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Strange Activity - Maria
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E-book256 pagine3 ore

Strange Activity - Maria

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Info su questo ebook

La Strange Activity è un’agenzia investigativa specializzata in occulto.
A capo dell’attività, Angelo Strano risolve i casi più inspiegabili insieme alla sua assistente e coinquilina Vera, anche grazie al Disegno, un dono (o maledizione?) che gli permette di vedere la morte delle persone con cui entra in contatto. Questa volta, però, Angelo ha visto morire proprio Vera, e per mano di Dario, suo migliore amico. Combattuto tra il credere o meno alla visione, sarà costretto a fare i conti con il Disegno. E con la sua ineluttabilità.
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2020
ISBN9788898585847
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    Anteprima del libro

    Strange Activity - Maria - Fabrizio Cadili / Marina Lo Castro

    Fabrizio Cadili

    Marina Lo Castro

    Strange Activity - Maria

    Parte prima

    La folla turbinava come un ciclone.

    Appena fuori dal vicolo ne era stata circondata, e da allora osservava rapita il via vai di gente intorno a lei. Mai, nel breve periodo di libertà vissuto, si era trovata in mezzo a una tale calca. La città pullulava sempre di persone, ma a quell’ora della sera pareva che ogni abitante della zona avesse deciso di scendere in strada per sbrigare le proprie faccende.

    Aveva trascorso gran parte delle sue serate a fissare una macchia indistinta di buio spezzata dalla luce lunare. Erano rari i momenti in cui, con un pizzico di fortuna, intravedeva un insetto zampettare o una volpe sgattaiolare furtiva con una preda in bocca.

    E invece adesso poteva ammirare uno spettacolo incredibile.

    Alcuni umani camminavano a passo lento e rilassato, spesso in compagnia di una persona dell’altro sesso o di bambini. Altri invece si muovevano senza guardarsi intorno, a testa bassa, concentrati su aggeggi luminosi stretti in mano, incuranti della bellezza attorno a loro.

    Come si poteva ignorare il piacere della comunicazione? Come fare a meno di un semplice contatto visivo?

    Soltanto quelli come lei potevano conoscere l’orrore di una solitudine senza fine.

    Solitudine alla quale, si ripeté ancora, non sarebbe mai più tornata.

    Avrebbe continuato a fissare il caos delle vie per ore, se solo il pericolo non le alitasse sul collo.

    I suoi carcerieri la inseguivano già da qualche giorno, e fino a quel momento era riuscita a sfuggirgli. Era stato facile: al contrario di quelle vecchie rocce, lei era giovane, sveglia e con la piena intenzione di restare libera.

    Ecco perché non doveva commettere la leggerezza di distrarsi.

    Malgrado l’aria fredda, la pietra sotto i suoi piedi scalzi era calda e viva. Furiosa era il termine giusto, nonostante fosse indurita da secoli. Socchiuse gli occhi, si concentrò e attese. I movimenti che percepì furono centinaia, migliaia, ma tra loro non vi era il tamburellio allarmante già avvertito troppe volte.

    Gli inseguitori erano lontani.

    Bene, in qualche modo li aveva distanziati.

    Mosse un passo, un altro e un altro ancora, sempre più veloce. Doveva sfruttare il vantaggio, continuare a fuggire e intanto pensare a un modo per liberarsi definitivamente dal guinzaglio invisibile che sentiva stretto al collo.

    Si immerse nel fiume di umani e continuò a muoversi. Confondersi tra loro era una strategia che l’aveva aiutata diverse volte, e sperava che avrebbe continuato a rivelarsi fruttuosa. Sì perché l’ultima volta che aveva percepito i carcerieri, tra loro era certa di aver riconosciuto il Gerarca. Era il più anziano della sua Tribù, furbo, e con un vasto bagaglio di esperienze accumulato grazie a una lunga vita.

    Nonostante la rassicurazione ottenuta dalla percezione della pietra, si voltò verso il vicolo dal quale era giunta. Grazie agli Avi, vide solo un cane troppo pigro per spostarsi dal centro della strada e due ragazzi avvinghiati tra loro.

    Rimase incantata dai gesti di questi ultimi, da come la mano di lui carezzava la guancia della compagna, mentre le loro labbra sembrano lottare.

