SchizzodiVino (Pomanzo Rosso)
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Info su questo ebook
Dopo aver discusso animatamente con il suo coinquilino-telespettatore soprannominato Occhio di Bue, il protagonista decide di uscire e di andare a passare la serata al baretto del paese. Qui, al bancone, tra una bevuta e l’altra, sempre più ubriaco, assiste all’entrata in scena di una serie di personaggi strampalati, uno più memorabile dell’altro. Personaggi esilaranti che gli consentono di scagliare le sue penetranti invettive alcoliche, talvolta in rima, contro ciò che ognuno di loro impersona.
Ragionamenti interiori con tocchi di canzonetta e di poesia. Boutade consapevolmente e volutamente eccessive.
Un romanzo originale e divertente, ricco, irriverente, rabbiosamente avvinazzato, che muove anche un’intensa riflessione sull’importanza delle radici e della propria terra, sulla scelta di vivere in un paese piccolo in grado, però, di offrire una chimera di genuina umanità, anche se alla fine potrebbe rivelarsi solo frutto di una notte di mezza sbornia.
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Anteprima del libro
SchizzodiVino (Pomanzo Rosso) - Armando Dinella
cent’anni!
1
A casa
Ero lì, seduto con stile scomposto, su una vecchia sedia di paglia sfibrata, infradiciata, con un gomito spalmato su un grande tavolo di legno di quercia, levigato dal tempo, dalle parecchie mani e dalle tante stoviglie scivolateci sopra miliardi di volte, come sciatori in pista senza freni.
La testa giaceva abbandonata sul palmo della mano, quasi come stessi sognando, assopito in chissà quale realtà parallela.
La mente viaggiava con passo tremendamente spedito e, durante il tragitto, era andata in fuga, seminando il mio corpo, staccandolo con un taglio secco, in un impeto di giusta e sana follia.
Uno sguardo fisso nel vuoto: un vuoto a tratti chiaro e vacante, a tratti scuro e pieno. Tratti dettati dalla presenza di una bottiglia dinanzi ai miei occhi. Una bottiglia, smezzata, di vino nero.
Oînos, Sua Maestà Vino: quella bevanda sanguigna che accompagna la vita dei popoli più caldi e passionali da tempi indeterminati; quella forza tracia che rende l’uomo virile, che assorbe ogni immane fatica rendendola quasi leggera. Il vino capace di spingere un minuscolo essere ad azioni impensabili, a vittorie insperate, ai più focosi amori, a verità urlate in faccia ai bigotti, sputate in faccia agli ipocriti; quel vino capace di spingere e far crollare giganti possenti con un soffio leggero, di far cadere in basso i più alti, di far girar la testa ai più esperti equilibristi.
E a volte ecco che cado anche io. Non perché non regga il vino. Piuttosto penso che sia lui che, in determinati frangenti, non riesca a reggere me. D’altronde io sono un tipo pesante.
E allora inciampo!
Ah, il vino!
Un equilibrio sottile e delicato, che sfiora sempre la virtù e tocca spesso l’eccesso.
E rieccomi qui, con gli occhi puntati come due lampadine fulminate sulla bottiglia.
I miei istinti primordiali e la mia sete mi riportarono, per qualche istante, a quel tavolo e a quella bottiglia, tornati a essere semplici oggetti da adoperare e da gettare via al termine della loro utile funzionalità.
Osservavo la parte scolma, evaporata chissà in quale mio umore vitale, e tutto mi sembrava fin troppo reale e triste, nullo e senza senso, negativo e vacante. Poi, fortunatamente, il mio senso visivo venne attratto dalla fascia vitale della bottiglia: quella fascia calda e tinta, oscura e misteriosa, ancora da completare, da finire e definire, da annusare e assaporare all’infinito. E allora, come quando uno squarcio di luce filtra tra il nero livido di fine tempesta, la realtà cambiò forma e senso e la speranza e la fantasia mi invasero. L’allegria mi conquistò, perché sentivo di poter far tutto fino alla fine, fino a poter raggiungere quello stato di tranquillità e calma, di spensieratezza, quel nirvana che accompagna il termine di ogni grande fatica, quella pace che è premio finale a ogni battaglia affrontata con ardore.
