a farci male. Avevo finito una specializzazione da maestro di strada da una settimana, si era concluso il progetto di recupero scolastico minorile nel quale stavo lavorando. Le attività dell’associazione pro Africa erano terminate. Ero esausto, svuotato. Il mio quotidiano sembrava non avere più senso. Nella mia testa c’era un desiderio mai sopito: un viaggio. In moto. Senza meta. Come i personaggi dei film e dei romanzi che adoro: moto, sacco a pelo, tenda e via!
Non ero riuscito a dormire. Erano le cinque del mattino del quindici luglio 2002. Infilai il giubbino di pelle su una vecchia maglietta dei Metallica, jeans, stivali neri, il foulard rosso alla gola, ed ero già nel garage, avvolto dalla penombra delle prime luci del mattino. Caricai la mia Moto Guzzi Nevada nera, ricca di cromature luccicanti e accessori, tra cui un piccolo impianto stereo. Assicurai la tenda e il sacco a pelo sul portapacchi posteriore, agganciai le borse di pelle sui supporti laterali, accesi la moto che rombava, pronta alla cavalcata, casco in testa e via, l’avventura era in procinto di cominciare!
Non stavo più nella pelle. Lo spirito da sciamano indiano, che sento dentro da sempre, m’invitava ad andare, come i pellerossa americani nelle calde albe dello Utah.
Il calore dei cilindri, il rombo del motore della Guzzi 750, il vento che schiaffeggiava il viso e la musica Born to be wild di Steppenwolf, che mi veniva in mente ogni volta che salivo in sella e che cantavo a squarciagola per tutto il tragitto, mi esaltavano. La libertà, la libertà: a questo pensavo sempre, macinando chilometri. Mi pervase una gioia senza limiti. O almeno questo era ciò che mi sembrava di poter chiamare gioia. Il tratto di costa che va da Napoli a Sabaudia fu una scarica di emozioni, di paesaggi mozzafiato, l’alba e il tramonto: era come stare al cinema in 3 D e rivivere i miti di