    Sospirò, immaginando di essere lei a venire sfiorata, di poter affondare le dita nei capelli del cavaliere misterioso che aveva sognato tante volte di incontrare.

    I sogni, però, si interruppero di colpo quando avvertì qualcosa sbatterle contro.

    Si voltò e capì che, avanzando senza attenzione, aveva urtato un ragazzo. Era biondo, indossava un giubbotto dai colori vivaci e jeans strappati. E dopo la sua spinta involontaria era crollato a terra, dolorante a una spalla.

    Cazzo mi è arrivato addosso, un treno?

    Sì, un camion con una carrozzeria niente male sghignazzò l’amico accanto a lui, una sua versione bruna.

    Non c’hai da ridere, mi sono fatto malissimo.

    Lei arretrò di un passo, colta di sorpresa dalla situazione. La prima regola della sua Tribù era non fare del male agli umani.

    E dire che sei bello grosso continuava il ragazzo in piedi. Che ci vai a fare in palestra? A gonfiare i muscoli con l’aria compressa?

    Un altro passo indietro e si sarebbe mischiata tra la folla, tornando un’anonima figura tra tante. Il bruno, però, continuava a fissarla.

    Scusalo le disse. Il mio amico ha gli occhi solo per controllare i lacci delle scarpe.

    Ridacchiò e lei stiracchiò un sorriso. Era una battuta? Doveva ridere?

    Ti senti bene?

    Dischiuse le labbra e provò a formulare una risposta. Le risultò più difficile di quanto immaginasse.

    Da quanto non parlava? Aveva il terrore di non ricordare più dove appoggiare la lingua ai denti per modulare i suoni.

    S-sì farfugliò dopo diversi tentativi.

    Il biondino si rimise in piedi e alzò la mano con la quale si era massaggiato la spalla. Colpa mia, è vero. Non guardo mai dove vado. Ho troppi pensieri per la testa.

    Forse troppi capelli, ma pensieri… rise l’altro.

    E intanto continuava a guardarla, incurante del disagio che le procurava.

    Ci siamo già visti da qualche parte?

    Lei scosse il capo.

    Ci avrei giurato continuò. Fai danza caraibica?

    Di nuovo no con la testa.

    Zumba?

    Chiedile semplicemente se viene nella tua palestra, no? intervenne il biondo spazientito.

    L’altro annuì e indicò un disegnino stampato su un angolo della maglietta che indossava. Iscritta alla Fit&Gym?

    Non aveva idea di cosa fosse, così disse ancora di no.

    Lasciamo perdere. Ti avrò confusa con un’altra. Comunque piacere, Francesco le porse la mano. Per gli amici e le amiche, Ciccio.

    Era un gesto che aveva imparato a riconoscere. Una forma di saluto e presentazione tattile molto in voga tra gli umani.

    Gli strinse la mano con meno forza possibile.

    Io sono… e come una stupida disse il suo vero nome. Alle orecchie del ragazzo il suono dovette somigliare a una pietra che si frantuma.

    Come?

    Maria. Mi chiamo Maria.

    Ma certo, Maria! Ciccio si rivolse all’amico. È la conduttrice! Non la riconosci?

    Che mi frega di chi è. La spalla mi fa un male cane. Mi sa che me la sono rotta.

    La testa ti sei rotto, ma da piccolo tornò a parlare con lei. Maria, posso offrirti qualcosa da bere? guardò l’orologio. Apericena?

    No, io…

    La vibrazione proveniente dal terreno la colpì come un macigno.

    Era familiare. Pericolosa.

    Si voltò verso la strada da cui era arrivata e riconobbe i suoi tre carcerieri. Al contrario di lei, due di loro erano facilmente distinguibili dagli umani: la loro pelle era troppo bianca rispetto al normale colorito roseo, e sgradevoli venature indaco spiccavano su collo, viso e mani. Gli occhi, poi, erano affossati e spenti, simili a quelli delle statue. Persino i movimenti risultavano artificiosi e innaturali.

    Erano pessime imitazioni degli umani, resi tali da un’Immobilità perpetua.

    Il Gerarca era diverso.

