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I muri parlano: Montalbano, tra passato, vicoli e destini
I muri parlano: Montalbano, tra passato, vicoli e destini
I muri parlano: Montalbano, tra passato, vicoli e destini
E-book254 pagine3 ore

I muri parlano: Montalbano, tra passato, vicoli e destini

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Info su questo ebook

I muri raccontano… storie, leggende, aneddoti, misteri, gioie e dolori dei cittadini di Montalbano. Sì, perché “I muri parlano. Montalbano, tra passato, vicoli e destini” descrive con passione quello che, nel corso degli anni, è accaduto nelle strade e nelle case del piccolo centro del Materano. L’autore, Vincenzo Maida, a metà tra cronaca e narrazione, ha ripercorso le vicende salienti che hanno interessato il suo paese e hanno reso protagonisti i montalbanesi. Forse non tutti sanno, infatti, che a Montalbano sono nati personaggi illustri: da Francesco Lomonaco, amico e maestro di Alessandro Manzoni e secondo padre Gabriele Ronzano ispiratore del romanzo più famoso della storia della letteratura italiana “I promessi sposi”, a Nicola Romeo fondatore della famosa casa automobilistica Alfa Romeo (palazzo Romeo è ancora esistente), da Rachele Cassano a Niccolò Fiorentino, da Felice Mastrangelo a Placido Troyli.
“I muri parlano” racchiude anche descrizioni di scorci che sono stati testimoni di storie d’amore e tradimenti pagati col sangue, segreti inconfessabili e vite eccezionali.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2019
ISBN9788869600708
I muri parlano: Montalbano, tra passato, vicoli e destini

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    Anteprima del libro

    I muri parlano - Vincenzo Maida

    ancora...

    Capitolo 1

    Il sole da poco era sbucato a est, dal mare, come sempre, ma quella mattina sembrava che illuminasse le ciminiere del siderurgico di Taranto, la spiaggia jonica, la campagna dipinta di verde, i frutteti in fiore di una luce nuova.

    Era un abbagliante gioco di colori che, per chissà quale magica alchimia, colorava il mare di rosso e proiettava disegni variopinti tutt’intorno.

    Poi, ogni cosa ritrovò i suoi contorni, i suoi colori, la sua materialità e la normalità si riappropriò di quell’incantevole paesaggio.

    Il grigio inverno declinava lentamente nei colori della primavera e le giornate scorrevano monotone: sveglia di buon mattino alla solita ora, le facce di sempre mummificate per strada, i saluti di circostanza, le banalità quotidiane recitate con svogliata partecipazione, gli immancabili aggiornamenti di cronaca paesana; poi, la sera, qualche lettura e l’attesa del sonno, ingoiando malvolentieri le logorroiche esternazioni televisive nei talk show che, solo di rado, avevano la forza di tenermi sveglio oltre l’orario consueto; ma l’alternativa serale sarebbe stata quella di consumare il tempo tra pettegolezzi e vuote disquisizioni calcistiche all’angolo della piazza, in qualche bar o nell’interminabile struscio nel corso principale, avanti e indietro come pendoli umani di orologi a muro.

    L’inverno era sembrato interminabile all’ombra di quell’invisibile vortice di inedia che avvolgeva il piccolo paese lucano. Nevicate abbondanti, piogge torrenziali e tempeste di vento l’avevano reso odioso e l’arrivo della primavera sembrava la fine di un incubo.

    Diversi giorni prima mi era giunto l’invito di vecchi amici e compagni di scuola, che avevano fatto delle cene serali una consuetudine, di programmarne una, che si annunciava pantagruelica, in una taverna nel centro storico del mio paese, Montalbano Jonico.

    Non avevo resistito al richiamo dell’allegra combriccola. Quell’annunciato amarcord però non mi suscitava grande entusiasmo, ma piuttosto una malinconica nostalgia per i tempi della giovinezza e i commensali ora mi apparivano diversi, lontani, logorati dal tempo e privati per sempre di ogni giovanile e spontaneo entusiasmo verso la vita. Rievocare dunque i bei tempi andati, la spensieratezza, le risate per un nonnulla, le sbornie incoscienti, e quel filo di stupidità che teneva tutto insieme, ero certo che avrebbe dato a quella serata un sottofondo di celata tristezza e che non avrei mai più replicato l’evento.

