Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il suono di Torino
Il suono di Torino
Il suono di Torino
E-book308 pagine4 ore

Il suono di Torino

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

30 storie su Torino, 30 racconti per immergerci senza tirare il fiato nelle realtà più oscure di una città apparentemente regolare e senza angoli nascosti. 30 graffi che tratteggiano l’ex Motorcity italiana a sprazzi, a scatti nervosi e passionali: il metallo della storia politica e criminale, musicale e sociale forgiato nelle boite e nelle fabbriche tra il martello della lotta e l’incudine della difesa della Libertà. 
La strage fascista del ’22, gli scioperi di guerra del ’43, l’ultima esecuzione capitale italiana nel ’47, l’immigrazione meridionale, gli anni di piombo e la Marcia dei 40 000, l’ideologia che è morta assassinata da se stessa e la disperazione di cristallo negli ipermercati di periferia, la controcultura e la lotta NoTav con le sue vittime, la musica underground e il suicidio di Salgari, la fine del “sogno industriale che si trasforma nell’incubo del declino di una Civiltà”. 
Fino ai fatti più recenti, spesso radicati nel corpo del Novecento, uniti dal battito di una colonna sonora forte e distorta, rievocata attraverso i testi duri e significativi dei gruppi underground torinesi, ma anche quelli di Dalla e Buscaglione.
30 atti d’amore e un addio. A Torino.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2018
ISBN9788899815929
Il suono di Torino

Correlato a Il suono di Torino

Ebook correlati

Arti dello spettacolo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il suono di Torino

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il suono di Torino - Domenico Mungo

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    1. IL SUONO DI TORINO - INTRODUZIONE ALLA LETTURA

    2. PLOTONE D’ESECUZIONE

    3. COL SETTANTADUE IN CITTÀ

    4. DELTA HOUSE

    5. FURIOSI TRENI

    6. STORIA D’AMORE, DI MORTE E D’ANARCHIA

    7. SOLUZIONE FINALE

    8. DISSONANZE POSTINDUSTRIALI

    9. METAMORFOSI OLIMPICA

    10. UN ECCIDIO RURALE

    11. UN’AUTO TARGATA TO

    12. VILLARBASSE. OMICIDI EFFERATI

    13. TANNHÄUSER. ODIO LA PIOGGIA

    14. POLVERE DI SELENIO E TURGIDI PROFILI DORMIENTI

    15. REPULISTI

    16. 5 MARZO 1943. SCIOPERO DI GUERRA!

    17. AUTUNNI CALDI.

    18. DELL’IMPLOSIONE DI UNA STELLA (ROSSA)

    19. IPERMERCATO

    20. LA STRAGE DI TORINO

    21. PRIMO TEMPO. PROLEGOMENI PER UNO SCRITTORE APOCRIFO

    22. THE SNATCH DI SAN SALVARIO

    23. IL SUONO DI TORINO

    24. LETTERA AI MIEI EDITORI

    25. THYSSENKRUPP

    26. ME NE VADO DA TORINO

    27. TORINO 2027.

    28. CRONACHE DAL MOSH PIT.

    29. LA STRAGE DEL CINEMA STATUTO

    30. ADDIO METROPOLITANO

    EPILOGO

    ©

    2018

    Miraggi Edizioni

    via Mazzini

    46

    ,

    10123

    Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: fotografia di Stefano Tumolo

    Illustrazioni di Fabrizio Visone

    Finito di stampare a Città di Castello

    nel mese di febbraio

    2018

    da CDC Artigrafiche

    per conto di Miraggi Edizioni

    su carta usomano avorio spessorata

    80

    gr

    realizzata secondo principi ecosostenibili e a basso impatto ambientale

    Edizione cartacea: febbraio

    2018

    isbn

    978-88-99815-25-7

    Edizione digitale: marzo

    2018

    isbn

    978-88-99815-92-9

    domenico mungo

    Il suono di Torino

    Racconti urbani con colonna sonora punk

    dedicato agli Indispensabili di Brecht

    Sono sicuro che non esista l'oblio totale; le tracce, una volta impresse nella memoria, sono incancellabili.

