La leggenda del Re Eremita
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Cetta De Luca, con la leggenda del re eremita, scrive una parabola moderna che sa entrare nei meccanismi psicologici della malavita organizzata calabrese e delle sue vittime femminili, donando loro, persino nella vendetta estrema ma mai consolatoria, il dolce sguardo di chi sa oltrepassare l’orizzonte dell’inganno e del dolore.
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Anteprima del libro
La leggenda del Re Eremita - Cetta De Luca
Tavola dei Contenuti (TOC)
Prefazione
di Giorgia Lepore
Prologo
1. Irene
2. Cristina
3. Isabella
4. Il Re Eremita
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Ringraziamenti
golem / romanzo
© 2019 Miraggi Edizioni
via Mazzini 46, 10123 Torino
www.miraggiedizioni.it
Cetta De Luca è rappresentata dall’Agenzia Stradescritte
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Borgoricco (PD)
nel mese di ottobre 2019 da Logo srl
per conto di Miraggi Edizioni
su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr
Prima edizione digitale: ottobre 2019
isbn 978-88-3386-112-8
Prima edizione cartacea: ottobre 2019
isbn 978-88-3386-110-4
A Mariù.
Prefazione
di Giorgia Lepore
Questo romanzo è un gioco di scatole. In una c’è la fiaba, raccontata come si devono raccontare le fiabe, con un ritmo dolce e cullante, uno spazio e un tempo sospesi, dei personaggi che raccontano se stessi e gli altri e affondano i loro racconti in radici lontane. In un’altra c’è il romanzo di formazione, con tra ragazze che crescono e le troviamo bambine e poi giovani donne, alla scoperta della loro identità sepolta sotto cumuli di macerie. E poi c’è l’affresco di una società corrotta, violenta, perversa, una critica sociale sottile e sottintesa, ma non per questo meno incisiva e velenosa.
Tutto si tiene insieme grazie alla storia, come dovrebbero fare sempre le storie, raccontare le cose da dentro, da parte di quelli che le vivono e sono immersi nel fango, quel fango se lo portano sulla pelle, nelle viscere, tanto da non poterne uscire, nemmeno quando sono convinte di poter rompere gli argini in cui esso scorre. E viscerale è la narrazione: non è un caso che questa storia, che mescola abilmente intimità e società, violenza privata e pubblica, leggende antiche e squallori contemporanei, sia stata scritta da una donna, e sia principalmente raccontata in modo soggettivo da donne.
Quello che ho amato di più in questo romanzo è proprio il tono: antico, surreale, a volte con effetto particolarmente estraniante rispetto alla materia che racconta, il ritmo cadenzato, la musicalità alternata di italiano e dialetto. Come sono antichi e senza tempo i personaggi, a far emergere come tra passato e presente non ci sia soluzione di continuità, sia tutto legato da fili che stanno là, sottoterra, nelle radici di sofferenze vecchie come la terra che le racchiude, le conserva, le rinnova sempre.
Le radici sono l’origine di queste donne, la loro forza, ma anche la loro maledizione.
Prologo
L’aveva battezzata Isacca, la figlia sacrificale, quella salvata all’ultimo momento per volere divino. L’aveva chiamata così perché Mosè non era nome da femmina. Poi l’aveva abbandonata. Le suore dell’orfanotrofio l’avevano trovata nuda, in una pozzanghera fuori dal portone dell’austero edificio di via Frangipane, piccolo sacchetto di ossa e carne che ormai non aveva nemmeno la forza di urlare. Era destinata a morire Isacca, ma lottò per salvarsi. Si attaccò con vorace ostinazione alla bottiglia di latte di capra che suor Maria era riuscita a procurare, succhiando dal cencio usato come tettarella fin quasi a strozzarsi. Poi spalancò gli occhi, rabbiosi e grati. «Chiudili quegli occhi, che mi inquieti!» le intimò la suora, e lei obbedì. Sarebbe stata una bambina docile e bellissima, e da quel momento per tutti fu Isabella.
Isabella non aveva madre né padre, anche se suor Maria, dopo qualche indagine in paese, una certa idea sulle sue origini se l’era fatta. Lei non era pettegola ma aveva occhi e orecchie, e certi sussurri, certe frasi dette a mezza voce, certi atteggiamenti di colpa durante la messa non le erano sfuggiti. Pensò che Isabella avrebbe presto trovato una casa, una famiglia, o forse sarebbe meglio dire che lei avrebbe fatto in modo che ciò accadesse. Suor Maria e le sue consorelle erano postulanti indefesse e instancabili. Sapevano dove andare e a chi chiedere, sapevano lavorare ai fianchi e alla coscienza i signorotti in cerca di indulgenze, sapevano incutere soggezione ed elargire benevolenza. In via Frangipane non arrivavano mai coppie di sposi disperate in cerca di un figlio da amare e accudire, ma accadeva sempre che quei figli uscissero dal portone per andare in gita, in visita da qualcuno, e non facessero più ritorno. Anche Isabella uscì un giorno di fine primavera. Aveva pochi mesi – forse tre o quattro, non si conosceva la data esatta della sua nascita – e suor Maria l’aveva tutta avvolta in una copertina bianca di lana, come un bozzolo, ed era uscita senza spiegazioni. Al suo ritorno era sola. «Isabella adesso ha un padre e una madre, e che il Signore ci aiuti…» E lasciò quella frase in sospeso così, con tutti i presagi che si portava dietro.
