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101 donne che hanno fatto grande Napoli
101 donne che hanno fatto grande Napoli
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E-book505 pagine5 ore

101 donne che hanno fatto grande Napoli

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Info su questo ebook

Da Partenope a Sofia Loren, le più importanti figure femminili all'ombra del Vesuvio

Sante, madonne, regine, ma anche puttane, attrici, ballerine. Protagoniste perdute e ritrovate, donne virtuose, devote, appassionate, peccatrici, dannate… Centouno donne napoletane, centouno profili seri e ironici che danno vita a una sfilata entusiasmante di femmene. Come resistere al loro fascino? Da Lucrezia d’Alagno, la vergine che ammansì Alfonso d’Aragona, a Giovanna I, la regina lussuriosa perseguitata da due sante; da Ciulla De Caro «commediante cantarinola armonica puttana», prima impresaria nella Napoli del Seicento, a Maria d’Avalos, il fantasma di Piazza San Domenico  Maggiore… Poi sfilano le donne da palco, come Elvira Donnarumma e il suo “karaoke”, Amelia Faraone, prima sciantosa napoletana che si muoveva solo se scortata da mammà, Maria Borsa, sfacciata inventrice della mossa. Non mancano le penne affilate delle dolorose indagatrici, da Anna Maria Ortese a Matilde Serao a Jessie White Mario, giornalista inglese del Risorgimento napoletano, a Enrichetta Caracciolo, rivoluzionaria, liberale, che per tutta la vita combatté l’obbligo di prendere i voti. Senza dimenticare Luciana Viviani, protagonista della politica nazionale, o Titina De Filippo, preziosa memoria del teatro napoletano, o ancora Sofia Loren, ambasciatrice di Napoli nel mondo. Donne, insomma, che ci sorprenderanno al di là di ogni stereotipo, napoletane prestate a Napoli perché ne faccia, sulla sponda del suo golfo e sotto l’ombra del Vesuvio fumante, le vergini peccatrici capaci di generare miti oscuri e storie luminose. Su tutte primeggia Partenope, la città-donna, madre gravida di madri gravide, di scugnizzi e di racconti, di leggi e leggende che si trovano soltanto qui, tra questi vicoli.

Tra le 101 donne straordinarie di Napoli:

Sancia d’Aragona, un monastero tutto per sé
Maria Puteolana, una Lady Oscar alla corte degli Angiò
Vittoria Colonna, l’antipatica perfettina del Rinascimento
Maria Carolina d'Asburgo, la Regina contro la Rivoluzione
Giulia Gonzaga, bellissima eretica
Artemisia Gentileschi, femminile magia caravaggesca
Luisa Sanfelice, un amore e una rivoluzione
Fanny Cerrito, la danza nell’anima
Sofia Loren, il ritorno della sirena
Agnese Palumbo
giornalista, ha collaborato con «la Repubblica», «il Riformista», «D di Repubblica». Per il teatro ha scritto, con Massimo Piccolo, Sante, Madonne e Malefemmene e Non farlo nel mio nome, storia di una brigantessa. Collabora con la casa di produzione cinematografica MoonOver. Per la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita, 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato e 101 donne che hanno fatto grande Napoli. Con Maurizio Ponticello ha scritto Misteri segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi . È vicepresidente dell’associazione Luna di Seta.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2015
ISBN9788854182615
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    Anteprima del libro

    101 donne che hanno fatto grande Napoli - Agnese Palumbo

       1.

    PARTENOPE

    Yemanjá, regina del mare… Donna Janaína, Inaê,

    Principessa di Aiocá e Maria, Aicá.

    J. AMADO

    Sul bordo di via Caracciolo torniamo pagani.

    Sapore salmastro portato dal vento, richiami rochi di pescatori pigri nelle mattine deserte d’agosto, canne che affondano in un mare dimenticato.

    Torniamo Greci, protetti dal canto delle sirene, riparati sulla terra, perduti, ammaliati, aggrediti, nello specchio d’acqua azzurro e grigio perla lentamente ingoiato dall’orizzonte, quella linea dritta che unisce terra e cielo e a Napoli si fa storta sotto il peso morbido del Vesuvio.

    Sono turbata dalla prepotenza con cui Ulisse ingannò la nostra sirena e affascinata dalla tenacia con cui le donne rinascono, si rimettono in piedi e dai loro corpi morti generano le città.

    Ogni edificazione abbisogna di un sacrificio: mi farò da capo, da cosa remota.

    Partenope, si inizia da lei perché porta bene. Si inizia da lei perché è da lei che tutto inizia; regina, signora delle acque, madre e sposa dei pescatori, amore supremo, desiderio impossibile.

    Tappeto di onde sparse al chiaro di luna, di baci perduti e promesse mancate che verrà a raccogliere per noi, emergendo, come si poteva venir fuori una volta, tra le leggende e i racconti, i sudori e le fiaccole degli antichi giochi lampadici, tra schiume fecondanti di donne brunose, sensuali, appetitose: napoletane indipendenti e coraggiose che sciolgono i secoli per ritrovarsi in un’unica corona.