    Il tempo della vita ha le sue tappe: L’uomo non si bagna mai due volte nello stesso fiume. Questa massima dei Frammenti di Eraclito l’avevo ormai da tempo metabolizzata.

    Il tempo scorre inesorabile, impossibile replicare le emozioni, riviverle con la stessa intensità. Ma spesso gli eventi ci trascinano e quasi sempre non abbiamo motivi e volontà sufficiente per opporci.

    Accettai dunque di buon grado e la sera stabilita arrivai prima di tutti in quell’androne antico che immetteva nella taverna.

    Già dal primo pomeriggio il cielo non annunciava nulla di buono e marzo non si era smentito: pioveva a dirotto, c’era nebbia e vento ed era buio pesto quando giunsi. Non senza difficoltà individuai l’ingresso della taverna; la pioggia torrenziale e il gioco delle ombre scure rendevano tutto più complicato.

    Il buio, la pioggia, la solitudine, il silenzio, i muri cadenti, gli odori antichi: riparai sotto un arco di ingresso di architettura saracena di una abitazione abbandonata e in quell’atmosfera mi sembrava di avvertire delle presenze e di essere in un’epoca indefinita.

    Era una sensazione di pienezza, di appagamento, di piacere non effimero; l’animo era come trasportato al di là del tempo e dello spazio, in un mondo che non c’era più storicamente, ma era pur presente; l’avevo evocato senza una ragione e un atto di volontà e la solidità materiale si era sciolta nell’incanto primordiale e immateriale delle cose.

    Non vi erano più confini, tutto ciò che mi circondava si perdeva nel balenio dell’eco lontana dell’unità assoluta e invisibile da cui ogni cosa proviene e ogni cosa ritorna.Il mistero del tempo e dello spazio si svelava nella percezione di un infinito presente. A riportarmi alla realtà di pietre e mattoni tenuti insieme da paglia e malta fu l’arrivo degli altri invitati. Fummo in tutto una quindicina e il menù programmato era abbondante.

    Non fui competitivo, ma andai molto oltre le mie ormai consolidate abitudini frugali e, quando alle quattro di mattina decidemmo di rientrare, quell’angolo del centro storico precipitò nuovamente nell’immaterialità, al di là del tempo, e venni assalito da una inspiegabile voglia di scandagliare il passato, di cercare nei suoi angoli più remoti, tra strade, vicoli e palazzi, il respiro degli avi stampato su quei muri, le loro vite, i loro sogni, le loro tragedie. Fu allora che decisi di dedicare una di quelle mattinate di primavera a una silenziosa passeggiata tra strade, piazze e vicoli che avevano iniziato a popolarsi da oltre duemila anni, intorno al II secolo a.C. o forse anche prima.

    La curiosità mi spinse nei giorni successivi a leggere tutto quello che potevo sulla parte antica del mio paese, a interrogare anziani e rampolli di famiglie storiche, a fantasticare su misteri e leggende, a scavare nella mia memoria ricordi sepolti, ma mai cancellati.

    Attesi quella splendida giornata di sole, uscii di casa all’alba e mi incamminai verso il centro storico: abbandonato, spopolato, desolato, decaduto e decadente, come tanti nei paesi del sud Italia, mi sembrava come un vecchio rassegnato all’inesorabile deperimento del corpo di cui nessuno si prende cura e che muove a compassione.

    Vestigia del passato, residui di vita vissuta, angoli di mondo, scarti del tempo che li ha inesorabilmente inghiottiti, sepolti nei ricordi o nell’oblio, i borghi antichi sono secoli di storia lasciati lì a marcire tra tetti squarciati, erba sui muri e dentro di essi. In cerca di luce l’erba si incunea tra le crepe e guadagna l’uscita; molte pareti di pietre e mattoni sono puntellate da anni, persino un albero è cresciuto su di un balcone cadente.

    Chiuso da due cinte murarie, una normanna e l’altra rinascimentale, nel centro storico di Montalbano Jonico che stavo per raggiungere, per oltre venti secoli o forse di più, si sono consumate vite, amori, tragedie; lì i destini di uomini e di donne si sono incrociati come una inestricabile ragnatela; quelle mura sono testimoni di gioie, pianti, lamenti funebri, sentimenti dalle mille sfumature, mille contraddizioni umane.