    Il suo portamento altezzoso si rispecchiava nella camminata, rigida eppure nobile. Non si era curato di modificare il suo aspetto e di adattarlo al mondo nel quale si era risvegliato. Piuttosto aveva preferito mantenere la forma assunta nell’Immobilità: per i presenti era un uomo di mezza età con folti ricci brizzolati e basette lunghe fino al mento.

    Maria incrociò il suo sguardo. I profondi occhi divennero bianchi e inespressivi, per poi tornare quelli umani della persona che raffigurava.

    Costretto dalla folla, o magari approfittando di essa, Ciccio si era intanto avvicinato.

    Dai, solo cinque minuti insistette.

    D-devo andare.

    Quando si rese conto che non voleva saperne di andarsene, fu costretta a spintonarlo per crearsi una via di fuga. Il ragazzo precipitò a terra e per poco, nell’inutile tentativo di rimanere in piedi, non portò con sé l’amico.

    Ehi, ma allora lo fai apposta! disse quest’ultimo.

    No, io… sono di fretta.

    Inutile, Ciccio si rialzò di scatto e le afferrò la mano.

    Almeno una foto? Per farti perdonare.

    Maria gli prese il polso con le dita libere e lo allontanò da sé.

    Ahi, che fai!? si lamentò lui barcollando via.

    Vedi! Pare di marmo insistette l’amico.

    Ma lei non li ascoltava più.

    I suoi carcerieri si avvicinavano, e non aveva bisogno degli occhi per saperlo: le vibrazioni sulla pietra rimbombavano ormai come i rintocchi di una campana. Non poteva più perdere tempo così, senza aggiungere altre scuse, sfruttò un vuoto creatosi tra la folla e vi si tuffò.

    Ciccio la chiamò ancora un paio di volte prima che la sua voce si perdesse nel rumore generale. Ma il problema di Maria non era quel ragazzo insistente, quanto piuttosto i tre inseguitori alle calcagna.

    Doveva inventarsi un diversivo, e in fretta.

    Si guardò attorno alla ricerca di supporto. Ma chi l’avrebbe mai aiutata?

    Nessuno.

    Fin dai primi momenti di vita le era stato insegnato che gli umani erano per lo più egoisti, senza nessun interesse nel soccorrere quelli come lei. La signora Cetta le aveva dimostrato che esistevano delle eccezioni, ma erano appunto tali. Ciò di cui Maria aveva bisogno era un cavaliere pronto a proteggerla, e non lo aveva ancora incontrato. Se la sarebbe dovuta cavare da sola, almeno per il momento.

    Più tardi, a mente lucida, avrebbe riflettuto su dove andare. Le serviva un posto lontano, nascosto dalla sua Tribù. Ma, pensò con amarezza, anche nel luogo più distante ci sarebbe stata una Tribù, e prima o poi l’avrebbe individuata e riportata lì dove avrebbe dovuto stare.

    Maria scacciò quei pensieri. Un problema alla volta. Seminare il Gerarca e gli altri carcerieri, ecco la priorità. Le vibrazioni sul terreno continuavano a inviarle il loro allarme, ma si fermò lo stesso a guardarsi intorno.

    L’idea giunse nell’istante in cui localizzò una stradina isolata che spaccava in due un palazzo. Passando da lì avrebbe potuto correre, raggiungere la via parallela, forse trafficata quanto quella nella quale si trovava, e seminare i tre.

    Era inutile cercare in un piano migliore, così accelerò e infilò la via angusta fino a quando il rumore della folla non si attutì a tal punto da far rimbombare i suoi passi. La luce era scarsa, illuminava appena piccole saracinesche spruzzate con spray dai colori sgargianti e porticine dai cardini arrugginiti. L’odore stantio di urina si mescolava a quello più fresco e altrettanto nauseabondo di uva fermentata, le cui chiazze al suolo fu costretta ad aggirare.

    Aveva appena evitato una pozza di vomito quando si accorse dell’uomo. Dormiva a terra, coperto da un cartone che lasciava scoperte le gambe e un groviglio di capelli impiastricciati di sporco. La copertura di fortuna si sollevava e abbassava a un ritmo lento e regolare, il respiro era un russare sommesso a tratti ansimante.

    Maria gli camminò piano accanto e non appena fu abbastanza lontana aumentò il passo. La stradina, che si era augurata dividesse i palazzi in una semplice linea retta, svoltò a destra con una curva ad angolo.