    La storia della fondazione non si intesse per la città, ma dalla città: città di tutti i santi mescolati con sapienza, neri d’Africa, algidi di Svezia, professioni di fedi che convivono l’una dentro l’altra, da Partenope a santa Patrizia, da Mitra a san Gennaro, fino a Persefone, Maddalena, sant’Antonio; Cenerentola che si affaccia sulla prora delle barche, che passeggia scalza di notte, perdendo scarpe; Maria Vergine, che resiste immacolata sotto la grotta di Priapro.

    Città di mille cappelle e trecce di spaghetti a vongole, uomini che trascrivono memorie, voci di popolo, gesta sognate che in qualche parte del tempo avrebbero voluto realizzare. Di questa città, comunque la si veda, il ventre è femmina.

    Oltre la linea dell’orizzonte si distingue una colomba bianca seguita da una nave di giovani vergini greche. Il primo piede lo mette a terra la bella sirena dai seni di schiuma, gli occhi verdi perduti in un mare lacrimoso di morte, d’amore, di colpa e di espiazione.

    Ha i capelli tranciati in un colpo, partita di notte, vergine innamorata di Metioco Frigio, giovane guerriero greco, fuggita per mare alla ricerca di un luogo dove piangere il suo errore, maledire la sua disperazione. Scontare la violazione del voto di castità.

    Immaginiamo di solcare questi mari al limite delle colonne insuperate, lo stretto passaggio tra Scilla e Cariddi dove all’incantesimo si aggiunge la seduzione, il canto delle incantatrici famosissime, dove il tempo si mescola e si perde, ora è pesce, corallo, alga, ora torna sirena, con mezzo corpo di donna e mezzo di uccello rapace.

    «Dum Vesevi Syrena Incendia Mulcet»; Partenope spruzza latte dalle zizze, la femme-fontaine di Spinacorona dietro via Medina, attaccata al muro di Santa Margherita; sotto la chiesa della regina Giovanna, che custodiva la spina di Cristo. Latte in un getto caldo e invitante, schizzi apotropaici della sirena che custodisce tra le cosce il Vesuvio in eruzione, ne tempera l’impeto, addolcendone l’animo inquieto.

    Quella stessa vergine è servita a tavola, la bimba-sirena bollita, distesa su un letto verde di lattuga e rosso di coralli, al centro del famelico appetito di galantuomini internazionali e di dame col ventaglio e la puzza sotto al naso. Presagio di morte o antico esorcismo imparato da Malaparte nella città mitopoietica che divora se stessa generando miti?

    E se fosse una denuncia politica, epitaffio post mortem del Regno delle Due Sicilie, vittima di cupidigie che lacerarono le carni; storia di un piccolo predatore Savoia insignificante sotto lo sguardo complice di altri e più famelici cacciatori? Un brivido di angoscia e di ribrezzo, si apparecchia con la sirena dell’acquario più antico d’Europa.

    «È dolce morire nel mare», ripete instancabile Amado, «ma severa e implacabile è la sua legge: [Yemanjà] per amarla, per conoscere il suo volto, i suoi segreti, sentire il suo profumo è necessario morire…». Ulisse non morì, lasciandola morire.

    Napoli comincia da qui.Dalla sirena che scandalizzò i benpensanti nel carnevale del 1981, il giro alternativo dietro i palazzi, per i vicoli dei quartieri, perché i giovani ormoni non vedessero le morbide spire di questa donna- pesce, capace di incantarli con i suoi seni prosperosi e i fianchi larghi, mitologia pura che pare ti avvolga e nemmeno sai se è il canto magico o le trappole di un mostro marino; perduta nel traffico di piazza Sannazaro, autentica viscerale popolana napoletana che vive in tutte noi, austera e determinata, padrona di una piazza e quattro animali marini; un fiume d’acqua che la percorre e qualche figlio perso chissà dove che dopo le sei comincerà a chiamare…

    Partenope

       2.

    DONNA MARIANNA, ’A CAPA ’E NAPULE

    Te la trovi davanti e lo sai, è l’anima della città. È la seducente, lontana reminiscenza di un passato lontano, perduto nella memoria genetica dei napoletani e non si frena la commozione di andarle incontro e restare a fissarla, questa donna, archetipo anacronistico di femmine napoletane, imponenti matrone madri dominate di una metropoli del Ventesimo secolo.

