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I colori del tempo
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E-book241 pagine3 ore

I colori del tempo

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Info su questo ebook

Cosa succede quando, dopo un temporale, il cielo è ancora per metà buio e la luce del sole attraversa le gocce di pioggia disperse nell'atmosfera?
Si forma un arco di colori. E' di questo che parla il romanzo. Di tutte le volte che una tempesta infuria, ma d'improvviso smette e torna a brillare qualcosa di più bello di prima.
Un piccolo paese arroccato sulle Dolomiti bellunesi attende ciò che tarda ad arrivare. E' proprio il filo teso del desiderio a fare da collante fra i protagonisti del romanzo, dove si intrecciano il carisma di Pasquale, la dolcezza di Rosa, il coraggio di Caterina e la sensibilità di Oliviero.
Un tuffo nelle sfumature della vita, cullati dalle sue onde dolcissime, talvolta sorpresi da quelle impetuose. Il tema centrale è la famiglia, il perno attorno al quale condividere le proprie scelte, le sconfitte e le rinascite. La forza dell’amore si mescola alle lacrime gonfie di speranza, fra l'incanto dei boschi montani e l'Africa potente e affascinante.  
E se, finalmente, i sogni si avverano, è perché ogni nuovo colore contribuisce ad arricchire il meraviglioso quadro che è la vita.
 
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2020
ISBN9788835386957
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    Anteprima del libro

    I colori del tempo - Chiara Sbrissa

    Flounders

    Prefazione

    Il coraggio di inseguire i propri sogni e aprire le ali la- sciando la nostra comfort zone .

    L’amore che è pàthos : ci scuote dentro rendendoci vulnerabili, ma ci dà anche la forza per superare gli ostacoli impervi che la vita ci presenta.

    La consapevolezza di vivere hic et nunc , qui e ora, assaporando ogni sfumatura della vita, tutti i colori del tempo.

    La bellezza della vita che sa sorprenderci quando meno ce l’aspettiamo: anime destinate a incontrarsi che si perdono per abbracciarsi quando scatta il loro timing

    Chiara Sbrissa racconta tutto questo (e molto altro), conducendoci dentro la storia di una famiglia apparentemente comune, in cui tutti possiamo immedesimarci. Una famiglia straordinaria, per l’energia dei sentimenti che coinvolgono e travolgono.

    Un viaggio che fa riflettere, commuovere, abbandonare le paure e lasciarsi andare, per essere felici.

    Maria Chiara Pellizzari

    Prologo

    Rosa si avvicinò alla vetrata, gli occhi vibravano al chiarore della luna che vegliava le cime addormentate.

    Aveva sempre quel modo di guardare alla finestra, quel modo che Caterina, sua figlia, ricordava fin da bambina. Se contasse i larici mossi dal vento, le civette bianche in volo, oppure le stelle, non gliel'aveva mai chiesto.

    In quel momento capì che sua madre era in ascolto del proprio cuore. Rosa si voltò e, dal modo in cui le sorrise, Caterina comprese che aveva capito il segreto che custodiva.

    Tornando a fissare il profilo delle montagne sprofondare nella bolla del cielo stellato, sussurrò alla figlia: Sarà quell ’amore a dare un senso al tutto, a tenerti sveglia nel mezzo della notte, a chiederti se stai facendo abbastanza. Perderai te stessa in quell’amore, perché capirai che la sua felicità si porta dietro la tua, le si appiccica addosso, come lo strato di pelle ai muscoli. L’alba brillerà di una luce diversa, coglierai il primo fiore di marzo, il tramonto arriverà più tardi. Ti sorprenderai nel constatare di avere più fiato per correre oltre confini mai raggiunti e non sentirne la fatica. Vedrai nei suoi occhi i tuoi, vedrai lo specchio delle tue speranze e il volo che farà prendere ai suoi sogni.

    Caterina, dopo gli ultimi anni distanti spesi a disinfettare le ferite dell’anima, a ricucire i lembi di un mondo che ora, forse, sentiva più suo, ritrovò il senso di tutto nell’abbraccio della madre.

    Lì, nello stesso punto da cui era partita sei anni prima, con uno zaino sgualcito dagli anni di liceo, una manciata di buoni propositi e una serie infinita di dubbi. Aveva diciannove anni e i l cuore che scalpitava. Le ultime scie dell’adolescenza si aggrappavano alla vita adulta che vedeva decollare dall’alto delle sue montagne, ancora incerta su che rotta farle prendere. Ora la rotta era chiara.