    Lì dovette fermarsi davanti a un imponente cancello arrugginito bloccato da un catenaccio grande due volte il suo pugno. Vi si avvicinò e provò a tirarlo, ma malgrado l’evidente inutilizzo, era ben saldo. Passò a tastare le sbarre fino a raggiungere le pareti. Forse avrebbe potuto spingere e sganciare il ferro dal muro. Sarebbe stato sufficiente uno spazio minimo per farla sgattaiolare dall’altra parte. Ma avrebbe causato un gran frastuono. Assorbire la pietra? No, ci sarebbero volute ore, i suoi inseguitori l’avrebbero trovata prima.

    Era una via senza uscita.

    Doveva tornare indietro.

    Concentrò la propria attenzione sul terreno e con le piante dei piedi percepì i carcerieri poco distanti dall’ingresso della via. Erano fermi, forse incerti sulla direzione da prendere.

    Dunque da lì non poteva scappare.

    Una folata di vento si insinuò nella stradina con un sibilo alieno. Maria era abituata allo scricchiolio dei rami, al frusciare delle foglie e al mormorio sommesso dell’erba, ma il rumore di finestre, vetri e carta le erano noti solo da poco.

    E proprio tra quei suoni riconobbe quello dei cartoni che sbattevano soffici sulla pietra della strada. Tornò sui suoi passi e si avvicinò all’uomo steso per terra.

    Ecco la sua opportunità.

    Si chinò per guardare il volto barbuto e cotto dal sole. Lo studiò, e intanto assorbì dai piedi e dalle mani la pietra necessaria alla mutazione. Provò dolore quando la sua pelle, a contatto con il muro e la strada lastricata, si sciolse.

    Resistette.

    Il crepitio e gli schiocchi delle ossa di pietra che si sgretolavano e ricomponevano accompagnò la trasformazione, e in pochi attimi Maria fu l’altro uomo, a eccezione del ventre prominente, dei capelli e della barba. Rubò il cappuccio che il barbone aveva appoggiato accanto ai suoi pochi averi e vi fece sparire la cascata di ricci castani.

    Ora servivano i vestiti.

    Spostò il cartone e per prima cosa si appropriò della giacca sudicia che lo sconosciuto usava per coprirsi. Poi si abbassò a sfilargli i pantaloni, per fortuna larghi e laceri. L’uomo borbottò qualcosa, voltò il capo e, negli effluvi del vino, le rivolse un insulto incomprensibile.

    Maria si tolse la gonna larga e la camicia a righe trovate a casa della signora Cetta e indossò i nuovi abiti. Il Gerarca avrebbe provato orrore nel sapere di un’azione simile nei confronti di un essere umano. Un furto, se non una sorta di aggressione non violenta.

    Le dispiaceva, eppure considerò il proprio un atto perdonabile.

    Stava per allontanarsi quando il tocco della pietra sotto i piedi le ricordò che aveva bisogno di un ultimo camuffamento. Tornò dal barbone e gli prese le scarpe. Avrebbe perso il contatto con il suolo e la percezione della posizione esatta dei carcerieri, ma doveva scappare, e il modo migliore era non destare sospetti.

    Mascherata al meglio consentito dalla situazione, infilò le mani nella tasca dei pantaloni - sia per nascondere i palmi scorticati sia per tenere su i calzoni troppo larghi - sollevò il mento e tornò sui propri passi.

    Come previsto i suoi inseguitori stazionavano guardinghi nella zona. Evidentemente non l’avevano vista entrare nel vicolo, o almeno non erano certi che l’avesse imboccato, e indossando le scarpe per mantenere l’anonimato non potevano percepire la pietra.

    Maria passò loro accanto e si allontanò di diversi passi prima di cedere alla tentazione di girarsi. Il Gerarca notò il suo gesto e la guardò a sua volta.

    L’istinto le gridò di darsi a una fuga precipitosa, e stava per cedervi quando il suo inseguitore distolse l’attenzione da lei.

    Non l’aveva riconosciuta.

    Con il respiro ancora corto Maria gli diede le spalle e si allontanò senza più voltarsi. La folla la assorbì e le permise di svanire tra i dedali di vie che si immettevano nella strada principale. Ne imboccò una mezza dozzina prima di nascondersi dietro un angolo cieco e sfilarsi le scarpe troppo larghe. Toccò la pietra con i piedi nudi e tra le innumerevoli vibrazioni non percepì più quelle dei carcerieri.