    Chi altri potrebbe essere se non Napoli stessa? Austera orgogliosa, morbida nel suo marmo opulento, corrosa dal tempo e dalla luce, dal fiato del mare; sfiancata dai racconti della gente che tornava a sederle vicino per sussurrarle confidenze indicibili. Marianne, amata dal segreto, commistione egizia di culti misterici, mitologia di un nascosto, invisibile, oscuro gioco di parole che nel secolo rivoluzionario francese alluse à la République; alla giovane donna dal cappello frigio, a Napoli, un secolo prima, sarebbe stata la moglie di un commerciante del Mercato, adocchiata dal duca di Medina Coeli, che non «fuggì come Lucia [manzoniana] tra le sottane dei francescani, ma, invitata a palazzo, rise sulla faccia del viceré e sulle sue profferte»; e quando per vendetta il marito fu arrestato, Donna Marianna di risposta scatenò la rivolta: scese in piazza, aizzò la massa, le carceri furono prese d’assalto; imprigionati i dignitari spagnoli e i nobili napoletani.

    Questa Marianna che si mise contro gli spagnoli combattendo l’Inquisizione: «Letteratura per letteratura quello che si è fatto a Parigi nel 1789, si era fatto a Napoli nel 1647 – per mano di una donna – (del resto) lo stesso Croce collega la nascita dell’Illuminismo francese a quella data, che vide il filosofo comunista Campanella e il fruttivendolo analfabeta Masaniello levare lo stesso rivoluzionario grido di fora baruni!» (A. Bordiga, Il rancido problema del Sud).

    Una testa enorme, avanzo di un corpo, poggiata su un’erma da un pietoso ritrovatore, sistemata in un angolo di piazza Mercato a far compagnia alla città. Questa Arianna napoletana, per metà fatta di mare, filo rosso bollente di memorie partenopee, che sfuggono agli austeri minotauri per finire inghiottite dai loro labirinti.

    Il Risanamento¹ l’ha imprigionata oltre la lunga scala di Palazzo San Giacomo – piazzata oltre il cancello del Municipio dove è impossibile incontrarla – strappandola al mare che già da tempo non esisteva più che nel nome della piccola chiesa allagata di San Giovanni, pietra nera e acqua salata, di memorie di templari e cavalieri rosacrociani in viaggio per la terra di Cristo.

    ’A capa ’e Napule, faccia di sirena fondatrice: Partenope, pensarono in tanti, portata dall’acqua per proteggere i napoletani e i naviganti, quegli stessi pescatori che con appassionata devozione pregheranno la Madonna Bruna. Partenope restituita dai flutti, lasciata a protezione del mare su un lembo di spiaggia; o forse Cibele o Venere, matrona possente dallo sguardo intenso, accenno di figura, metonimia di una splendida madre napoletana, di quelle che trovi a gesticolare per raccontare storie da balcone a balcone. I capelli raccolti, il viso florido, autentica e austera, protettrice, o semplice straordinario incontro da cui non ci si può esimere.

    A lei affidarono, nei secoli, le suppliche e le lacrime, le lamentele e gli affanni; su di lei si avventarono durante la rivolta di Masaniello, adirati, tumultuosi, indispettiti, frantumandole quel naso che solo quattro secoli dopo le sarà con cura ricomposto. Era la testa di piazza Mercato, consolazione di chiacchiere superflue di preghiere necessarie, figura di statua parlante e profetica come avrebbe voluto Bruno; reminiscenza di leggende virgiliane, come la vuota statua di bronzo che a Mezzocannone sibilava (e sibillava) al soffiare del vento «che il volgo senza intendere rispettava come sacra parola» (T. Dalbono).

    Monumenti in pezzi, frammenti scultorei entrati nella vita privata dei napoletani, osservatori privilegiati di questa storia; statue fatate e parlanti, mezzo di contestazione, pasquinate romane e invettive napoletane affidate al corpo pietroso di eterni abitanti.

    Marianna contesa nelle divine cerimonie, negli abbellimenti floreali della festa di Sant’Anna, spostata di fronte alla Chiesa di Santa Maria dell’Avvocata, vestita e riverita di ghirlande nastri e balletti di popolane festeggianti, fusa e confusa con la statua della santa. O più probabilmente ricordi di simboli e di immagini che con la danza e il canto conducono agli dei. Ratio magica di segrete tradizioni tramandate che animano il marmo e la pietra, che sciolgono il sangue e le lacrime che sprigionano profumi e accolgono ritmi arcani di pratiche profetiche ed estatiche.

    Un pomeriggio del settembre del ’54 Giovanni Artieri, Amedeo Maiuri e Augusto Cesare andarono in piazza del Mercato a vedere quello che la guerra aveva lasciato. Poco e niente, "il guasto e la polvere" avvolgevano ugualmente l’arco di Sant’Eligio e la facciata gotica di San Giovanni a Mare. E di fronte il piedistallo di Marianna ‘a capa ‘e Napule era vuoto. Alla colonna appoggiava le spalle una bellissima venditrice di pannocchie bollite, una spicaiola: «Signo’», gli disse, «l’hanno luvata stammatina. Dice c’ha mettono dinte ’o Municipio. Mo ce stongh’io». La Cibele era stata tolta per trovar posto nel Municipio, la popolana ne prendeva il posto, in quella pratica napoletana di fede e blasfemia, di devozione e di superstizione, di gioco religioso che ci fa convivere con gli dèi senza pudore. E intanto lei, Donna Marianna, dalla cima dell’imponente scalone, ha voglia di tornare a consumarsi al sole e all’aria, perduta tra i fiati di salsedine che montano da chissà quale mare, nascosto tra i palazzi e i corpi nelle navi da riparare. Tornare tra la gente, per tornare ad ascoltare. Che in trono su questa scala ci mettano la fotocopia delle Belle Arti confezionata nel 2003, quella che ha preso il suo posto alla chiesa di San Giovanni a Mare. Donna Marianna è come Napoli, non è una reliquia da custodire in un museo.

