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La magia di Trieste: 51 racconti tra terra e mare
La magia di Trieste: 51 racconti tra terra e mare
La magia di Trieste: 51 racconti tra terra e mare
E-book191 pagine2 ore

La magia di Trieste: 51 racconti tra terra e mare

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Info su questo ebook

La magia di Trieste, del suo mare e del suo misterioso vento di Bora si compie attraverso cinquanta -più uno- racconti dalle mille sfumature. L’ironia, il sarcasmo, la nostalgia, la poesia, lo humor si alternano con andamento ondivago, creando un caleidoscopio di emozioni. Come onde del mare, le parole si susseguono in morbide curve e saliscendi, tra picchi di assurdità grottesche e picchi di riflessioni romantiche.
Collante: il morbin triestino che affascina e seduce quanto un incantesimo domacio “made in Trieste”!
LinguaItaliano
Data di uscita23 mag 2019
ISBN9788834119501
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    Anteprima del libro

    La magia di Trieste - Erica Bonanni

    Erica Bonanni

    LA MAGIA

    DI TRIESTE

    51 racconti tra terra e mare

    White Cocal Press

    In copertina

    La mula de Trieste

    Disegno di Roberta Zucca

    Direttore editoriale

    Diego Manna

    www.mononbehavior.com

    Edito da

    White Cocal Press

    via Biasoletto 75

    34142 Trieste

    manna@bora.la

    Tutti i diritti riservati.

    Prima edizione: giugno 2019

    Alla mia mamma adorata

    a volte vede in me un genio,

    a volte una PAZZA FURIOSA,

    a volte, addirittura, un alieno

    e, a volte, forse… ha pure ragione!

    A DOMANI… ALLE 6.00 IN ACQUA

    Questo racconto è un omaggio al mio grande amico e compagno di voga Mario Braico.

    Trieste, dicembre 2013

    A domani… alle 6.00 in acqua. Un mantra recitato ogni giorno da Erica e Mario su uno dei numerosi pontili che frastagliano la planimetria della Sacchetta. Lì, infatti, sul Pontile Istria n. 6, tra barche variopinte, famigliole di anatre starnazzanti e il quieto vociare del mare riparato proprio dalla Sacchetta, ha sede la Società Ginnastica Triestina Nautica. Un’istituzione che fin dal 1863 invita giovani e meno giovani allo sport del canottaggio.

    Quel rituale si svolge al mattino, verso le 8.00, quando i due, tornati dall’uscita in barca, ripulititi e agghindati, si danno appuntamento per l’indomani, con un sorriso complice. Subito dopo lei va al lavoro, spumeggiante come un sorbetto allo champagne, mentre lui, ebbro di spirito, si ferma in società per la consueta partita a carte con i soci anziani.

    Erica: quarantenne affascinata dall’equilibrio e dalla saggezza di Mario che in mare mantiene la stabilità della barca e non solo.

    Mario: settantacinquenne affascinato dalla vitalità e dall’esuberanza di Erica che in mare scatena uno tsunami di riflessioni cambiando continuamente direzione della barca e non solo.

    Entrambi affascinati dalla vita, dal mare e da quello splendido golfo che fa da cornice alle loro uscite.

    Erica e Mario sono una coppia; una coppia di canottieri.

    Sveglia prima delle 5.00, in società prima di tutti e in mare prima dell’alba! L’urgenza è quasi imbarazzante, come quella di chi si reca in chiesa con un peccato da confessare.

    Anche d’inverno il rituale è lo stesso, salvo alcune varianti: incognita meteo più invadente, indumenti più caldi e luce di posizione in prua. Tutto si svolge in pochi istanti a cominciare dallo slancio simultaneo dal pontile con un solo piede che per un attimo li fa sembrare due fenicotteri in crisi ipotermica e poi, via per mare, alla ricerca della profondità dell’anima.

    Capita, a volte, che il buio, il freddo, la pioggia o il vento li costringano a restare a terra; allora la palestra diventa il mare, il remoergometro la barca e i neon i raggi del sole… per la suggestione evocata dai palazzi e dal paesaggio, però, c’è solo la fantasia.