    Thomas De Quincey

    1. IL SUONO DI TORINO - INTRODUZIONE ALLA LETTURA

    Siamo il frutto marcio della decadenza urbana

    Che ha trovato il proprio senso in un’altra verità

    E non riuscirete ad annientarci a isolare il nostro germe

    Il nuovo fiore reietto colpirà eternamente.

    Nerorgasmo (Luca Bortolusso Abort, 1984)

    Ripercorrendo alcune sanguinose vicende, realmente o verosimilmente accadute come un’allegoria della verità, che costituiscono la struttura portante sociale, politica, artistica, controculturale e criminale della Torino di Fine Millennio, desidero raccontare un frammento sotterraneo della città subalpina. Voglio descrivere crimini e abusi che devono essere ricordati con la volontà di ricordare un pezzo della nostra storia attraverso la follia nascosta nelle pieghe di una metropoli che ha le sue lande desolate, i suoi luoghi franchi e le sue terre di nessuno. Si uccide e si muore per denaro, ma anche per le passioni che stravolgono l’animo. Si uccide per l’ideologia, ma soprattutto si muore per difendere un’idea di libertà, vittima della tracotanza dello Stato. Si uccide con ogni sistema disponibile, anche con la magia o la calunnia. Qualcuno sostiene che si uccide anche per compiacere il diavolo.

    Ma si uccide anche una città intera, con un piano regolatore urbanistico e uno di riconversione industriale. Uno sterminio di massa: di individui e coscienze. Di fabbriche e generazioni. Di ribelli e martiri. Di montagne e valli. Di timidi suicidi seriali.

    Questi racconti descrivono il suono di questo omicidio di massa. Un tripudio di violini elettrificati e distorti che digrignano come chitarre elettriche e bassi rutilanti e batterie di pelle umana che eiaculano un mantra cyberindustriale, sul tappeto di frequenze medie di un theremin cospirazionista.

    Una raccolta di racconti, che in realtà sottende la trama di un romanzo, se solo avessi la voglia di costruirne un pratico intreccio, che abbozzano storie oscure, imbrattate dal sangue di vittime innocenti della tracotanza e dell’avidità del Potere, sotto le più svariate, perfide, tenebrose Epifanie.

    Unico fil rouge, la colonna sonora punk: le strofe rabbiose, dilaniate, furibonde dei Nerorgasmo, distorte qua e là che emergono improvvise tra i fiumi di parole urlate da una gola recisa. Ma anche Negazione, Cesare Pavese, Church of Violence, Totozingaro Contromungo, Rough!, Refused, Fred Buscaglione, Lucio Dalla, il rumore della fabbrica, il deragliare di un treno ad alta velocità.

    Chiazze di sangue rappreso sulle pareti di un salotto liberty, attraversato da plotoni di mutanti del Tempo. Una città nella sua metamorfosi definitiva. Il sogno industriale che si trasforma nell’incubo del declino di una Civiltà, che tenta di rinascere a nuova vita.

    Torino che muore e viene resuscitata, forse, da un disinvolto trapianto neoliberista.

    Vedendola dall’alto, in specie di sera, mentre l’aereo è già in manovra d’atterraggio, Torino appare bellissima, più di molte altre metropoli. La sinuosa collina, la basilica di Superga, il nastro argenteo del Po, soprattutto se vi è la luna, il gioco prospettico dei ponti, quindi le strade ben delineate, le piazze squadrate. Si riconoscono alcuni dei più rilevanti palazzi. Come se il selenio della Luna rivestisse i suoi fianchi di polvere bianca e scintillante.

    «Tutto ciò che si può vedere sulla superficie di questa città in realtà nasconde qualcosa. Tutto quello che si osserva, anche analiticamente, conduce su false tracce. Torino è come un libro con le pagine strappate. Un monolite rettangolare, bianco come il cemento, sdraiato su un prato. Il perimetro dispiegato nel verde di una pianura sterminata, come la sagoma tracciata con il gesso sul selciato dopo che la scientifica ha effettuato i rilievi del caso sul cadavere ancora caldo. Il capo adagiato alle ruvide rotondità rocciose che stanno alle radici delle Alpi. Il corpo inerte, sgorgante sangue nero dai fori dei proiettili. Il monolite appare come squarciato longitudinalmente da una bisettrice che in origine doveva essere d’azzurro cristallino, profonda e larga.» Torino è un cavalcavia che sovrasta intersezioni ortogonali, castrum come antico accampamento dei Cesari riedificato su strati di cemento sabaudo e capitalistico. Un’arteria esangue che connette un cuore borghese alle banlieue refrattarie all’integrazione.