       3.

    ANNIA PACULLA, LA SACERDOTESSA DI BACCO, UNO SCANDALO ETILICO-EROTICO-RELIGIOSO

    Fiorisce per te ubertosa la campagna nell’autunno pieno di pampini,

    e spuma il mosto nei tipi pieni, qua, o padre Leneo,

    vieni e tolti i calzari tingi con me le tue gambe nude spremendo vino.

    VIRGILIO, Georgiche, II 2-8

    Cantami o diva dei fiumi di Gragnano, del bouquet misterioso dei corsi di Lacryma Christi, cantami del galleggiare come eteree ancelle dei pezzi di percoche squarciate di danzante nettare alcolico, macerate un giorno e una notte, gialle di sole, imporpato amplesso di pesco e melo cotogno, rotonda sfera appuntita. «Haec iuga quam Nysae colles plus Bacchus amavit» (Bacco amò queste colline più delle native colline di Nisa) (Marziale). E come dargli torto?

    Amò i filari di viti che affondano le radici nell’anima del vulcano, succhiando l’ambrosia di millenni di stratificazioni; evocazione del dio, composizione metafisica di tralci di vite e uccelli ingordi.

    Roma non ha gradito la languida terra scossa dal fremito tellurico, dal zolfoso sciato diabolico, non ha gradito l’afflusso bollente di sangue di vino nei notturni deliri mistici.

    Ha giustiziato la sua più bella vestale, mettendo fine al potente culto; vittima sacrificale, agnello pagano per il dio cristiano nell’anno in cui si decide che la fede in Cristo è più comoda alla Res Publica di questo delirio dionisiaco.

    Anno 186 sull’Aventino extra-pomeriale, la città straniera si anima di Osci, Etruschi, napoletani; sul colle più a sud tra i sette, nel popoloso quartiere abitato da plebei arricchiti con il commercio, sacerdoti e artisti, arrivano, dalla lontana Neapolis greca, nuovi e possenti venti di spiritualità. Culti misterici, segreti riti di iniziazione della macchina che ingoia l’adepto nella grotta: la morte fisica apparente che genera la rinascita dell’iniziato. È qui che arrivano prima un indovino etrusco poi una sacerdotessa campana, vestale del dio grappolo.

    A Napoli, nelle notti di San Giovanni, le vergini si fecondavano nella schiuma del Mediterraneo. Secoli prima altre vergini, altrettanto scandalose, preferivano la schiuma di spremute d’uva: nelle mirabolanti gesta erotiche che si animavano lungo il perimetro della Villa dei Misteri, riportati sull’incisione di un fregio narrante dove la sposa attraversa le fasi di iniziazione sotto gli occhi compiacenti di un Bacco gaudente sulla parete di fondo, in compagnia di menadi e satiri.

    Le donne, che non possono accedere al vino perché escluse dalla sfera sacrale, sotto la guida di Annia Paculla, eludono il divieto. Quel nettare puro, bevanda inebriante per eccellenza, assimilato al sangue mezzo simbolo esclusivo della relazione tra gli uomini e gli dèi, adesso è privilegio e dominazione femminile.

    È un affaire di femmine questo dell’Aventino, dove una donna professa il culto che stravolge il sistema religioso attaccando la stabilità di quello politico. "Mos maiorum", sembra bestemmiare un Catone schiumando di orrore e di maledizione: femmine napoletane che escludevano i sacerdoti mediatori, lasciando che la religione si trasformasse in un’intima esperienza privata, di un dio che prediligeva le sue belle amanti condottiere. Alla fine del secolo i Baccanali campani apparivano come una gravissima minaccia al sistema patriarcale romano.

    Pericolose donne iniziatrici; temute madri, come la Paculla, invadono ruoli di competenza maschile, capovolgendo i parametri, iniziando loro stesse i loro giovani figli al dio Bacco.

    Vestali che trasgredivano il dovere della fedeltà, inneggiando alla promiscuità sessuale e sociale: in una fucina di corpi e di spiriti, di matrone e uomini aristocratici, ma anche schiavi e liberti, in un attentato all’endogamia di classe tanto cara ai governanti romani.

