Il vento dell'Antola: Romanzo
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Anteprima del libro
Il vento dell'Antola - Cristina Raddavero
http://write.streetlib.com
AltreScritture
III
puntoacapo Editrice di Cristina Daglio
Via Vecchia Pozzolo 7b
15060 Pasturana (AL)
www.puntoacapo-editrice.com
ISBN 978-88-6679-262-8
Ai miei nonni
Serafino, Ines, Battistina
A mia figlia
Il libro è liberamente ispirato ad una
vicenda realmente accaduta. Tutti i nomi dei personaggi sono frutto
esclusivo della fantasia. Alcuni luoghi e ambienti descritti sono
piegati alle esigenze narrative del racconto per cui potrebbero non
corrispondere pienamente alla realtà.
Si ringrazia il fotografo Ludovico Grasso
per avere gentilmente concesso l’utilizzo delle foto.
Forse un mattino andando in un’aria di vetro
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dentro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
(E. Montale)
Ho avuto la fortuna di nascere e crescere
all’interno di una realtà costituita di cose semplici e autentiche,
circondata dall’affetto impagabile di una famiglia numerosa in cui
i miei tre nonni hanno indubbiamente giocato un ruolo fondamentale
nella formazione della mia sensibilità, attenzione e rispetto nei
confronti della terra in cui ho vissuto e vivo tuttora e di coloro
che ne fanno parte siano esse creature umane, animali o vegetali.
Tutti e tre hanno saputo trasmettermi
l’amore per i luoghi che hanno dato loro i natali, nonché per le
tradizioni tipiche delle zone pedemontane che rappresentano per la
loro varietà e ricchezza, il fiore all’occhiello dell’Appennino
ligure-piemontese. In particolare hanno saputo infondermi, fin
dalla più tenera età, una propensione speciale a soffermarmi sui
colori e sui profumi della terra, sui dettagli anche minimi che un
occhio attento e curioso come quello di un bambino pronto ad
esplorare il mondo è in grado di captare tra uno sguardo rivolto
verso il cielo azzurro e una scorsa alla terra bruna e compatta.
Sogno e realtà, fiaba ed esistenza, leggenda
e storia, diceria
e verità sono le componenti che si mescolano da
sempre dentro di me, tanto da costituirne l’ossatura specifica che
ricalca quella dei minuscoli paesi inerpicati lungo la dorsale
appenninica, autentico scrigno di ricordi e consuetudini da non
consegnare all’oblio.
Le pagine che seguono sono la passeggiata di
Nora e Livia.
Una nonna e la sua giovane nipote,
camminando nel bosco, ripercorrono il passato tra faggi e querce
maestose, teatro naturale e scenario di incomparabile bellezza in
cui un vento bizzarro irrompe da subito tessendo un sottile
intreccio tra la realtà e l’alone di sogno e di mistero nella
rievocazione di ciò che è narrato.
Mio dovere precisare che il racconto, tante
volte narratomi dai miei nonni, è liberamente ispirato ad una
tragica vicenda avvenuta nel settembre del 1961 a Reneuzzi, paesino
dimenticato nella valle dei Campassi e che all’epoca fece molto
scalpore, determinando definitivamente l’abbandono di quel pugno di
case ai piedi del monte Antola già irrimediabilmente votato alla
desolazione e all’allontanamento progressivo dei suoi abitanti,
proiettati verso il nuovo stile di vita che le circostanze
storiche, sociali, economiche imponevano. Moltissime peculiarità
agro-montanare con la congiuntura dei tempi, proprio allora si
persero irrimediabilmente lungo i crinali dell’Appennino
ligure-piemontese... d’altronde la posta in gioco era altissima, il
richiamo al benessere suadente e persuasivo.
Difficile restare indifferenti alle nuove
dinamiche innescate dal processo messo in atto all’indomani del
dopoguerra, ma...
Proprio pensando alle piante
mi sono convinto che l’orrore di quegli
anni in qualche modo era già in agguato.
(Susanna Tamaro)
21 settembre 2005
Livia e Nora erano arrivate di buon’ora;
erano partite molto presto dalla città, lasciandosi alle spalle
cemento, lunghe file di vetture strombazzanti, smog e la più
svariata tipologia di esseri umani dislocati ovunque, lungo i
marciapiedi, sotto le pensiline in attesa del primo autobus pronto
a passare, fermi ad un’edicola nell’imminente gesto di aprire il
quotidiano abituale e gettarsi a leggere il mondo...