    Durante quell’abbraccio Caterina sentì sulla pelle il sole che brucia, la fatica della sfida nell’arrivare dove nessuno vorrebbe andare, il sudore della quotidiana guerra per sopravvivere. Sentì sulle labbra il profumo del mare unirsi a quello della neve del luo go in cui era nata. Sentì nei suoi occhi le lacrime di sua madre piangere di gioia.

    Soprattutto sentì nel cuore accadere qualcosa di strano, lo sentì riempirsi di tanti colori.

    Avvertì il verde dei prati dell’infanzia mescolarsi all’azzurro dell’oceano e degli occhi di cui era innamorata, l’oro della gioventù mescolarsi al rosso del sangue della sua terra lontana, il bianco dei momenti tristi passati mescolarsi al rosa di una nuova vita.

    Capì che se ogni tempo trascorso aveva un colore, il tempo che stava vivendo li conteneva tutti. Sentì la potenza di ognuno di quei colori, che legati assieme creavano la cosa più meravigliosa: la Caterina di oggi. Guardò alla finestra: una piccola stella scintillava nel cielo e sentì di non avere paura.

    1. Attese

    Dicembre 2003

    Tutti la aspettavano con trepidazione, sentimento che per taluni era divampato in bramosia, per altri degenerato in rabbia e per i più pessimis ti si era spento in una rassegnazione malinconica che li rendeva silenziosi. Le pupille zigzagavano lente sul profilo argenteo delle rocce che si stagliava netto all’orizzonte. La si poteva vedere nell’aria, l’attesa: una rete dalle trame sottili che avvolgeva l’intero paese di Serdes.

    Il cappello da alpino del vecchio Battista faceva capolino dal terrazzo del secondo piano. Dalla grondaia spuntava una stella cometa sgangherata e così intrisa di polvere che dava l’idea di essere lì da almeno mezzo secolo, un pezzo di coda si era rotto una generazione addietro. Battista osservava con occhi liquidi il cielo, suo interlocutore fedele. Non che la superficie opalescente che lo sovrastava gli donasse segnali confortanti.

    In cucina il cotechino ribolliva nella pentola tanto da far vibrare i vetri quanto lo stomaco. Accidenti che buongiorno lusinghiero, l’odore di grasso di carne evaporato e questo traballare insidioso di prima mattina, pensò. Avrebbero dovuto cambiare i serramenti dodici anni addietro, assecondando l’insistenza del figlio Gianfranco. Ma ormai non se ne era più parlato, come di diverse cose del resto. Il tempo consumava silenziosamente la materia, i giorni, il mondo, senza che grosse preoccupazioni sconvolgessero il vecchio Battista e la moglie Giulietta.

    Se non questa : il fatto che non fosse ancora arrivata. Come un fiotto di acqua gelida che s’insinua nella roccia erodendola, questa cosa scavava nel suo cuore una stretta voragine di tristezza e non gli dava pace. E sembrava non dare pace a nessuno in quel paesino immerso nelle Dolomiti Bellunesi: una chiesa, un piccolo supermercato e duecentodiciannove anime.

    Anzi duecentodiciotto, perché la Antonietta Callegari era passata a miglior vita due settimane prima, con funerali di Stato che avevano coinvolto le maggiori personalità della vallata, accorse cinque per macchina nelle loro auto diplomatiche, le Panda Van quattro per quattro. Un corteo funebre interminabile aveva gonfiato le strade strette. Si era snodato fra i vicoli di acciottolato, capeggiato dalle figlie in riga che parevano strette in un unico cappotto scuro, i volti nascosti dalle velette nere.

    Battista valutava forma e consistenza delle nubi oltre il versante orientale. Una miriade di striature biancastre, sottili, che terminavano a ricciolo. Erano ancora troppo alte. Un sole pigro si ostinava a sonnecchiare come se uno strato lattiginoso e opaco non permettesse ai raggi di filtrare. Era il 31 dicembre e non era ancora arrivata.

    E forse chi ne soffriva di più fra questi duecentodiciotto era Pasquale Castaldo.

