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Vite nel Kaos: Storie, voci, volti ai tavoli di un bar
Vite nel Kaos: Storie, voci, volti ai tavoli di un bar
Vite nel Kaos: Storie, voci, volti ai tavoli di un bar
E-book122 pagine1 ora

Vite nel Kaos: Storie, voci, volti ai tavoli di un bar

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Info su questo ebook

Al bar Kaos, si intrecciano le storie di vita di tante persone. Ognuno ha i propri pensieri, ognuno ha i propri problemi. Un crocevia di varia umanità, un affresco di personaggi che lascia intendere che ognuno di loro possiede storie interessanti da raccontare. Sfilate di solitudini umane, di fallimenti, tormenti ma anche sorrisi e speranza, si alternano ai tavoli di un bar, luogo della socialità e dell’allegria, e ci suggeriscono come in realtà molti di noi per la maggior parte del tempo indossino una maschera, per celare un’identità o una ferita con cui si fa fatica talvolta a convivere.
Quindici racconti che ci fanno riflettere sulla vita, sui suoi casi tanto vari e diversi, sulle diverse esperienze delle persone, ciascuna con il proprio Kaos dentro di sé. Per la mitologia greca, come spiega il gestore del bar, il kaos indicava infatti lo spazio aperto, il vuoto da cui tutto ha avuto inizio. Un vuoto riempito di storie.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2020
ISBN9788868762544
Vite nel Kaos: Storie, voci, volti ai tavoli di un bar
Autore

Loreta Failoni

Loreta Failoni, nata prima dell’allunaggio ma dopo Albert Einstein, ha insegnato matematica per molti anni. Ora si occupa di libri, spettacoli e di cinema. Il suo romanzo d’esordio, La bisettrice dell’anima, che l’ha condotta in tutta Italia e negli USA, ha vinto molti premi tra cui il prestigioso Firenze per le culture di pace, dedicato a Tiziano Terzani. Ama la pianura e vive in montagna. Ama la scienza e i numeri e si occupa di teatro.

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    Anteprima del libro

    Vite nel Kaos - Loreta Failoni

    CHIARA

    EMMA

    …un estremo tentativo di migliorare la vita.

    (Michelangelo)

    La prima goccia di pioggia la colpì sul viso.

    Da quanto tempo era lì?

    Si era alzato il vento. Emma rivolse lo sguardo al grigio plumbeo di quel pezzo di cielo che riusciva a vedere.

    Cercò di tirarsi su con la schiena con uno sforzo, sentiva le gambe indurite e intorpidite. Mosse le dita dei piedi ma invece di alleviare la situazione una fitta di dolore le attraversò la caviglia.

    Da quanto tempo era lì?

    La determinazione che ce l’aveva portata iniziava a vacillare?

    Scosse la testa rispondendo a se stessa, a quell’interrogativo che le rimbombava da troppo nella testa.

    No, devo farlo, non torno indietro.

    La decisione non era stata facile, certo, sin da subito le era parsa la conclusione naturale di un percorso iniziato troppi anni prima.

    Cercava di scavare nei ricordi, in quella lucida confusione che le ammorbava il cervello.

    Era sempre stato il punto debole del suo corpo: il cervello.

    Troppa fantasia le diceva sua madre dopo i colloqui con l’insegnante, troppa fantasia le ripetevano le amiche in collegio dopo l’ennesimo rimprovero di suor Grazia.

    Ma lei non era mai riuscita a cambiare, bastava che qualcuno sedesse vicino a lei in autobus e subito proiettava storie di vita, immaginava rapporti, dialoghi, professioni e amori.

    Troppa fantasia…

    Il piede perse per un attimo l’appiglio, sentì una frana di sassolini cadere nel vuoto. Si tirò su con forza strisciando la schiena contro la roccia.

    Rabbrividì.

    Era sudata.

    Le gocce cominciavano a cadere più fitte.

    Emma alzò lo sguardo verso il pezzo di cielo che poteva intravedere da quella posizione.

    La nebbia risaliva dal fiume. Chiuse gli occhi. Dalla strada giungevano ovattati i rumori delle automobili.

    Tese l’orecchio. Aspettava di sentire il rumore di una sirena.

    Forse qualcuno aveva capito.

    Aveva posteggiato l’automobile all’inizio del ponte. Sul sedile giaceva la lettera per sua figlia, l’unica persona a cui avrebbe voluto trasmettere tutto il suo dolore, la sua disperazione. L’unica, forse, che avrebbe capito.

    Lei che aveva riempito i suoi giorni e le sue notti, che aveva raccolto le sue lacrime e le aveva bevute assieme al suo latte, che le aveva assorbite nella sua pelle liscia.

    Sentiva un dolore sottile e pungente irradiarsi dalla coscia sino alla caviglia.

    Calcolò freddamente che se avesse tentato di allungare la gamba per attutirlo avrebbe perso la stabilità e tutto sarebbe finito.

    Contrasse i muscoli e respirò a fondo.

    Quando era iniziato?

    Scavava nei ricordi di una vita cercando di individuare i segnali, un episodio, una circostanza, ma tutto si confondeva, o forse era sempre stato così.