    Torino vista dall’alto panoramica onnisciente buchi neri profondi come i laghi della memoria, infiniti come i ricordi dei sommersi.

    Oggi è lì, grigia e melmosa di oleobondo scorrere. Vista dall’alto, la città, si nota che alcuni buchi neri ne punteggiano la granitica compattezza del monolite bianco cemento. Buchi neri profondi come i laghi e incancellabili come certi ricordi.

    Una città siffatta potrebbe nascondere fantasmi?

    Parigi li ha, Londra ne abbonda.

    Torino ne possiede il suono.

    2. PLOTONE D’ESECUZIONE

    Presto lascerò il tuo ventre caldo

    E dovrò piangere per essere nutrito

    Vomitami cagna vomitami ora

    Per non farmi piangere per non farmi umiliare

    Per non farmi convincere per non farmi soffrire

    Dovrò dimenticare tutte le verità

    Dovrò essere violentato per sapere menzogne

    Cagami cagna cagami ora

    Per non farmi piangere per non farmi umiliare

    Per non farmi convincere per non farmi soffrire

    Dovrò accettare di vivere servo

    Dovrò moltiplicare la mia stirpe dannata

    Abortiscimi cagna abortiscimi ora

    Per non farmi piangere per non farmi umiliare

    Per non farmi convincere per non farmi morire

    Nerorgasmo, «Nato morto» (parole: Luca Abort;

    musica: Simone Cinotto, 1985)

    I tre di Villarbasse, ammanettati e incatenati l’un all’altro come bestie da macello destinate alla mattanza finale, ombreggiavano ricurvi e rassegnati nella fioca luce delle torce che illuminavano il corridoio diaccio delle Carceri Nuove di Torino quella fredda alba d’estrema unzione. Era il 4 marzo del 1947, un martedì. Le febbricitanti prime luci del giorno esitavano a farsi strada in mezzo alla polvere d’umida notte trascorsa insonne che ricopriva come un sottile velo funebre i tetti delle case operaie. Padre Ruggero, il cappellano della casa circondariale torinese, somministrò loro la comunione mentre i trentasei scelbini del plotone d’esecuzione ricevevano trentasei proiettili di cui diciotto a salve per non gravarli di «inutili scrupoli di coscienza». Il nomignolo scelbini, funesto e minaccioso nei fatti molto più di quanto suggerisse la forma vezzeggiativa, indicava volgarmente i poliziotti che militavano nel famigerato Reparto Celere, istituito dal rigoroso e antipopolare ministro degli Interni Mario Scelba proprio per soffocare con decisione e chirurgica efficacia i moti di piazza, le sommosse di popolo e gli scioperi operai e contadini che rallegravano la tranquilla transizione dal regime fascista alla repubblica democratica postbellica. I celerini si distinguevano dagli altri agenti di polizia già dall’aspetto. Decisamente più marziale e inquietante: un casco nero da motociclista, cappotti con bandoliera e tascapane per i lacrimogeni, cinturone stretto in vita, manganello, moschetto e, per chiudere in bellezza, calzoni da sciatore infilati in pesanti stivali. Divennero proverbiali e temuti per la rapidità d’intervento, piombando su manifestanti e sediziosi che rivendicavano addirittura pane, lavoro e libertà, e come il Settimo Cavalleggeri: sterminare e annientare il nemico per il trionfo della giustizia e dell’ordine costituito. L’ordine di fare fuoco, quella mattina nello spiazzo nei pressi della stazione ferroviaria di Basse di Stura, invece, non doveva essere impartito con un urlo, bensì con un gesto, affinché i tre morituri non si accorgessero, bendati e rivolti di spalle, della presenza degli armati. Solo la parola fuoco! urlata in simultanea con la gragnuola di strepitanti proiettili, il cui fragore tutto squarcia e sommerge per un ridicolo e irreale istante. Il muro dietro il quale intirizziva ormai da mezz’ora il plotone d’esecuzione, era sbucciato e umido di muschio, rugiada e nebbia.