    Se c’era qualche essere umano che potesse incarnare l’ideale di forza d’animo ed energia, questo era lui. Sprigionava quel genere di luce tale da abbagliare ogni persona s’imbattesse nella sua carismatica figura. Il suo vigore riempiva ogni luogo in cui gravitasse e ingigantiva anche le sue, tutt’altro che monumentali, caratteristiche fisiche. Centosettantatré centimetri di esplosività pura, per cui, semplicemente, titaneggiava. Per l’intera comunità di Serdes, Pasquale Castaldo era una sorta di prodigio umano.

    Viveva in paese da venticinque anni. E non si capacitava di dover festeggiare il suo anniversario senza ciò che desiderava con ardore.

    Arrivò a Serdes il 21 ottobre 1978 con la sua Peugeot 206 strabordante di roba tanto che pareva scoppiare. La radio non ci stava da nessuna parte, per cui se l’era tenuta sopra le ginocchia (il bagagliaio, quello no, non era riuscito a chiuderlo; peccato che non ci si potesse sedere sopra, come aveva fatto con ciascuna delle sue valigie e fortuna che ancora non esistevano le spie luminose, altrimenti col picchio che si sarebbe fatto ottocentosessantasette chilometri con il bip-bip). A ogni modo parcheggiò l’auto in piazza e lui e Rosa vi trovarono una trentina di persone accorse per curiosare, non per dare il benvenuto. Tutti s’improvvisarono passanti fortuiti, ma si vedeva lontano un miglio che non erano lì per caso, se non altro per le occhiate profonde e inquietanti che lanciavano alla coppia. Solo allora Pasquale Castaldo si accorse di essere in maniche corte, quando tutti i presenti erano ben incappottati. Certo faceva freddo, ma mica poteva farsi vedere un pivoncello. Continuò imperturbabile l’avanzare solenne con la sua bella al fianco. Sotto gli occhi e il brusio generale presero una cioccolata calda da Gelindo, lo storico e unico bar di Serdes, e si attardarono di fronte alla vetrina del negozio di mercerie di Gina. Esposto a quel ventaccio, Pasquale era consapevole di rischiare una broncopolmonite. Rosa gli aveva detto che sarebbe stato freddo, ma non pensava così freddo, giù da lui erano almeno venticinque gradi.

    Che è già in stato la Rosa che guardano i corredini da neonato? La succosa domanda di Antonia gettò la più morbosa delle curiosità fra le donne assiepate dietro il monumento ai caduti. In realtà solo per quattro quinti la vetrina esponeva vestiti da bambino, ma si sa l’immaginazione femminile è fervida come una fiamma impazzita.

    In effetti la mi sembra più rotondetta , insinuò Donatella con una certa malizia.

    Il giorno di Santo Stefano Pasquale si sarebbe sposato con Rosa, la figlia del maresciallo. E fin qui tutto bene. Se non fosse che lui era bruciato dal sole, aveva i lineamenti eccezionalmente neri e, soprattutto, veniva da Villagioiosa. Ma dove è Villagioiosa? questo fu l’interrogativo che animò le menti montane per i due mesi a seguire. Qualcuno ipotizzò fosse un’isola al largo della Tunisia (no, quella era Pantelleria), altri furono per lungo tempo convinti fosse vicino a Messina (no, quella era Villafranca Tirrena). Ci volle la competenza geografica di Matteo Baldissera, il primo, e fino ad allora unico, laureato in paese, a illuminare la comunità sull’esatta posizione di Villagioiosa. Vicino a Napoli. Poco cambiava. In ogni caso, un altro pianeta. Un po’ come dire Saturno o giù di lì.

    Per il matrimonio accorsero centoquindici persone da quell’angolo remoto del sistema solare. Gli svolazzanti abiti primaverili che indossavano erano di per sé emblematici della loro provenienza lontana.

    Le sorelle Sorarù sbirciavano dal balcone i volti olivastri di quegli strani ospiti che saltavano come conigli nel sagrato, lanciando risi a ogni passante. Ancora non si capacitavano di come l’angelica figlia del plurimedagliato maresciallo Dolzan potesse essersi appena impalmata a quello scugnizzo. Gli schiamazzi dei foresti (così ribattezzarono i napoletani) echeggiavano in tutta la vallata turbandone la quiete serafica e il loro appuntamento quotidiano con la telenovela delle ore tredici. Mai si era sentito un tale trambusto.