    Succede così, che una vedova devota vuole convertire il figlio, ma l’amante prostituta delatrice svela il segreto di questi riti alle autorità, dando inizio a quel processo che smorzerà l’ardore indipendentista delle matrone romane. Donne perbene si fanno baccanti eversive di un dio ginecocratico, fermate dalla foga di una zelante puttana, prima che la possessione del vino e del piacere prendesse il posto del furor guerriero.

    Prima che a combattere contro Annibale non rimanesse che da inviare al fronte giovani belli e molli dei perduti piaceri pompeiani, storditi dalle danze e dai profumi, dai sapori della mystica vannus, sacra vagina, in un tripudio di falli e verghe, apotropaici strumenti di fecondazione.

    Scatta la repressione di migliaia di persone, in maggioranza donne, che finiscono sul patibolo, condannate a morte. Sono salvi i morigerati costumi romani, di una bigotta repubblica che con un colpo di iustitia allontana con grande maestria la concupiscente Pompei.

    Ispala Fecennia è la denunciatrice dello scandalo, la cortigiana che con minuzia di dettagli rivela i passaggi segreti del rito per proteggere il giovane innamorato Ebuzio, a forza costretto dalla madre.

    È la donna invitata a raccontare, guidata alla narrazione da un fitto volare di avvoltoi che tirano e spingono fino a ottenere la versione dei fatti che vogliono, autorizzati a scatenare l’accesa repressione.

    Quanto pathos nella penna del diligente Livio, che descrive scenari apocalittici parlando di «riti segreti e notturni piaceri» del vino e banchetti, promiscuità di uomini, donne e fanciulli, depravazioni e crimini di ogni genere, dalle violenze al plagio di individui costretti a falsi testamenti e false testimonianze («falsi testes, falsa signa testamentaque»), avvelenamenti e uccisioni di parenti.

    È lo storico che insiste a tinte fosche sulla natura clandestina e orgiastica di questi riti, denunciando le depravazioni venute dalla Grecia e dall’Oriente, operanti in Tracia e in Egitto.

    Si ha orrore del potere femminile: la libertina innamorata salva il suo amante e i senatori salvano Roma. A lei è concesso il privilegio di svincolarsi dagli obblighi propri del suo status e di sposare un ingenuus, mentre le altre sono destinate alla punizione, consegnate ai familiari perché siano giustiziate in privato.

    Le donne tornano invisibili, anche nella condanna. I patres le riconducono nell’oblio.

    E poco importa se sul colle a fianco si venera Cerere, la greca dea della terra, che di orge e promiscue pratiche non ha niente da invidiare a Bacco. Non sono più le donne comuni a dare scandalo, è solo una dea.

    CURIOSITÀ

    Il vino e la prova del bacio

    Nell’antica Roma le donne non potevano avere accesso al vino, ritenuto elemento sacro.

    Dionigi di Alicarnasso (seconda metà del I sec. a.C.) testimonia l’esistenza fra le leges regiae, di un antico provvedimento attribuito a Romolo che regolamentava la questione, stabilendo che il marito, d’accordo con il consilium domesticum, aveva l’autorità di mettere a morte la moglie, qualora fosse stata sorpresa a bere vino.

    Alla matrona, proprietaria delle chiavi di casa, era vietato l’accesso alla cantina, e un buon modo per capire se la signora aveva o no infranto la regola era lo Ius osculi, la prova del bacio.

    Alle donne anziane, considerate non più fertili, era consentito bere vina secondaria, surrogati di vini, lora, vinello sapa e defrutum, vini cotti, passum, passito, vino profumato alla mirra. Intrugli che niente avevano a che fare col vino vero e proprio.

    Tutt’altra storia a Pompei: la suavis Calpurnia, di professione faceva la vinaria e gestiva una taberna vinaria; oppure l’ostessa dell’iscrizione, «futui coponam».

    Certo, le donne che servivano ai tavoli delle tabernae erano donne che potevano accedere ai piaceri proibiti, considerate prostitute, al pari delle donne di spettacolo.

       4.

    EUMACHIA, UN’IMPRENDITRICE TOSTA D’ALTRI TEMPI

    Come facesse «quel volto di Madonna a governare quei malannati fulloni, urlanti e puteolenti, non so», si domandava l’archeologo Maturi, mentre girava tra le rovine di Pompei guardando con ammirazione la statua dedicata a Eumachia nell’edificio del Foro, un marmo eretto dai fullones, i suoi operai, che la vollero più giovane, «regalmente composta» nella sua toeletta di gran dama: ispirato ai modelli di statuaria greca con il perfetto ovale del volto «con un’indefinibile espressione di mestizia e di sogno negli occhi profondi» (A. Maiuri), era più vicina a una sposa – degna di figurare in una stele funeraria – attenta morbida figura materna, a cullare il riposo di un figlio in grembo, piuttosto che vederla austero gendarme intento a dirigere un opificio dell’industriosa Pompei.

