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La grande vergogna: L’Italia delle leggi razziali
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E-book231 pagine3 ore

La grande vergogna: L’Italia delle leggi razziali

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Italia, 1938: è l’anno della vergogna. Dopo il Manifesto della razza e il censimento della popolazione ebraica è la volta delle leggi razziali. In pochi mesi è un susseguirsi di lesioni gravissime ai diritti fondamentali degli ebrei. Le leggi razziali incidono sulla possibilità di sposarsi, di iscrivere i figli a scuola, di lavorare e fare impresa, di possedere terreni e fabbricati e via seguitando. Tutto ciò prepara le persecuzioni del fascismo e dell’alleato nazista, fino all’olocausto. Ripercorrere – come fa questo libro – quelle scelte e le loro conseguenze, le teorizzazioni sulla razza, le reazioni dell’opinione pubblica, le diffuse sottovalutazioni anche delle comunità ebraiche è un’operazione di verità che serve a ricordare – per usare le parole di Liliana Segre – che «il fascismo fu violento, omicida, razzista e discriminatorio sin dalle origini, sicché le leggi razziali del 1938 si rivelarono come la conseguenza di un movimento per sua natura totalitario».
LinguaItaliano
Data di uscita19 giu 2019
ISBN9788865792117
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    Anteprima del libro

    La grande vergogna - Carlo Brusco

    emigrò.

    I. Il fascismo e gli ebrei dagli anni Venti al 1938

    1. La nascita del fascismo e gli ebrei

    A differenza di quanto avvenuto in Germania, dove la caratterizzazione razzista e antiebraica del partito, e poi del regime, nazista, fu subito evidente¹, i movimenti nazionalisti da cui il Partito nazionale fascista (Pnf) ebbe origine, non avevano, per lo più, un orientamento di questa natura. In ogni caso non l’ebbe inizialmente il Pnf, che continuò a non essere caratterizzato in senso antisemita per diversi anni anche se, all’interno dei movimenti che ne costituivano la base culturale, erano presenti varie tendenze di questo tipo.

    A dimostrazione di ciò può rilevarsi che:

    – il numero di ebrei che partecipò alle fasi iniziali del movimento fascista fu non irrilevante: 5 risultano tra i cosiddetti sansepolcristi, cioè i fondatori dei Fasci di combattimento; 3, morti negli scontri con i socialisti, furono dichiarati Martiri della rivoluzione; 230 parteciparono alla Marcia su Roma; circa 750 risultavano iscritti, nel 1922, al Pnf o al partito nazionalista (poi confluito nel primo);

    – numerosi professori universitari ebrei aderirono al partito fascista anche prima della presa del potere (un nome per tutti: Giorgio Del Vecchio);

    – vi furono manifestazioni di adesione anche da parte della comunità ebraica: il rabbino di Genova (Giuseppe Sonino), per esempio, inviò una lettera di felicitazioni a Mussolini per l’esito positivo della Marcia su Roma ottenendo, pochi giorni dopo, una risposta autografa molto compiaciuta;

    – tra i finanziatori del movimento fascista ci furono diversi ebrei tra i quali Elio Jona, Giuseppe Toeplitz nonché alcuni latifondisti amici di Italo Balbo²;

    – del primo Governo Mussolini fece parte, come sottosegretario, l’ebreo Aldo Finzi, divenuto anche membro del Gran consiglio del fascismo (poi morto alle Fosse ardeatine dopo essere entrato nella Resistenza) e il medesimo Governo nominò vicecapo della polizia Dante Almansi, della stessa origine;

    – Maurizio Rava, anch’egli ebreo, ricoprì nel tempo le cariche di vicegovernatore della Libia, governatore della Somalia e generale della milizia fascista;

    – nel 1934, a Torino, fu fondato un giornale (La nostra bandiera) diretto a rinsaldare i rapporti tra la comunità ebraica e il regime dopo che due ebrei erano stati fermati alla frontiera mentre cercavano di introdurre in Italia materiale di propaganda antifascista³.