    I foresti odoravano di babà al rum e tamerici, profumi che si mischiarono con quelli del muschio e della neve. Ne venne fuori un mescolamento poliedrico, un connubio eclettico, incorniciato dalla magia della vallata completamente bianca.

    Inizialmente il rapporto fra Pasquale Castaldo e gli abitanti del paese fu piuttosto ostico e in salita, come si concerne a tutte le cose trapiantate in territorio alpin o. Infatti fu accolto con un certo, chiamiamolo eufemisticamente, scetticismo. Più per la ritrosa chiusura della comunità locale che si dimostrava interdetta di fronte alla calda esuberanza di quell’esemplare spavaldo. Tuttavia, dopo alcune settimane, gli abitanti di Serdes non poterono fare a meno di entrare in empatia con lui. E fu chiaro a tutti che la luce che Pasquale dispensava con tanta solerzia aveva effetti più che positivi. Un fuoco d’artificio che spri gionava un’energia tale da contagiare tutti. Tutti, senza alcuna eccezione. Anche il glaciale Fabio della ferramenta, che nessuno ricordava di aver mai visto salutare qualcuno dai tempi dell’asilo, iniziava a scongelarsi appena Pasquale faceva irruzione nella sua grigia rivendita. E quando gli suggerì di colorare le pareti, il Fabio si mise all’opera e ne uscì un negozio grazioso. Come per magia gli venne infuso il buonumore e iniziò a salutare i clienti, registrando un aumento considerevole negli incassi.

    Era forse per la sua filantropia innata, oppure semplicemente perché aveva sempre una buona idea o una parola di conforto, che Pasquale diventò in poco tempo la persona a cui chiedere un consiglio e di cui ci si poteva fidare. Insegnava nelle scuole medie del paese e nel pomeriggio dava una mano al vecchio Armando al supermercato, rimanendoci fino alla chiusura a sera inoltrata. Come se la sua giornata non fosse già abbastanza ricca di impegni, ben presto decise di dedicarsi anche alla politica, con l’obiettivo di valorizzare il potenziale del territorio. Prima fu assessore allo sport, in seguito al turismo, carica degna di particolare rilievo in un Comune dotato di un comprensorio con novanta chilometri di piste da sci.

    Senza contare tutti gli impegni e le investiture di presidente onorario e/o consigliere di società pluridisciplinari, per cui era diventato una sorta di factotum.

    Grazie al pressoché unanime consenso dell’intera comunità, la sua ascesa politica trovò strada spianata e, visti i risultati brillanti che era riuscito a concretizzare (il nuovo palasport, l’associazione degli albergatori della vallata, gli ottimi piazzamenti della scuola di sci) in molti desideravano vederlo presto sedere sulla poltrona di sindaco.

    Pasquale si mordeva nervosamente le labbra mentre i suoi passi scivolavano veloci a ridosso del filare dei sorbi degli uccellatori. Le loro bacche vermiglio punteggiavano i rami spogli. Nel letto asciutto del sofferente Cordevo le, un rigagnolo d’acqua scorreva fra le rocce. Tutto era così dannatamente secco che anche nell’animo di Pasquale si specchiava un’aridità inconsueta. La vallata color ocra era sovrastata dalle montagne, verdi come non mai. T ristemente seduto sul trono più alto del cielo, il monte Civetta emergeva in una mestizia vigorosa, nostalgica del candore degli inverni passati.

    ***

    Le fiamme si allungavano ai sussulti di un vento lieve. Il lago era solo in parte ghiacciato, i sospiri delle onde s’infrangevano con ritmo regolare sull’argine. Il bagliore delle candele si rifletteva sulle acque, creando un doppio cerchio di stelle. Le luci scintillavano ai piedi delle montagne, un suggestivo cielo ribaltato.

    Per gli abitanti di Serdes la fiaccolata di San Silvestro era un appuntamento annuale, che precedeva il veglione di fine d’anno.

    Giunti presso il rifugio Diaz, il sindaco Alfonso Tesser diede come sempre sfogo alle proprie, a suo dire sottovalutate, doti canore.

    Adeste fideles/laeti triumphantes/venite venite in Bethlehem/natum videte regem angelorum/venite adoremus, venite adoremus Dominum.