    Quel mare, infatti, così vicino e allo stesso tempo così lontano perché impraticabile, cattura la loro attenzione; l’acqua increspata a pochi metri dalle vetrate della canottiera li fa sprofondare nella nostalgia per ciò che solo là fuori, cullati e protetti da quell’universo liquido, sono in grado di confessare. Un’intima complicità e la consapevolezza per il reciproco stato d’animo li avvolge in una bolla invisibile e inaccessibile per chiunque altro.

    In mare, naturalmente, è tutta un’altra storia: Erica e Mario si sfiorano fisicamente e mentalmente. Stanno seduti l’uno davanti all’altra, a pochi centimetri di distanza. Mario guarda il mare e sente la voce di Erica alle spalle; Erica guarda la schiena di Mario e sente la voce del mare alle spalle che suggerisce la rotta; entrambi avviluppati nell’atmosfera del mattino, sempre suggestiva e seducente; il mare li ascolta e li sostiene.

    Ogni giorno la rotta della barca è la stessa: Stazione Marittima, piazza Unità d’Italia, Molo Audace, diga, Faro della Vittoria e Barcola; la rotta dei pensieri, invece, cambia di continuo e non è mai banale. Erica e Mario parlano tra loro in maniera spontanea e naturale, come fossero coetanei dello stesso sesso. Discutono d’amore, politica, ambiente, eutanasia, razzismo, cucina, sport, letteratura, viaggi, filosofia… con un trasporto e un coinvolgimento totali.

    In mare tutti i sensi vengono amplificati con infinite sfumature. La mente sfugge la razionalità e il corpo asseconda l’istinto. Erica e Mario vengono liberati da un incantesimo: i confini corporali e i limiti mentali si dissolvono. Lo scorrere lento del carrello sotto i loro corpi piegati nel movimento della voga sincronizza gesti e respiro; il fruscio delle pale che prima accarezzano e poi penetrano l’acqua crea una sorta di trance ipnotica che induce il risveglio dell’anima.

    Mario diventa un ragazzino vivace con la saggezza di un uomo maturo; Erica, invece, diventa una donna con l’entusiasmo di una ragazzina. Irradiano luce.

    Il rollio della barca condiziona il loro stato mentale e quello emotivo; avvolti e travolti da un’armonica dissonanza di forme, colori e odori Erica e Mario parlano con il cuore.

    Unico testimone il mare, che canta quelle parole in un linguaggio che nessuno sa decifrare. I segreti della coppia sono al sicuro.

    Tornati a terra, nel caos calmo della Sacchetta, Erica e Mario si separano. Ripulititi e agghindati si danno appuntamento per l’indomani, con un sorriso complice: a domani… alle 6.00 in acqua.

    PREFAZIONE

    La magia di Trieste e l’incanto del mare fanno da cornice, sfondo e colonna sonora a questi cinquanta brevi racconti -più uno- che accompagnano il lettore nelle pieghe più nascoste dell’anima della città e in quella dei suoi curiosi abitanti. Il viaggio inizia all’alba, in Sacchetta sull’onda dell’entusiasmo di un’uscita in barca a remi e prosegue alternando da una parte ebbrezza, ironia e leggerezza, dall’altra nostalgia, ricordi e poesia. Termina con un sogno, ma solo sulla carta. La realtà, a volte, è più generosa e sorprendente del sogno più bello.

    Tra vie, piazze, palazzi, monumenti, piatti tipici, macchiette folcloristiche e dialetto locale si snodano le avventure di decine di personaggi stravaganti, originali, bizzarri e pieni di quella scontrosa grazia tanto cara a Umberto Saba. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore.