    Era lei il generalissimo a capo dei fullones, milizie del fresco e pulito, mestiere umile e sporco, ars di servi e liberti costretti a lavorare quasi sempre immersi nella pipì. Era lei l’autoritaria direttrice capace di mettere in riga questi pessimi operai, protagonisti delle commedie satiriche oscene, tintori, pulitori di panni a cui ricorrevano di frequente i cittadini per tingere, pulire e smacchiare stoffe, per operare quella caotica operazione di sbiancamento, impossibile da produrre nelle piccole case private.

    Gente tutt’altro che gestibile e tranquilla. (Guardate per un momento le facce sul dipinto del pilastro della grande Fullonica al vicolo della Casa del poeta tragico, leggete le scritte sui muri o provate a immaginare la nenia: una tiritera ininterrotta da civetta con cui accompagnavano l’eterna pingitura dei panni con i piedi immersi nella tinozza e nella miscela più lutulenta che si possa immaginare, orina di uomini e animali, nelle anfore di terracotta posizionate ai margini delle strade).

    Uomini che aspettavano tutto l’anno il Quinquatrus per abbandonarsi a Minerva, nella più sfrenata licenza (dal 19 al 23 marzo), che si davano a chiassosi bagordi e solenni ubriacature, mettendo spontaneamente in scena le opere che essi stessi ispiravano, liberandosi alle più sfrenate trasgressioni.

    Ecco con chi aveva a che fare tutti i giorni l’imprenditrice tosta del I secolo d.C. Animi inquieti ricchi di satira, capaci di comunicare con i colleghi romani, muro a muro, lanciandosi sfide murales, attraverso i piccoli centri italici, da Pompei, dalla Campania, al basso Lazio, duellando a botta di freddure e battute di spirito, lanciando vere e proprie sfide a colpi di alternis versibus, quelli meno pomposi, e certo pretenziosi di quelli aulici e ufficiali, dei grandi e celeberrimi autografi.

    Solo un fullo, altro che Enea!

    «Fullones ululamque cano, non arma virumque» (CIL IV 9131), scriveva un anonimo, qualche anno prima della distruzione di Pompei, una parodia del celebre verso virgiliano, incidendola sul muro di una fullonica, dove gli eroi non sono più Enea e i compagni, ma i follatori di Pompei e il loro animale totemico, la civetta.

    Si canta la gente comune, quella che i graffiti hanno lasciato a postuma memoria nonostante i secoli. Un graffio sul muro, un appunto d’amore, di protesta o di politica, che la città ha custodito con più cura di un’emeroteca.

    «I lavandai e la civetta io canto, non l’armi e l’eroe».

    Un esametro, che ha il tono della parodia, dove il gioco sta nell’accostare lo stile alto del poema epico e i termini della quotidianità; i lavandai (fullones) e la civetta (ulula).

    E paradosso tra i paradossi, questo assemblaggio di varia umanità è capitanato da una signora che certamente non la mandava a dire.

    Eumachia donna bella e industriosa, fra le donne pompeiane, sotto l’aspetto della vita pubblica sociale, è senza dubbio la prima. Patrona, presidentessa della corporazione più numerosa, più potente, più popolare di Pompei; dei fulloni lavandai di panni che era come dire avere in mano la vita operaia della città. Un’autoritaria imprenditrice che reggerebbe senza difficoltà i destini delle attuali federazioni e dei sindacati di operai. Così danarosa e munifica da poter costruire o ricostruire a sue spese sulla piazza del Foro l’edificio commerciale più importante della città che era al tempo stesso sede della corporazione, luogo di deposito e di vendita dei panni e delle lane che venivano dalle greggi dei vicini monti del Sannio, dell’Irpinia e della Lucania.

       5.

    GIULIA FELICE, IL PRIMO BED AND BREAKFAST DELLA STORIA

    La prima nobildonna pompeiana riapparsa

    sulle iscrizioni graffite sui muri,

    famosa per la bellissima casa che per molto tempo fu confusa

    per un bordello di Venere.

    Voglio ridare la dovuta reputazione a Giulia Felice.

    A. MAIURI

    «In praedis I[uli]ae Sp(urii) f(iliae) Felicis / locantur balneum Venerium et nongentum, tabernae, pergulae, caenacula, ex idibus Aug(ustis) primis in idus Aug(ustas) sextas, anno[s co]ntinuo[s qu]inque.

    S(i) q(uinquennium) d(ecurrerit) l(ocatio) e(rit) n(udo) c(onsensu)».

    Nella proprietà di Iulia Felice, figlia di Spurio, si affittano un bagno degno di Venere e dei cavalieri giudici (di Pompei), botteghe, balconi e soffitte dalle prime Idi di Agosto fino alle seste Idi di Agosto, per cinque anni di seguito. Trascorsi cinque anni il contratto si rinnova consensualmente.

    CIL IV 1136

    Un fraintendimento storico: «[…] balneum Venerium et nongentum».