    Il viso statuario, illuminato dalle fiammelle intermittenti, incuteva una certa inquietudin e, non solo per il colorito spettrale, ma soprattutto perché cantava a labbra inspiegabilmente socchiuse senza coinvolgere nessun altro elemento del volto allungato. Da una fessura piccolissima sprigionava un timbro potente da tenore tale da scuotere come foglioline i malcapitati che gli erano davanti e da spegnere qualche candela. Sfortunatamente Pasquale e Rosa si trovavano nei paraggi delle sorelle Sorarù, che seguirono con vigoria l’invito canoro del sindaco. Le loro voci acutissime (e ahimè stonate) storpiavano maccheronicamente il latino e arrecavano danni irreparabili all’udito.

    Buona fine anno a tutti e speriamo che arrivi presto , proclamò Alfonso Tesser alla fine della sua performance.

    Dall’impellicciamento generale spuntò una voce argentea, non autoctona: Cosa?

    Tutti i presenti si voltarono a squadrare il temerario esemplare umano che aveva osato porre un simile interrogativo circa l’innominabile.

    Cosa? ripeté la donna con una certa ingenuità, ricevendo la gomitata poco elegante del distinto consorte.

    Alfonso Tesser sfoderò uno dei suoi rari sorrisi e con lentezza disarmante sillabò: La neve, signora, noi tutti stiamo aspettando la neve.

    Un vento freddo si sollevò dai larici del bosco, filtrando fra la gente in un movimento furtivo.

    Pasquale Castaldo pose fine al silenzio che era a un tratto calato. Iniziò a divincolarsi fra il folto pubblico, dispensando a tutti strette di mano beneauguranti per l’imminente cambio dell’anno. Nelle ultime settimane era stato talmente preso dal problema della mancanza di neve che, a differenza di tutti gli anni precedenti, non aveva ancora fatto il suo bilancio personale dell’anno vecchio e i buoni propositi per quello nuovo.

    Il fatto che non avesse ancora nevicato, per un paese montano che vive di turismo era, chiaramente, una tragedia di immane portata. Considerevoli erano infatti i danni: impianti in tilt, cancellazion e di prenotazioni, frustrazione di sciatori e albergatori. Senza contare le onerose spese per la neve artificiale che, vist e le alte temperature, sotto i 1700 metri si scioglieva con facilità.

    Pasquale e Rosa s’incamminarono verso casa. Le montagne parevano giganteschi gatti neri acciambellati nel sonno. Una luce fioca, immersa fra gli alberi del pendio più a occidente , risvegliò un pensiero in Pasquale, illuminandogli la mente.

    Lì abitava Felicita, la misteriosa cartomante, strega o maga dei boschi, come la si voleva chiamare. Godeva di una certa notorietà in paese, dove tutti ne parlavano senza mai ammettere di esserci stati. In piazza ovviamente non si faceva mai vedere, si diceva che non uscisse di casa da almeno trent’anni e che sua sorella le recapitasse i viveri due volte al mese.

    Pasquale era stato da lei una sola volta, vent’anni prima. Allora era tormentato dal fatto che, dopo cinque anni di matrimonio, di figli non ne erano ancora arrivati. Felicita ci imbroccò, gli disse che di lì a quattro lune piene, Rosa sarebbe rimasta incinta di due gemelli, un maschio e una femmina. E così fu. Con incredibile tempismo. Fissando quella luce librarsi quasi sospesa fra le montagne, Pasquale decise che l’indomani sarebbe tornato da Felicita e le avrebbe chiesto circa la neve. Doveva avere una data.

    ***

    Il primo gennaio si aprì con il più terso dei cieli e un sole che aveva trionfalmente preso il testimone del nuovo anno. Con le palpebre ancora stropicciate Pasquale Castaldo baciò la moglie ricordandole che la amava più di qualsiasi altra cosa. Il caffè gli scivolò nello stomaco tentando di spazzare via il retrogusto dello stinco della sera prima. Suo figlio Oliviero dormiva ancora pacifico e l’avrebbe fatto fino a pomeriggio inoltrato. La figlia Caterina, invece era già operativa, immersa nella lettura di un nuovo romanzo davanti a una tazza fumante di melissa.

    Avvisando che sarebbe tornato di lì a un’oretta, Pasquale affrontò l’aria

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