    A Trieste il richiamo irresistibile del mare che persuade lo spirito a intuire l’estasi dell’infinito -dove cielo e mare si confondono con l’orizzonte- è forte quanto un bisogno ancestrale. Sotto lo sguardo benevolo del costone carsico che sembra avvolgere quello stesso spirito in un abbraccio affettuoso, si intrecciano non solo i destini dei suoi abitanti, ma anche amore, musica, animali, sport, amicizia, ricordi, vento, notte, oblio e sogni. Sono, queste, infatti, le suggestioni che assecondando l’imprevedibilità degli umori del mare creando un universo di onde, fatto di storie spassose, grottesche e romantiche. Panorami mozzafiato, capricci delle maree, raffiche di Bora ed espressioni dialettali spezzano di continuo la calma piatta che nel mare, così come nella vita, può essere solo apparente. Storie dove la fantasia, l’ironia e un’inesauribile passione per ciò che rende la vita un’avventura assoluta sono protagonisti indiscussi, fra uomini e donne, fra terra e mare, fra Trieste e il resto del mondo.

    Nel corredo cromosomico dei triestini, la noiosa monotonia di un’esistenza qualunque, non c’è. La doppia elica del loro DNA, infatti, è intrisa di vivacità, di buonumore e di un morbin straordinario che decodificato potrebbe suonare come il ritornello di una famosissima canzone della tradizione popolare...

    Sempre alegri, mai passion viva l’A e po bon!

    MUTAZIONI

    Se fossi un animale, sarei certamente una farfalla. Una farfalla poetica: farfalla libera come una cavalla. Farfalla che resta sempre a galla. Farfalla che balla. Questo dicevo da piccolina, quando giocavo nel giardino sotto casa con Alice e Max. Alice, invece, avrebbe voluto essere una zanzara per poter pungere Max e Max un pesce, per fuggire dalle angherie di Alice e dai miei sproloqui poetici.

    Io, Alice e Max eravamo gli unici bambini nel raggio di tre chilometri in quella periferia a sud della città, chiamata da qualcuno, scherzosamente, quartiere Senilità -defilata come tutte le periferie, ma sovraffollata di anziani come la sala ricreativa di un circolo per la terza età. D’altronde, si sa, a Trieste un abitante su tre ha più di sessant’anni! Proprio così, ho letto da qualche parte… un abitante su tre ha più di sessant’anni! Pertanto, sarebbe difficile trovare un quartiere per cui questo soprannome non fosse azzeccato.

    Mi rendo conto dell’inquietudine che potrebbe cogliere chi non conosce la citta al pensiero, terrificante, di trovarsi a passeggiare per le vie del centro con la sensazione di essere nel corridoio di un ospizio. Tuttavia, sarebbe un turbamento inutile e morboso, oltre che un segnale di scarsa tolleranza verso un destino incontrovertibile. Non c’è dubbio, gli anziani ci sono, ma che anziani! I vecchi triestini sono delle macchiette divertenti. Alcuni convivono con un passato scomodo, altri con un passato difficile, altri ancora con un passato drammatico -chi profugo istriano, chi reduce di guerra o prigionia, chi rientrato dopo anni di esilio- ma tutti hanno nel DNA la fierezza di avercela fatta, la saggezza dell’esperienza e quel pizzico di sobria ubriachezza, tipica del triestino medio e, inevitabilmente, di ogni anziano, che li rende favolosi e irresistibili.

    E poi… alla fin fine, come sempre, viva l’A e po bon!

    Ad ogni modo, lì in quella periferia si stava bene, vicino alle case dei Puffi di Borgo San Sergio, alla farmacia, alla posta, al supermercato, agli sportelli sociali, al ricreatorio, alle associazioni sportive, al poliambulatorio medico… era un piccolo mondo che sarebbe stato in grado di sostenersi in maniera autosufficiente.