1. Irene
Il mio paese non lo trovavi sulle carte geografiche, non in quelle dei libri di scuola per lo meno. Su qualche mappa stradale, se aguzzavi bene la vista, vedevi un puntino nero, così piccolo da sembrare il più delle volte il residuo di una cacca di mosca difficile da grattare via. Questo era Sant’Eustachio Belvedere per i più. Per noi che lo abitavamo era la gabbia dell’uccelletto di Leopardi, era il labirinto di Teseo, era il giardino dei dieci narratori di Boccaccio, il principio e la fine del nulla. Da destra a sinistra – o da nord a sud – si sviluppavano ben due corsi principali che racchiudevano l’intero abitato, come le valve di una mandorla, e che partivano da un vertice comune per confluire in un pedice comune, un inizio senza fine, l’inconcludenza della circolarità.
Il primo vertice, poco prima dell’ingresso in paese, era un grande slargo di cemento bianco, che d’estate pareva sabbia pressata per via dello sbrilluccichio dei frammenti di silicio che vi erano intrappolati e dei cristalli di sale depositati dal maestrale. Sulla destra stava una cappella votiva, con una finestrella protetta da inferriate arrugginite al centro della facciata e di lato una porta di legno scrostata con un enorme buco della serratura. Dentro c’erano la statua lignea di Sant’Eustachio e il reliquiario e una volta l’anno il prete si recava lì coi chierici, sganciava dalla cintura l’enorme chiave di bronzo ed entrava a far visita all’eletto. I giovanetti si caricavano in spalla il santo e lo portavano a prendere aria per le vie del paese e le donne, lungo il percorso, si univano in processione, tutte agghindate per la festa. La sera Sant’Eustachio rientrava nel suo piccolo e buio antro, il prete serrava la porta, benediceva gli astanti sottovoce – in latino, così che nessuno potesse obiettare per le malegrazie ricevute – e tutto tornava silenzioso per un altro anno.
Davanti alla cappella c’era l’ingresso al cimitero. Quello era frequentato molto più che una volta l’anno, perché di morti ce n’era in abbondanza in paese. Le processioni per il camposanto erano di carattere inverso: il prete e i chierici seguivano la bara all’interno e dietro di loro sfilavano prima i famigliari del defunto, poi le donne in lutto tutte vestite di nero che gridavano e si lamentavano sciogliendo le lunghe trecce – spesso bianche di vecchiaia o di cenere – strappandosi i capelli. Abbandonando alle spalle la casa delle anime vive e la casa delle anime morte, si poteva scegliere la diramazione per corso Leonardo da Vinci, un ampio viale che costeggiava il litorale, o quella per corso Michelangelo, più interna, che ospitava il Municipio e la Cattedrale. Pareva di vedere replicata l’antica e mai smentita rivalità tra i due artisti, in gara tra loro per decorare Palazzo Vecchio a Firenze.
Passeggiando lungo il litorale le case, tutte a due piani come da piano regolatore, apparivano adornate da fiori perenni. Gerani, ciclamini, begonie, dalie, ortensie, campanule, e poi petunie e surfinie e rose facevano a gara per regalare una continuità floreale, colorata e odorosa ai balconi occhieggianti dalle mura bianche di calce. Il mare davanti, col sole del mattino che si specchiava sui vetri chiusi delle case, emanava una costante brezza salmastra che al pomeriggio, col calare del vento, depositava scorie saline sulle persiane di legno, sulle panchine, sui terrazzi degli ultimi piani. Nessuno osava più ridipingere nulla, tanto era fatica sprecata.
Tra corso Leonardo da Vinci e corso Michelangelo si dipanava un dedalo intricato di viuzze strette e per lo più buie, anche di giorno. Erano i bassi, quartieri di collegamento perennemente in ombra, le cui case a un piano ospitavano principalmente pescatori, contadini, donne a servizio, gente che passava la maggior parte del tempo fuori, all’aria aperta o sotto padrone, e che rincasava la sera quando ormai era buio. Giusto i bambini di ritorno da scuola animavano quelle strade-cortile coi loro giochi e i loro schiamazzi, e trovavano unici e straordinari i pertugi e i portoni e i luoghi nascosti in cui alimentare le loro fantasie. Quei bambini guardavano attraverso gli spiragli e le fenditure dei muri quel mare luccicante poco distante, e a volte si avvicinavano, come esploratori che escono da una caverna per spiare il mondo esterno. Guardavano i loro coetanei, quelli della prima fila di case, giocare in spiaggia e scuotendo la testa tornavano indietro, perché niente può essere desiderabile se si smette di osservare.
Le case di corso Michelangelo erano palazzine di tre o quattro piani, con le facciate dai colori sgargianti e colonne e capitelli a ornare i portoni imponenti. Ogni tanto gli edifici facevano spazio a una piccola piazza, a una mezzaluna piastrellata di lastre di porfido e bordata di aiuole, luoghi in cui la gente si radunava per chiacchierare di politica o dei fatti altrui. Ai lati di questi spazi aperti si poteva trovare una chiesa, un ufficio pubblico, l’edicola o la farmacia, o lo studio del medico condotto, anch’essi luoghi deputati al pettegolezzo e alle dispute. Sulla piazza maggiore si affacciavano da un lato il Municipio, che aveva quattro piani pieni di stanze in cui non lavorava quasi nessuno, dal lato opposto la Cattedrale, che aveva ambizioni di maestosità e si ergeva per oltre trenta metri d’altezza con tanto di campata centrale unica, doppio campanile ai lati e una meridiana posta sopra il portale di legno riccamente intagliato. Anche alle spalle di corso Michelangelo c’erano i bassi, stavolta abitati dai meno fortunati, i derelitti in cerca di lavoro a giornata, i poveri fregati da un latifondismo di tipo feudale che aveva corroso le loro piccole proprietà durante i periodi di