    Ora fanno tenerezza quei muri cadenti, quelle storie, quei sentimenti, quelle passioni che hanno consumato quelle vite, le stesse che consumano le nostre ogni giorno, ogni attimo.

    Basta staccarsene, osservare tutto con sguardo disincantato, perché un moto di compassione le avvolga in un groviglio di assurdità.

    Camminando nel silenzio per quei vicoli, si avvertono presenze che nessuna parola può dire, si ascoltano gli echi di pianti, risa, urla, rumori persi nel tempo e nella storia, i cui riverberi risuonano tra quelle pietre e quei mattoni antichi, nelle case abbandonate, tra tetti scoperchiati, nel silenzio degli angoli bui e deserti.

    Dei pochi abitanti rimasti molti sono stranieri, ignari della storia di quei luoghi, tanti sono anziani e alcuni sono indigenti. Quest’ultimi, pochi, vivono senza acqua e servizi igienici, ma non se ne dolgono, sembrano sereni; il tempo della storia si è arrestato sull’uscio delle loro abitazioni.

    La mia generazione ha vissuto in quelle case l’infanzia senza televisore, poi ce ne fu uno solo in bianco e nero per ogni quartiere, senza telefono in casa, senza computer e cellulare.

    La sera d’inverno davanti al camino o al braciere con i carboni ardenti, i racconti dei nonni, degli zii, delle madri e dei padri o dei vicini di casa riempivano le serate.

    Loro erano maestri della narrazione, nelle parole, nei gesti, nelle emozioni che sapevano trasmetterci.

    Noi con gli occhi sgranati seguivamo il loro incedere narrativo, lento, minuzioso, mimico; rivivevamo quei fatti che ci raccontavano con gli occhi della mente; quelle storie di uomini e di donne erano i nostri film, le nostre fiction, i nostri giochi virtuali, ma con emozioni vere.

    La loro maestria narrativa era ineguagliabile e, quella mattina, davanti alla casa dove aveva vissuto, poco prima di Porta San Pietro o Porta Pandosia, sembrò materializzarsi il volto di mio nonno con i suoi lineamenti greci, il suo cappello che toglieva solo per andare a letto o pranzare, perché il cibo a tavola ce lo dava Dio e per rispetto il capo doveva essere scoperto, il suo gilet nero, il suo orologio da tasca, il suo bastone; mi sembrò di udire la sua voce che narrava, davanti al camino in una fredda serata invernale, dopo una cena essenziale, avvenimenti che avevano segnato la sua vita ed episodi di guerra, della prima guerra mondiale.

    Ricordai il suo volto raggiante quando per strada incontrava qualche reduce della seconda guerra mondiale, dopo aver risposto al saluto portando la mano al cappello e scambiato qualche parola, non perdeva mai occasione per concludere con la frase: «E ricordati sempre che noi la guerra l’abbiamo vinta e voi l’avete persa».

    Era un adolescente quando gli capitò un incontro memorabile, aveva appena dodici anni nel 1900.

    Mio nonno quando iniziava un racconto aggiungeva altra legna nel camino e poi si spostava leggermente il cappello in testa più indietro, come a voler liberare i ricordi.

    Stava andando a cavallo verso il castello di Policoro. Lì c’era uno spaccio, doveva fare delle compere per conto della famiglia. Passò vicino al bosco umido Pantano, il più vasto del sud Italia, oggi ridotto a poche centinaia di ettari.

    Un uomo a piedi, con le redini di un cavallo dal manto nero tra le mani, sbucò tra gli alberi. Coppola schiacciata in testa, alto, baffi, barba incolta, viso lungo dai tratti marcati e sguardo determinato, l’uomo gli chiese di fermarsi e di scendere da cavallo.

    Lui obbedì.

    «Guardami negli occhi», gli disse quell’uomo.

    «Come ti chiami?».

    «Giambattista», fu immediata la risposta, «Ma mi chiamano tutti Titta».

    «Allora ascolta bene, Titta», l’uomo tirò fuori dei soldi da una tasca della giacca, «con questi soldi comprami dieci scatole di sigari toscani e dieci di fiammiferi. Non devi dire nulla a nessuno di questo incontro. Io ti aspetterò qui. Tra quanto tempo ripasserai?».

    «Tra poco più di un’ora», rispose mio nonno.

    «Bene, mi raccomando, so che mi posso fidare, te lo leggo negli occhi. Non ti farò del male. Fidati anche tu della mia parola».