    Anche dal punto di vista culturale, a parte i fanatici polemisti già indicati, non vi fu mai un’elaborazione dell’antisemitismo e in Italia non ebbe – neppure negli anni delle leggi razziali – una diffusione paragonabile a quella di altri Paesi europei il documento, falso, denominato I Protocolli dei Savi anziani di Sion che fornì, altrove, il pretesto per la persecuzione degli ebrei che, secondo quel documento, avrebbero avuto la volontà di dominare il mondo⁴.

    2. La disciplina delle comunità israelitiche nel 1930

    Pochi mesi dopo l’entrata in vigore del concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica il regime disciplinò anche l’organizzazione e il funzionamento delle comunità ebraiche con il regio decreto 30 ottobre 1930 n. 1731 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio 1931 n. 11) che diede una disciplina omogenea ai rapporti tra le comunità ebraiche e lo Stato italiano ancora regolati da provvedimenti parziali, geograficamente limitati e addirittura stipulati da comunità che, all’epoca dell’introduzione della disciplina concordata, neppure facevano parte del Regno d’Italia⁵.

    Questo provvedimento, in parte ispirato al concordato con la Chiesa cattolica, conteneva una disciplina molto precisa del funzionamento delle comunità israelitiche e dell’Unione delle comunità, un organo che le rappresentava tutte e aveva compiti amplissimi. Merita segnalare la previsione che la scelta dei componenti delle comunità e dell’Unione avvenisse con elezioni democraticamente indette e svolte.

    All’approvazione del provvedimento si pervenne in esito a trattative con le comunità ebraiche, le quali si dimostrarono particolarmente soddisfatte degli accordi anche se oggi quel giudizio non è da tutti condiviso: diversi studiosi hanno sottolineato come in realtà fosse stata formalizzata l’ingerenza dello Stato nella vita delle comunità stesse (che peraltro vedevano riconosciuti diritti mai formalizzati normativamente anche nelle più evolute democrazie liberali)⁶.

    Basti pensare che, in base all’art. 36 lett. b, all’Unione delle comunità israelitiche veniva riservato il compito di «provvedere alla conservazione delle tradizioni ebraiche e al soddisfacimento dei bisogni religiosi generali degli israeliti italiani» e che la successiva lett. c attribuiva alla medesima Unione il compito non solo di provvedere alla conservazione del patrimonio storico, bibliografico e artistico, ma altresì di divulgarne la conoscenza e «promuovere l’incremento della cultura ebraica». Insomma il provvedimento aveva certamente intenti dirigistici ma trovare in esso i prodromi della successiva discriminazione e persecuzione sarebbe proprio eccessivo, non essendosi mai visto che chi intende perseguitare una collettività si impegni a promuoverne la cultura⁷.

    3. Lo sviluppo dei rapporti tra regime fascista ed ebrei

    Questi rapporti, che possiamo tutto sommato considerare normali (anche se non vennero mai messe a tacere le voci antisemite più estreme), proseguirono negli anni successivi. Ancora nel 1932 Mussolini nominò ministro un ebreo (Guido Jung) e non a un ministero di scarsa importanza: Jung fu ministro delle finanze fino al 1935 quando venne esautorato non per la sua origine ebraica ma per divergenze programmatiche, tanto che, subito dopo, partì volontario per la guerra d’Etiopia. A dimostrazione del rilievo che Jung ebbe nel Governo fascista, va ricordato che nel 1933 fu promotore, insieme all’economista Alberto Beneduce, che ne diverrà presidente, della nascita dell’Iri. Inoltre, fino al 1938 (!), ricoprì la carica di podestà di un’importante città (Ferrara) un ebreo. Anche se, in questo caso, la vicenda fu condizionata dalla circostanza che l’interessato, Renzo Ravenna, era amico personale di Italo Balbo (notoriamente contrario alle leggi razziali ma silente). Ravenna sarà poi costretto, nel 1943, a fuggire dall’Italia in Svizzera insieme ai familiari per sfuggire alla deportazione⁸.

    Dal censimento indetto il 22 agosto 1938, alla vigilia dell’approvazione dei primi provvedimenti razziali, risultò che su 47.252 ebrei italiani censiti ben 10.125 erano iscritti al Pnf.