Il primo pensiero di Livia, quella mattina,
non appena salita sulla sua auto, un’utilitaria di seconda mano che
nonna Nora le aveva regalato per i suoi spostamenti, fu rivolto a
zia Marta. Spesso si ritrovava a pensare a questa zia che non aveva
mai conosciuto e di cui aveva sentito parlare da sempre,
praticamente dal giorno stesso della sua nascita. E, non a caso,
nonna Nora aveva insisto e molto, nel giorno del suo battesimo,
affinché fosse aggiunto al nome della adorata nipotina quello di
sua figlia; così, Livia Marta crebbe con sua zia dentro
, come
soleva ripetere la nonna, che, in questo modo era riuscita a
metabolizzare, per quanto ciò fosse stato possibile, il profondo
dolore causato dalla prematura scomparsa di una bellissima giovane
strappata alla vita nell’esatto momento in cui avrebbe dovuto,
invece, cominciare a viverla.
L’auto si fermò nel piccolo piazzale del
paese. Livia parcheggiò all’ombra di un vecchio noce smilzo e
giallastro, scese dalla macchina e si precipitò dall’altra parte
della vettura, dove nonna Nora, aiutata dal suo bastone di ebano
nero dal grande pomolo d’argento, aveva già provveduto da sola ad
aprirsi la portiera e poggiare i piedi malfermi e vacillanti sul
selciato.
Con il cuore pronto a compiere un viaggio
tra i ricordi, rivolta a Livia, con la voce incrinata dall’emozione
e da lacrime nuove appartenenti ad un vecchio dolore, disse:
«Allora, mia piccola Livia, sei pronta?»
Livia fece cenno di sì con la testa; le due
donne si incamminarono lungo quella che doveva essere stata la
mulattiera che collegava Vegni a Reneuzzi e che dalla piazza del
paese, assottigliandosi progressivamente, le avrebbe condotte
all’altro pugno di case, il piccolo villaggio natale di nonna Nora,
Reneuzzi appunto, quello in cui aveva vissuto per soli diciotto
anni zia Marta.
«Era il 21 settembre, nonna, vero? Non
avresti potuto farmi regalo migliore di questo, oggi, se non di
venire qui e sentire scorrere sotto i miei piedi e nelle mie vene
la storia di Marta e Daniele, quella di cui ho sempre sentito
parlare; ma una cosa, nonna è sentirne parlare, altro calpestare
questo sentiero, sentire questo profumo d’autunno che ci avvolge,
riempirci gli occhi di tutti questi colori e di tutte le sfumature
di queste foglie che inesorabilmente cominciano cadere. Ogni cosa
qui evoca un altro autunno, quello in cui zia Marta ti lasciò per
sempre».
Reneuzzi era collegato a Vegni
esclusivamente da questo sentiero che stavano percorrendo Livia e
sua nonna. Certamente fino al 1960 non doveva avere avuto queste
sembianze: sempre un sentiero rimaneva, ma pulito, sistemato e ben
assettato, delimitato a tratti sul lato destro da un muro a secco e
sul sinistro da una staccionata costruita con massicci pali di
legno di castagno che conferivano all’ambiente circostante un
aspetto di ordine e armonia di cui non restava neppure il più vago
segno.
Quell’estate di tanti anni fa, la famiglia
Parocchi aveva preso la grande decisione: lasciare definitivamente
il paese per trasferirsi a Genova. Nonno Arturo aveva trovato un
ottimo lavoro come muratore; si stavano costruendo palazzi a non
finire che proliferavano in tutti i quartieri della città.
Nei paesi dell’Appennino la voce si era
sparsa in fretta, il lavoro chiamava e bisognava andare; la città
si stava trasformando e offriva, con tutte le sue comodità, una
vita migliore. Luca e Marta non vedevano l’ora di partire.
Luca, almeno inizialmente avrebbe dato una
mano a suo padre come manovale, e finì per amare a tal punto il
proprio lavoro che nel giro di pochi anni si trasformò in uno degli