    Tornò prima di un’ora mio nonno. Era in ansia, ma non aveva paura, quell’uomo dall’aspetto severo lo aveva tranquillizzato.

    Lo trovò ad aspettarlo nascosto tra gli alberi.

    «Sei stato di parola?», gli disse l’uomo.

    «Non ho detto nulla a nessuno», rispose mio nonno. L’uomo gli accarezzò il mento, gli regalò qualche soldo. Mio nonno non voleva prenderli, ma cedette all’insistenza.

    «Titta», gli disse l’uomo, «non rivelarlo a nessuno, ma un giorno potrai raccontarlo: oggi hai incontrato Giuseppe Musolino, mi chiamano il re dell’Aspromonte, mi considerano un brigante, ma io volevo fare una vita tranquilla da taglialegna e carbonaio, sposarmi con la ragazza che amo, avere dei figli. Sono stato condannato a ventiquattro anni di carcere per un omicidio che non ho commesso. Sono riuscito a scappare e mi sono vendicato con quelli che mi avevano ingiustamente accusato. Di me sentirai parlare ancora, sono una vittima di una sentenza basata su false testimonianze e non sopporto le ingiustizie. Esse mi hanno rovinato la vita. So che prima o poi mi prenderanno. Intanto resto libero finché posso, fino a quando tutti gli autori della mia rovina non avranno saldato il conto, tutti. Un giorno potrai dire di avermi incontrato, per ora taci con chiunque. È un segreto tra me e te. E ora puoi andare».

    Mio nonno stette ad ascoltarlo con il cuore in gola, gli promise silenzio, poi si scambiarono un sorriso e Giuseppe Musolino scomparve nella foresta umida.

    Musolino, che era nato il 24 settembre del 1876, due anni prima era stato condannato per omicidio, era riuscito a evadere dando subito inizio alle sue vendette e l’anno dopo quell’incontro, nel 1901, era stato nuovamente arrestato e processato.

    Condannato all’ergastolo e a otto anni di isolamento in cella, nel 1946 venne trasferito nel manicomio di Reggio Calabria e morì il 22 gennaio del 1956.

    Su Musolino sono stati scritti libri ed è stato realizzato un film nel 1950 interpretato da Amedeo Nazzari. Di lui si occuparono anche giornali stranieri.

    Una ragazza che amava e da cui era ricambiato lo aiutò a darsi alla macchia sui monti calabresi. Lei venne uccisa davanti a una chiesa di un santuario, sull’Aspromonte. Musolino eliminò, dopo una dura lotta corpo a corpo, anche il vero autore dell’omicidio che lo aveva portato alla condanna.

    Commise cinque omicidi e quattro tentati omicidi.

    Per il popolo calabrese era un mito, un eroe, uno che era riuscito a ribellarsi a una giustizia allora considerata corrotta e malata, un uomo coraggioso, che non faceva del male a nessuno del popolo, ma si faceva giustizia da solo. Per questo godette di sostegno e coperture da parte di gente comune, poi decise di andare al nord per chiedere la grazia al Re, ma per puro caso in provincia di Pesaro venne catturato da due carabinieri.

    La storia completa della sua vita mio nonno la lesse molti anni dopo sulla Domenica del Corriere. Il settimanale gli dedicò anche la copertina e quel numero lo conservò gelosamente.

    Con una punta d’orgoglio ogni qual volta narrava quell’episodio, mio nonno concludeva sempre, come un tormentone, così: «Ho conosciuto il brigante Musolino».

    Alla vigilia della prima guerra mondiale conobbe mia nonna appena quindicenne e si sposò. Nacque la primogenita e, pochi mesi dopo, dovette partire per le armi.

    D’inverno gli episodi della prima guerra mondiale, che lo avevano visto protagonista o spettatore, davanti al camino diventavano dei reality narrati insuperabili.

    Una mattina, sul Carso, il freddo era pungente; giunse l’allarme che di lì a poco gli austriaci avrebbero iniziato a tirare di mortaio. Lui con altri soldati valutò la loro posizione e la giudicò insicura; decisero così di spostarsi e di cercare riparo dietro a una roccia. Non tutti furono d’accordo e, tra loro, un suo compaesano che decise di non muoversi da quel posto. Di lì a poco i colpi di cannone incominciarono a ripetersi in una successione sempre più ravvicinata e andarono avanti per molte ore. Quando furono cessati, il silenzio sembrò irreale e il vento di montagna riprese a fischiare forte. Ritornarono lì dove avevano lasciato i loro commilitoni e la scena che si presentò ai loro occhi fu agghiacciante: alcuni di loro erano stati colpiti dalle schegge, i feriti vennero subito soccorsi e trasportati all’ospedale del campo, i morti vennero seppelliti in una fossa comune.