    L’atteggiamento del regime, dei suoi esponenti e dello stesso Mussolini nei confronti dell’ebraismo fu sempre ambiguo e contraddittorio ma, nei primi anni successivi alla presa del potere, complessivamente si distinse per posizioni quanto meno neutrali rispetto alle derive antisemite e antiebraiche, nonostante alcuni momenti critici come il conflitto che contrappose, a Tripoli nel 1923, settori fascisti alla locale comunità ebraica (peraltro ricomposto con la visita al quartiere ebraico, pochi mesi dopo, del ministro Federzoni accompagnato da Italo Balbo e dal conte Volpi)⁹. Negli anni 1926-27, poi, i rapporti tra regime fascista e comunità ebraica subirono un netto miglioramento (anche le iscrizioni di ebrei al partito fascista aumentarono) tanto da addivenire, appunto, al regio decreto n. 1731/1930¹⁰.

    Certo non mancarono rilevanti e oscure vicende economiche con elementi di natura antisemita, come quella della Banca Commerciale Italiana e dei fratelli Perrone, proprietari dell’azienda Ansaldo¹¹, ma si trattò di casi in cui il problema razziale venne strumentalmente utilizzato ad altri fini. Così come non mancarono episodi di violenza fascista nei confronti di istituzioni ebraiche o luoghi che si presumevano gestiti o frequentati da ebrei: basti ricordare, nel novembre 1926, dopo un attentato a Mussolini, la devastazione, a Padova, della sinagoga e del caffè Pedrocchi ritenuto frequentato da una classe abbiente prevalentemente ebraica¹².

    Quando, nel 1931, il regime impose ai professori universitari il giuramento di fedeltà solo tre dei dodici che rifiutarono di prestarlo erano ebrei (Giorgio Errera, Giorgio Levi della Vida, Vito Volterra)¹³. A conferma della scarsa rilevanza di questa presenza tra i firmatari basti ricordare che, nel 1938, i professori universitari ebrei espulsi dall’insegnamento – che, si presume, avevano prestato il richiesto giuramento (anche perché obbligatorio) – furono complessivamente oltre 400 considerando anche assistenti e liberi docenti¹⁴.

    Un altro elemento va rilevato. Il regime fascista e Mussolini personalmente intervennero nei confronti del regime nazista e di Hitler, pur senza ottenere alcun risultato, per tentare di attenuare l’impatto dei provvedimenti razziali emessi nel 1933¹⁵. Comunque, le autorità italiane, e quindi il regime fascista (ormai indiscusso e unico detentore del potere), autorizzarono formalmente l’espatrio in Italia degli ebrei tedeschi oggetto delle leggi di discriminazione (purché non intendessero svolgere attività politica contraria al regime) e i numeri di questa immigrazione non furono irrilevanti¹⁶. In questa fase iniziale, in cui prevaleva una visione conciliativa, Mussolini prese anche contatto con esponenti della comunità ebraica italiana invitandoli a operare nei confronti dei loro correligionari tedeschi per convincerli ad assumere un atteggiamento neutrale nei confronti del regime nazista¹⁷.

    Sulle ragioni che inducevano il movimento fascista a un atteggiamento neutro nei confronti dell’antisemitismo, pur presente nella galassia dei movimenti nazionalisti e di quello fascista in particolare, sono state formulate varie ipotesi. Si è detto che «il fascismo si considerava erede di una visione spiritualistica della nazione mutuata dal mazzinianesimo e dalla tradizione risorgimentale» e, per altro verso, si è sottolineato che una politica antisemita avrebbe indebolito il «processo di nazionalizzazione delle masse, di cui il fascismo si era fatto promotore»¹⁸. Si tratta di un tema aperto e non mancano le voci che valorizzano invece i segnali che, ben prima del 1938, lasciavano presagire un’evoluzione dichiaratamente antiebraica del regime fascista¹⁹.

    4. Fascismo e movimento sionista

    L’atteggiamento del regime nei confronti del movimento sionista – che, già negli anni precedenti al 1938, aveva provocato gravi crisi che avevano coinvolto gli esponenti ebrei più legati al regime²⁰ – fu ambivalente e contraddittorio.