    A Pompei quando si parla di donne e di Venere vanno tutti in visibilio, anche gli archeologi.

    Giulia era Felice sì, ma non in quel senso. E più che una maitresse tenutaria di bordello fu probabilmente una straordinaria imprenditrice che trovò nel bed and breakfast ante litteram un ottimo modo per superare la crisi d’alloggi dovuta al terremoto del ’62.

    Chi come noi nasce sotto il lapillo, sotto la curva morbida che fa il Vesuvio appoggiandosi in acqua, ha un senso della fine innato con il quale convivere. Un’epicurea percezione del qui e ora, costantemente nella pancia.

    Passare per le vie della Pompei pietrosa è un promemoria unico al mondo. Pompei come Baia, nella città greca che conquistò i vincitori, con la lusinga dei profumi e la morbidezza di inimmaginabili cremosità.

    Pare che in tutta questa storia, un si loca abbia fatto la differenza. In quel si loca gli umanisti lessero sesso e piacere, meretricio d’autore come solo nella città rossa si poteva godere. Ma il fatto era tutt’altro.

    Trent’anni prima dello scoppio del vulcano, un violento terremoto aveva scosso le viscere vesuviane. In molti rimasti senza casa si spostarono nei luoghi vicini, altri cercarono alloggi d’occorrenza.

    Sulla strada, la casa di Giulia veniva dopo quella Casa di Venere dal grandioso dipinto sulla parete di fondo del peristilio. E Giulia Felice, con quel nome di ubertosa bellezza, avrebbe dovuto essere una splendida prostituta in pensione, nel quartiere periferico, in quella casa con bagno e giardino fuori mano con chissà quali segrete voluttà d’alcova. Una donna di piacere (e di potere) che dopo aver goduto e favorito le beatitudini nella città sacra a Venere, considerava fosse arrivato per lei il momento di mettersi in proprio.

    Il malcostume pompeiano era ricaduto su di lei, fraintendendo quel venerium, convertendolo nell’improprio mestiere di intrattenitrice. «Eppure nessuna interpretazione fu più falsa e calunniosa di questa, e nessuna colpa fu più ingiustamente attribuita» (A. Maiuri). Durante il primo ritrovamento tra il 1755 e il 1757 si trovò un documento di locazione per cui: «Nella proprietà Iulia, figlia di Spurius Felix, affitansi bagno elegante per gente perbene, botteghe con abitazione soprastante, appartamenti al primo piano, dal 1° Agosto prossimo fino al 1° Agosto dell’anno sesto per cinque anni. Alla fine del quinquennio il contratto scade».

    Oltre alle tabernae e ai quartierini d’alloggio, all’ammezzato al primo piano, Giulia locava un bagno, un balenum venerium et nongentum, dove era stato facile fraintendere il senso dei due sostantivi: «l’uno (nongentum) s’interpretò come un numerale (novecento) iperbolicamente allusivo all’immenso numero di tabernae che Giulia avrebbe posseduto; l’altro (venerium) s’intese come un termine fin troppo chiaramente allusivo al bagno di una casa di piacere». A spiegare il nongentum ci volle l’autorità di Theodor Mommsen: era un nomignolo prezioso che si dava ai diribitores, agli scrutinatori delle urne elettorali, scelti tra il fior fiore dei cittadini, sinonimo di gentiluomo; e «a spiegare il venerium c’è voluto molto meno, è bastata la mia modesta persona», afferma Amedeo Maiuri, noto archeologo; «balneum venerium equivale semplicemente a un bagno degno di Venere, munito d’ogni comodo: quella perfezione per il corpo e la bellezza degna di una dea e tutte quelle donne con esigenze all’altezza di una dea».

    Quel si loca altro non era che la strategia dell’intraprendente domina che, nel periodo di crisi, aveva deciso di mettere in atto, sub affittando una parte della sua proprietà: l’elegante bagno privato, botteghe e appartamenti, a chi avesse deciso di rimanere in città.

    La crisi degli alloggi delle botteghe degli esercizi pubblici pesava sulla città; pesava soprattutto sulle case ricche dei signori che non sapevano cosa fare dei loro portici e giardini; i più soccombevano e svendevano a mercanti e industriali le loro abitazioni diroccate.

    Giulia non volle perdere, il terremoto aveva sconquassato anche la sua proprietà, e da vera imprenditrice che cavalca il business, aveva pensato di rimettere tutto a nuovo: l’aveva ingrandita e abbellita, e ora cercava di rientrare delle spese e ricreò il paesaggio selvaggio e roccioso sacro al dio Pan e i giardini delle accademie filosofiche greche.

    Le terme pubbliche erano chiuse e in rovina; la palestra e la natatio, con la sua grande piscina da nuoto restava all’asciutto; e lei non esitò a trasformare il più bel pezzo della sua abitazione in un bagno da fargli concorrenza. Così riccamente allestito da poter accogliere Venere stessa con il corteo delle Grazie.