    In quella prima vera guerra moderna furono nove milioni i morti tra i soldati e cinque tra i civili; venne inaugurata la morte di massa.

    Mio nonno vide il suo compaesano rannicchiato su se stesso e il sangue copioso sui suoi pantaloni non lasciò spazio alla speranza: aveva il ventre squarciato.

    «Se mi avesse dato retta», disse, «non sarebbe morto. Ma quando il destino ti chiama…».

    Mio nonno incedeva nel racconto con lentezza, come per darci il tempo di elaborare le immagini, di visualizzarle nella fantasia, di osservarle come davanti ai fotogrammi di una pellicola che scorreva lenta, senza alcuna fretta.

    Un giorno lo misero di guardia in un posto riparato, una nicchia naturale in una roccia, e fu lì che prese l’abitudine di fumare il mezzo sigaro toscano al contrario, cioè con la parte accesa in bocca, perché al buio non si vedesse nulla.

    Una modalità che condivideva con tutti gli altri soldati che fumavano, perché di notte non dovevano dare riferimenti al nemico.

    Chiuso nel suo mantello nero a ruota, con il mezzo sigaro al contrario in bocca e il colpo in canna al fucile, lui doveva stare di guardia affinché nessun austriaco si avvicinasse per lanciare granate.

    All’imbrunire, vide un soldato austriaco, alto, giovane. Doveva sparargli ma in un attimo realizzò che dall’altra parte c’era un giovane come lui, con una famiglia, degli affetti, una mamma, ma doveva sparargli per l’incolumità di altri giovani, per la sua stessa vita:

    «È la dura legge della guerra», disse. «La guerra è brutta», aggiunse.

    Doveva colpirlo per forza, ma non ebbe il coraggio di puntare alle parti alte del corpo e gli tirò alle gambe.

    Il giovane austriaco cadde e da quel momento per due giorni e due notti iniziò un violento scontro a colpi di mortaio.

    Lui stette lì, sotto quella volta naturale, seduto o steso per terra per evitare le schegge, gli fecero compagnia il mezzo sigaro toscano e la borraccia dell’acqua e il rumore assordante dei cannoni.

    Al termine del racconto mio nonno si accese il mezzo sigaro toscano direttamente dalla brace, mise in bocca la parte accesa e incominciò a sbuffare ritmicamente nuvole di fumo.

    Fu in quel momento che mia nonna intervenne. Indaffarata nelle faccende domestiche non si era seduta un attimo quella sera ed era sembrata assente.

    «Sono tempi brutti quando c’è la guerra. Noi ne abbiamo vissute due: la prima e la seconda e ormai siamo vecchi non faremo in tempo a vedere la terza. Quando lui era in guerra, arrivò anche la Spagnola e in tanti morirono. Io mi ammalai, ma grazie a Dio mi ripresi».

    Per mia nonna ormai la guerra era una calamità inevitabile come la pioggia, la neve, il vento; poi ricordò che il primo morto per la Spagnola, era stata una ragazzina: Grazia.

    Nel 1918 il paese era stremato: tanti ragazzi al fronte, famiglie, amici, consorti e fidanzate in ansia; i beni di prima necessità che scarseggiavano e le condizioni igieniche precarie. La guerra era lontana e le notizie di vittorie e sconfitte, di ritirate, avanzate e atti eroici, di morti e di feriti si alternavano frammentarie da due anni.

    L’inverno quell’anno non voleva finire e dopo alcune giornate di sole, alla fine di marzo tornarono le nuvole e il freddo. Una notte, nei primi giorni di aprile, il freddo era intenso, il cielo stellato era impedito da dense nuvole nere, il vento da nord smise di soffiare e incominciarono a cadere i primi fiocchi di neve. La mattina dopo il paese era bloccato, tanta neve dappertutto e gli occhi esperti dei contadini osservando le nuvole facevano previsioni poco rassicuranti anche per le ore successive.

    La neve ad aprile non cadeva da anni.

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