    Originariamente Mussolini si era addirittura lasciato andare a manifestazioni di apprezzamento per le prime realizzazioni della realtà sionista in Palestina. Successivamente si era invece verificata un’intensa e lunga polemica, sviluppatasi nel 1934, nella quale furono coinvolti numerosi esponenti della comunità ebraica e dei movimenti fascisti oltranzisti che già assumevano una connotazione antiebraica (e non solo antisionista come apparentemente si presentavano). Dopo le sanzioni applicate all’Italia nel 1935 per la conquista coloniale dell’Etiopia (sanzioni che Mussolini – a dimostrazione che la natura dei rapporti tra ebrei e fascismo non era all’epoca conflittuale – cercò di evitare anche incaricando esponenti ebrei di operare un’azione di convincimento nei confronti di appartenenti al sistema di governo del Regno Unito), il regime fascista manifestò più volte simpatia nei confronti del sionismo in Palestina (regione sotto il controllo britannico) in funzione anti inglese. In sintesi può condividersi la ricostruzione che di questi orientamenti viene fatta da De Felice, che evidenzia un atteggiamento di simpatia di Mussolini verso i movimenti sionisti non italiani e una netta avversione ai sionisti italiani, non ritenendo concepibile che un italiano avesse anche una seconda patria (orientamento peraltro che contraddistingueva anche gli orientamenti prevalenti nelle comunità ebraiche italiane)²¹.

    Ma anche questo atteggiamento di simpatia venne meno quando, nel giugno del 1936, Mussolini diede una svolta filotedesca alla politica estera con la nomina a ministro degli esteri di Galeazzo Ciano in sostituzione di Fulvio Suvich (che aveva compreso la natura espansionistica tedesca). Da quel momento in poi si verificò un disinteresse dell’Italia per il movimento sionista e una propensione filoaraba della politica estera italiana.

    5. La svolta del 1936

    Le polemiche antiebraiche e antisemite ripresero vigore nel 1936 soprattutto su iniziativa del giornale Il regime fascista diretto da Roberto Farinacci che pubblicò alcuni articoli violentemente antisemiti accusando gli ebrei italiani, in buona sostanza, di essersi sempre comportati bene ma non per amore bensì «per timore o per utilit໲².

    Inoltre gli ebrei italiani erano accusati di non aver contrastato adeguatamente l’Internazionale ebraica che si era posta alla base della formazione dei Governi comunisti e alla guida delle forze antifasciste nella guerra civile spagnola. In questa polemica fu strumentalmente utilizzato un episodio, verificatosi due anni prima, nel quale due giovani ebrei aderenti a Giustizia e Libertà (Sion Segrè e Mario Levi) erano stati fermati alla frontiera mentre tentavano di introdurre in Italia materiale di propaganda antifascista destinato agli aderenti italiani del movimento. L’arresto era stato poi esteso ad altri appartenenti all’organizzazione (Attilio, Giuliana e Marco Segre; Riccardo, Carlo, Giuseppe e Gino Levi; Carlo Mussa Ivaldi Vercelli; Leone Ginzburg e altri)²³, diversi dei quali ebrei.

    Gli ebrei fascisti non rimasero inattivi di fronte a questa offensiva antiebraica e fondarono, nel 1934, un giornale (La nostra bandiera) che continuò per molti anni nell’impresa di dimostrare che gli ebrei erano fedeli alla causa fascista²⁴.

    Dopo una fase di stasi la polemica antisemita riprese vigore, nel 1937, con la pubblicazione di un noto libro di Paolo Orano dal titolo Gli ebrei in Italia. Perché è importante questo pamphlet molto pubblicizzato anche sulla stampa quotidiana dell’epoca? Perché, oltre alle consuete accuse agli ebrei e a una fermissima presa di posizione contro il sionismo e i movimenti sionisti, conteneva, forse per la prima volta, un violento attacco agli ebrei fascisti chiedendo loro di rinunziare a ogni qualificazione ebraica legata alle loro attività e qualità. Orano ricostruiva le origini del cattolicesimo nella civiltà romana rifiutandone ogni ascendenza ebraica e affermava che la differenza degli ebrei con gli altri italiani poteva essere solo religiosa mentre non potevano esistere avvocati ebrei, associazioni sportive ebree ecc. Gli ebrei, se volevano continuare a convivere con gli italiani, potevano essere solo fascisti e dovevano dissociarsi apertamente dai loro correligionari europei quando questi assumevano posizioni antifasciste²⁵. Di più, dovevano cessare di aiutare i profughi

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