    La nostra imprenditrice, dopo aver affrontato la crisi edilizia, dopo aver trasformato gran parte della sua casa signorile in bagno e case d’affitto, «aveva messo il suo bravo appigionarsi sulla porta d’ingresso e aveva atteso che un locatario si presentasse al liberto procuratore per il contratto da firmare su un trittico di tabulae ceratae munite delle firme di testimoni fededegni e dei suggelli d’uso».

    E la immaginiamo così, perfetta padrona di casa, attenta che le stanze siano pulite, i calici colmi di vino, che l’acqua fluisca abbondante dalle fontane. «[…] la prima nobildonna riapparsa in quei gran registri dell’anagrafe pompeiana che sono le iscrizioni dipinte o graffiti sui muri, la quale seppe farsi la casa così ricca e adorna di belle sculture e pitture da darmi il gusto di riscoprirla dopo poco meno di due secoli dalla settecentesca, prima scoperta» (A. Maiuri).

       6.

    SANTA CANDIDA LA VECCHIA, UNA LAVANDERIA PER LE ANIME

    I mentovati pregi son belli ma assai più degno e più bello

    quel vanto si fu di essere stata ammaestrata

    come porta la tradizione che non é meno autorevole della storia nella cristiana religione da principi degli Apostoli Pietro e Paolo.

    G. BUGNI

    San Pietro ad Aram te la trovi a incrociare la curvatura a sesto di via Santa Candida.

    Te la trovi percorrendo il caotico corso Umberto I (il Rettifilo), arteria scombinata un passo dopo la stazione.

    Arrivava a Napoli, Pietro, il primo papa, a nove anni dall’Ascensione del Cristo, diretto a Roma con polle di acqua benedetta, desideroso di celebrare qui, nella terra greca, la sua prima messa.

    L’attesa vinosa, conversione di sangue, si compiva sull’Ara che divenne Petri, già tempio di Apollo, trovando nella transustanziazione del mosto la vorticosa conversione della anime; ad Aspreno fu dato il compito di offrire il cruento sacrificio dell’agnello immacolato, mentre Candida custodiva per l’apostolo i primi segreti della nuova fede, ricevendo il battesimo e la cristiana purificazione.

    Donna seniora la lavandaia, che immergeva le anime logore nel fiume del purgatorio per restituirle lustrate e pure, intenta nell’opera di purgazione, mentre sciorinava i sudari dei nuovi fedeli nelle catacombe per mondarne i peccati.

    La ristoratrice delle anime in pena, «leggende bretoni delle lavandaie della notte, anime purganti che si mondano dei propri peccati» (M. Niola) filastrocche popolari e «belle lavanderine che lavano i fazzoletti per i poveretti della città».

    Undici anni dopo, nel ’53, Pietro era tornato a Napoli per fare della pagana pietra l’altare benedetto, fondando la basilica di San Pietro ad Aram, investendo sant’Aspreno del titolo di primo vescovo di Napoli, lasciando ai napoletani il proprio bastone e una costola di san Paolo da venerare.

    Su quello stesso altare celebreran+no messa altri vescovi, da san Silvestro I, san Pelagio, san Gregorio Magno e san Nestoriano, l’africano sbarcato a Napoli insieme a san Gaudioso.

    Sotto la presunta cappella di Santa Candida fu trovata una cameretta vuota con un’immagine malconcia, illuminata un tempo da una lampada, dove una brocca di terracotta potrebbe aver contenuto l’acqua santa del primo battesimo. Una scalinata, sul lato opposto, conduce nella camera sotterranea, il suo oratorio privato, o più probabilmente l’antica chiesa paleocristiana divisa in tre navate. La tradizione vuole che la santa abbia abitato la cripta sottostante la chiesa, dove un’iscrizione ricorda il ritrovamento delle sue spoglie nei pressi di un antico pozzo, assieme ad altri sei resti anonimi. Resti che nel tempo furono venerati, anime senza identità dimenticate nel Purgatorio.

    È in questa chiesa che si adottano ’e cape e muort², protette da pannelli di legno, anime antiche, pezzentelle; petenti che la preghiera l’arrifrisca³, mentre giacciono nel Purgatorio, in attesa del giudizio estremo.

    Una folla anonima e sterminata di spiriti dolenti che popolano le profondità del suolo e dell’anima della città, cuore pietoso della religiosità popolare, anime strappate alla vita «senza congedo, senza conforto» (M. Niola), riconducibili a crani e resti umani ignoti, che popolano gli ipogei di alcune chiese, o antiche grotte-ossorio. Nell’ipogeo di San Pietro ad Aram l’anima più venerata resta Candida, come Lucia, la principessa del Purgatorio ad Arco o il Cavaliere per Santa Maria alla Sanità.

    Anime pronte a ricambiare le preghiere con i miracoli. Ma se la prima devota napoletana di Cristo riposa in questo ricovero paleocristiano, per vederne il volto

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