Cercai, quindi, di assassinare quella mezza bottiglia di vino, prendendola per il collo, strozzandola e strizzandola nel mio calice piangente, per riempirlo fino all’ultima goccia. Ma il nettare era ancora troppo e finii per arrendermi, abbandonando, come un pugile sconfitto ai punti, la bottiglia, ancora viva, sul tavolo.
Quel nettare era forte e duro. Era Aglianico puro. Ogni sorso sentivo scorrere la mia Terra nel mio sangue, come in una perfetta e immortale simbiosi. Un fluido ideale, un fiume così scuro da far impazzire la notte, così denso da riuscire a bloccare ogni cattivo pensiero, così viola da sconsigliare a tutte le più belle spose, così ruvido e vero da far rinascere, in ogni uomo, quel primitivo e innato legame alla Madre Terra. Non un vino antropomorfico, falso come tutto il mercato che contamina il mondo. Non un’essenza modificata, imbellettata, truccata come una donna da affari scoperta sottocoperta, ma un vino vero, capace di trasmettere il senso di fatica, di prendere a schiaffi ogni singola papilla gustativa, capace di svegliarci da questa nube elettrosoporifera che ci sopprime e ci mantiene in uno stato di tilt continuo, irreparabile.
Io voglio che l’Aglianico sappia di Aglianico,
che il rosso sia rosso,
che l’uomo sia uomo,
che due più due sia tre!
Spogliamola questa dannata realtà!
Ritornai al bicchiere, nuovamente pieno. Ne ero felice, ma la bottiglia era quasi finita, agonizzante sul tavolo, quasi implorante il colpo finale che, con calma e passione, le avrei assestato di lì a poco.
Presi il mio moderno, piccolo, sofisticato e poco elegante corno potorio, lo portai alle labbra e versai pian piano, gustandomi un altro eterno e caldo fluire nel mio corpo.
Tutto scorre, soprattutto il vino!
Sempre lo stesso fiume, mai lo stesso letto!
Soddisfatto di ciò, ripresi a masticare strani e incomprensibili pensieri.
Ed ecco che, da quel punto strategico situato tra gli occhi e la parte superiore del naso, da quel terzo oculo che nessuno ha mai avuto e che alcuni tentano di forzare invano, vidi muoversi la coda di qualcosa, vidi scivolare via un treno: un treno in partenza, lunghissimo, lentissimo, contrario ai principi dell’alta velocità.
Perché noi tutti lo sappiamo, ma lo nascondiamo: chi va veloce muore precoce!
Come tanti gatti che corrono all’impazzata, con le code fumanti e bruciacchiate, cercando di spegnere un fuoco alimentato dal vento della loro stessa fuga, così noi corriamo svelti nei nostri pezzi di metallo a quattro ruote: queste macchie di petrolio che schizzano opere d’arte moderna e fasulla sulle tele dell’asfalto bollente e appiccicoso; così noi corriamo, con l’illusione di anticipare il tempo, di accorciare tutto, di eliminare i minuti, di fare il pacco a dio Kronos. Noi che abbiamo voluto superare anche la luce e ora rischiamo di rimanere al buio. Noi e questa dannosa mania di cronometrare tutto. Noi e la psicosi tutta occidentale di dover per forza vincere, di dover raggiungere il nulla prima degli altri.
Ansia da prestazione e psicologi da baraccone.
E allora viva i secondi!
Viva chi arriva sempre secondo nella vita! D’altronde, l’essere primi, è solo una questione di secondi.
Viva i secondi, quelli del tic-tac del tempo, quelli da vivere lentamente, uno a uno, senza eliminare nulla, nemmeno quelli di ritardo, nemmeno quelli infiniti del dolore!
Veloci come il vento?
Impossibile!
Il vento: libero, forte, leggero.
Noi: prigionieri, deboli, pesanti.
Io vorrei essere lento come un fiocco di neve che cade dal cielo e che, nella sua assoluta tranquillità, riesce ad arrivare a terra, senza schiantarsi per la furia, ad appoggiarsi sofficemente dappertutto, per riposare un po’ dopo il lungo viaggio, e a coprire, appiccicandosi con calma, tutto il mondo.
Il treno dei miei pensieri camminava senza seguire la monotonia parallela dei binari, senza