    I rientri tardivi, i vestiti che scivolavano silenziosamente ai piedi del letto, l’alito che odorava d’alcool, sudore e amplessi fugaci.

    I suoi occhi chiusi per non vedere, ma spalancati nel buio della notte a captare un respiro, un gesto, un pentimento, una parola.

    Già, le parole, quelle che lei cercava ogni giorno, quelle da cui Sandro sfuggiva sbattendo una porta, quelle che precedevano sempre la tempesta.

    La stanchezza stava prendendo il sopravvento, ora doveva solo lasciarsi andare giù.

    Ritrasse il piede e la scarpa si sfilò sprofondando nell’abisso.

    Allertò i sensi nell’attesa del tonfo. La forra le rimandò soltanto lo sciabordio dell’acqua che si infrangeva sui massi.

    Anche lei avrebbe continuato a cadere senza produrre rumore?

    Il piede nudo sfregava sui sassi.

    Doveva essere una dottoressa.

    L’immagine severa di suo padre le balenò in testa. Il giorno del diploma l’aveva attesa alla fermata dell’autobus in arrivo dalla città, Com’è andata? Quanto hai preso?

    Quarantasette papà. Le aveva stretto la mano, semplicemente.

    Lui aveva raccolto la valigia senza parlare avviandosi verso casa.

    Adesso cerchiamo un posto in collegio a Milano. Io e la mamma siamo d’accordo, ti iscrivi a medicina. Ti piace no?

    Non era mai partita per Milano, durante l’estate aveva conosciuto Sandro e lui le aveva attraversato, invaso e conquistato mente e cuore.

    L’unica cosa che voleva era stare con lui. Sentiva ancora nelle narici l’odore del suo sudore mentre ballavano a una festa campestre. Le sue braccia che la stringevano come nessuno mai aveva fatto e lei non voleva altro. Una casa, dei figli, serate sul divano vicini a guardare un film, passeggiate e viaggi.

    Il suono di un clacson la riportò sulla roccia.

    Ritrasse il piede e alcune gocce di sangue striarono la ghiaia. Il dolore era pulsante, in sintonia con il battito accelerato del cuore.

    Quando sei sul punto di morire ti passa davanti la vita in un attimo. Che enorme sciocchezza! A lei passavano davanti agli occhi soltanto fugaci immagini, piccoli frame di un film scadente, episodi insignificanti e slegati tra loro.

    Dalla sua posizione vedeva il ponte, il ponte dei suicidi, come lo aveva definito la stampa.

    Attraversava la forra sul fiume con un’unica maestosa arcata. Da lassù tanti e tante avevano guardato giù in quell’abisso che somigliava all’inferno.

    Forse qualcuno si era fermato, aveva trovato un appiglio, un motivo per desistere, per tornare indietro. I nomi di questi non li avrebbe mai saputi nessuno, ma l’elenco di quelli che avevano scavalcato quel parapetto erano tanti, erano noti, scolpiti nella memoria di figli, amici, comunità. Lei sarebbe stata un altro nome da aggiungere alla lista, una lista di volti, nomi, fallimenti e delusioni.

    Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarda dentro di te. Le parole di Friedrich Nietzsche erano scritte per lei?

    Lei non aveva guardato nell’abisso, era scesa giù pian piano. Uno spintone, una spalla dolorante e poi le scuse.

    È colpa tua, non ti va mai bene niente. Non volevo, ma tu mi fai perdere la pazienza.

    Aveva davvero pensato di essere lei la causa di tutto. Si guardava intorno e sbirciava nella vita delle altre. Erano serene: amiche, colleghe di lavoro, madri davanti alla scuola.

    Lei no, non lo era. Ma forse la sua sofferenza non traspariva, anche lei sembrava serena?

    Aveva sete, passava e ripassava la lingua sulle labbra tentando di alleviarla.

    Mise la mano nella tasca della giacca e toccò le chiavi di casa. La sua casa. Conosceva ogni angolo, ogni tazzina le raccontava di una persona, di un luogo. Ogni federa le narrava di notti calde e di pensieri. Ogni cornice racchiudeva una data, il ricordo di un momento, ma lei ne conosceva il prima e il dopo, solo lei.

    Ora sarebbero stati solo inutili oggetti spaiati da buttare via.

    Forse era giusto così, stava buttando via la sua vita e tutto sarebbe sceso con lei nel fiume.

    Chiuse gli occhi e ascoltò il silenzio.

    Una vibrazione.

    Il telefono.

    Doveva essere rimasto nella borsa. L’aveva abbandonata sul ciglio della strada quando aveva scavalcato il parapetto.

    Chi era?

    Avrebbe dovuto farsi precedere da quell’inutile oggetto!

    Non voleva sapere chi fosse, voleva soltanto farlo smettere.

    Non sentiva più la gamba sinistra, provò ad allungare la mano sino al ginocchio.

    Dal basso ventre sentì partire una sorta di scarica elettrica.

    Le capitava spesso negli ultimi mesi. A volte la sensazione era così forte che doveva accucciarsi a terra, stringere le ginocchia con le braccia e respirare lentamente per riprendere in mano le redini dei pensieri, dei movimenti, della vita.

    Ne aveva parlato con il suo medico un giorno.

    Le aveva

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