    Poggiò le spalle alla parete e si concesse un lungo sospiro.

    Era in salvo, almeno per il momento.

    Peccato non avesse idea di che cosa fare adesso. L’unica certezza era togliersi di dosso gli stracci del barbone: puzzavano da fare schifo.

    Si guardò intorno e, nella vetrina laterale di un negozio, il rosso fiammante di un indumento la attirò come una torcia con una falena. Era un vestito che fasciava il manichino come una calza. Aveva uno scollo generoso sul petto e la gonna al ginocchio era decorata con un bordo di pizzo.

    Quello sì che meritava di essere indossato.

    Maria sollevò la mano, la chiuse in un pugno e ruppe il vetro con un solo, violento colpo. Suonò un allarme, ma non se ne curò, concentrata com’era a prendere l’abito, scarpe comprese, e scappare prima che gli umani la notassero.

    Cambiò vicolo fino a quando non ne imboccò uno isolato. Lì, scartata la pietra in eccesso, riacquistò l’aspetto di donna e si cambiò con i proventi del furto. Si sentì subito meglio, avvolta in quella stoffa morbida mentre gli spifferi della stradina soffiavano via il mucchietto di polvere accumulatasi ai suoi piedi.

    Eppure era ben lontana dall’aver risolto i suoi problemi.

    Sedette su un gradino di marmo ingrigito dalla sporcizia e strinse le tempie tra le mani, lo sguardo rivolto al suolo.

    E adesso?

    Il vento sospirò di nuovo, come in risposta alla sua domanda. Maria sollevò una mano per scacciare le ciocche ricce che le erano finite sul volto. Quando tornò a guardare in basso notò che un cartoncino portato dal refolo le era rimasto incastrato sotto un piede. Lo raccolse. Una grossa A rossa spiccava al centro della scritta "Strange Activity", sotto la quale vi erano altre parole.

    Maria spolverò la sua capacità di lettura.

    Esorcismi, investigazioni e minchiate varie. Perché il paranormale è il nostro mestiere e siamo certi di risolvere qualsiasi vostro problema. E, come diceva il dottor Venkman, il lavoro non ci spaventa, il conto non vi spaventa. Parola di Angelo Strano.

    Dietro il bigliettino c’era un indirizzo e una piccola mappa.

    "Siamo certi di risolvere qualsiasi vostro problema rilesse. Angelo Strano…"

    Possibile che un umano potesse aiutarla?

    Una piccola speranza si riaccese in lei.

    Angelo Strano la poteva aiutare. Era questo che prometteva la scritta.

    D’improvviso la notte non le sembrò più così scura. Gli umani erano in grado di fare qualsiasi cosa, e se lei ne avesse trovato uno disposto ad aiutarla nemmeno il Gerarca avrebbe potuto opporsi.

    Angelo Strano era la sua unica possibilità di salvezza.

    Ecco. Così dovrebbe andare.

    Vera scese dalla scaletta, sbatté sui jeans le mani sporche di polvere e le puntellò ai fianchi, contemplando il suo lavoro. Lì, dall’angolo in alto a destra della porta, l’ultima delle telecamere che aveva piazzato riprendeva pigra il pianerottolo di casa.

    Mai più un mostro schifoso l’avrebbe sorpresa. Mai più. Era una promessa stretta con se stessa la sera in cui Angelo aveva salvato il culo suo e quello di Regina. E infatti il giorno dopo, con l’ormai misero residuo acconto del defunto Bonaccorsi, aveva ordinato su internet un set completo di telecamere di sorveglianza con tanto di software facilmente gestibile dal computer di casa.

    Era stata una faticaccia installare tutto da sola, soprattutto usare il trapano a quasi due metri di altezza per bucare le spesse pareti di pietra lavica.

    L’aiuto di Angelo non le avrebbe fatto schifo, ma l’inutile proprietario di casa e socio della Strange Activity era una specie di re Mida al contrario, con la tecnologia. L’unico apparecchio di ultima generazione che riusciva a usare senza mandarlo in tilt era lo smartphone che Vera gli aveva regalato al suo ingresso

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