    Ogni pomeriggio, dopo la scuola, io, Alice e Max ci incontravamo nel fazzoletto di terra, fronte condominio, che i grandi chiamavano il polmone verde di Senilità, per giocare. C’era una pianta di oleandro, un pino, un’aralia enorme, qualche erba infestante, qualche fiore di stagione e poi c’era anche un po’ di spazio, tra le sterpaglie e i ciottoli dove, di consueto, stendevamo i nostri asciugamani. Lì, dopo aver scorrazzato per il giardino in preda alla frenesia tipica dell’infanzia, placavamo l’eccitazione fisica stuzzicando quella mentale. A volte, addirittura, stavamo stesi per ore a guardare il cielo, a deformare le nuvole e a fantasticare su quello che avremmo voluto essere o diventare da grandi.

    In realtà, l’aspirazione di Max a diventare un pesce maturò nel corso del tempo. All’inizio della nostra fratellanza, infatti, e della convivenza forzata nel piccolo giardino condominiale, Max diceva semplicemente che avrebbe voluto essere sordo. Sordo per non sentire le mie fantasie in rima -farfalla/cavalla, farfalla che balla, farfalla che resta sempre a galla- e sordo, nel senso di impermeabile, alle urticanti attenzioni di Alice. Poi fu la volta della talpa e, infine, del pesce. Allora eravamo piccoli e il nostro orizzonte si limitava a quel quadrato di terra incolta.

    Un’altra cosa che ci accomunava, per l’appunto, era il fatto di avere alle spalle una famiglia di umili origini. Questo rendeva le nostre vacanze simili tra loro e monotone. Tutti e tre, infatti, trascorrevamo le vacanze a casa o presso i parenti, sparsi un po’ ovunque -nell’arco di massimo cinquanta chilometri- e al mare… in principio al Pedocin, poi più grandicelli ai Topolini di Barcola. Castelreggio era troppo lontano e Muggia infestata da amichetti scomodi!

    Il primo a toccare l’acqua del mare con mano e a sentire il profumo di quell’immensa distesa di liquido trasparente fu proprio Max che ne rimase affascinato. Così, di ritorno dal suo battesimo acquatico, iniziò a parlare di meduse, alghe e pesci. Quella del pesce divenne una vera e propria ossessione. Max diceva che i pesci vivono liberi e felici. Nuotano tutto il giorno in un ambiente accogliente. Stanno in gruppo con la stessa facilità con cui sanno stare da soli senza, per questo, dover dare spiegazioni a nessuno. Scelgono con chi stringere amicizia e non hanno alcun obbligo o regola morale da rispettare.

    Già allora Max era insofferente alle consuetudini del vivere civile e alle convenzioni sociali e per un po’, effettivamente, riuscì a fare la vita del pesce! Con noi si fece distante: sgusciava come un’anguilla da qualsiasi situazione scomoda, parlava poco e giorno dopo giorno sembrò pure inaridirsi. A un certo punto, però, venne preso all’amo da Virginia, una bambina snob e capricciosa che in seguito al tracollo dell’impresa edile del padre si trasferì nel nostro piccolo eden pensando, tra le altre cose, di poter addomesticare Max… ma il mare e i suoi abitanti erano già entrati nelle sue vene e dopo qualche momento di evasione, Max tornò sott’acqua!

    Ora siamo cresciuti: Max è diventato uno squalo della finanza, Alice una pungente opinionista del web e io… io sono diventata una poetessa in sovrappeso con la passione per i lepidotteri. Come una farfalla volo felice di fiore in fiore alla ricerca del vero amore!

    ACCORDI LIQUIDI

    Suono il pianoforte da quando avevo vent’anni. Certamente non si può dire che abbia iniziato presto. Tuttavia, oggi ho ottantacinque anni, una protesi al ginocchio, una badante rumena, due bypass, un polveroso monolocale in via della Guardia e soprattutto continuo a suonare il pianoforte piuttosto bene. Dunque, è come se fossi stato un bambino prodigio, tanto è lontana quell’amata giovinezza!

    La mia vita trasuda musica, o meglio, i suoni che emana l’universo. Da piccino restavo incantato, quasi paralizzato, dal suono che sprigiona una foglia secca quando cade da un albero, dal ronzio di un insetto, dal chiacchiericcio indistinto di persone in lontananza o dal fruscio del vento che rompe il silenzio quando sfiora le

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