    Il sapore incolore dell’ostia era ancora incollato al palato dei tre sterminatori di Villarbasse, quando padre Ruggero aiutò i tre incatenati a darsi un aspetto virile e sprezzante infilandogli la coppola di sbieco sulla fronte. I tre, ferrati come cavalli imprigionati, curvarono le spalle prima di salire con un balzo stanco sul furgone militare Om che li attendeva nel cortile delle Nuove. Erano tre siciliani, tre assassini quanto si vuole, ma comunque tre siciliani che andavano a morire per delle colpe da espiare nei confronti del nuovo stato democratico italiano, ma né a Palermo né a Roma, bensì a Torino. Nella grigia Torino. La chiusa Torino. La savoiarda Torino. La sdegnosa e scintillante Torino della borghesia bottegaia e industriale e dell’aristocrazia parlamentare e terriera. A mille chilometri e più di distanza dagli ulivi di Mezzojuso. Dai baroni terrieri, dalle lotte dei braccianti e dalle bande concretamente mafiose e ingenuamente separatiste del Bandito Giuliano. E sicuramente un buon cinquanta per cento dei componenti di quel plotone d’esecuzione, che impaziente attendeva in un piazzale a ridosso della stazione ferroviaria di Basse di Stura, era composto da meridionali e siciliani in particolare, armati da un tozzo di pane e tanta vergogna.

    Il treno rallentò ancora. Come quando aveva rasentato il funerale rurale all’andata. Era ancora mattina presto. Anzi lo era nuovamente. La notte su quel treno era stata interminabile e dolorosa. Il sogno della zingara, il sabba dei tifosi morti, la notte di Ognissanti. Era solo a causa del sangue che ormai gli copriva gli occhi? No, la ferita nella nuca era reale. La latrina era diventata il suo microcosmo. Il suo sepolcro. La chiazza di sudore e sangue affrescava la sua sagoma adagiata stanca e vuota di forze sulla plastica marrone merda di quella trappola maleodorante lanciata a folle velocità attraverso la Pianura Padana.

    Anche il cineoperatore si era dissolto nella nebbia. E Federico ormai non chiamava più, né scriveva messaggi, né puntualizzava con appunti abbandonati qua e là su come dovesse essere fatto un vero film.

    Pareva, così si mormorava in città, che Fede fosse sparito da qualche tempo. Dissero che lo avevano visto entrare nel palazzo della Rai di via Verdi, un pomeriggio qualsiasi, prima che una furiosa carica della Celere spazzasse via un corteo di liceali assortiti che protestavano contro la legge Moratti. E che da lì non fosse mai più riemerso. Chiesero a un suo amico, un certo Enea, che lavorava come archivista nei sotterranei del palazzone di vetro e acciaio della Rai torinese, se sapesse che fine aveva fatto. Poiché lui era responsabile dell’orario e della causa dell’ingresso di Fede nella sede. Enea rispose che era vero. Che Fede era andato a trovarlo poiché aveva bisogno di effettuare alcune ricerche nell’archivio documentaristico della Rai per un film che stava girando in quel periodo. Disse Enea agli investigatori e ai poliziotti che cercavano di fare luce sulla scomparsa repentina e misteriosa del giovane filmmaker, che lo aveva lasciato nel suo ufficio mettendogli a disposizione tutto l’archivio e che, dopo essere tornato da una capatina di venti-trenta minuti al bar all’angolo, non lo aveva più trovato. Non se ne era allarmato subito, conoscendo l’imprevedibilità delle apparizioni e delle sparizioni di Fede. E aveva pensato che ciò facesse parte del loro infinito rapporto di cose non dette e non fatte insieme. Si era solo preoccupato per una minuscola macchia di sangue che era comparsa all’improvviso sulla scrivania in linoleum, ma credette che dovesse essere causata da un taglietto di nessuna importanza e ci passò sopra una spruzzata di smacchiatore liquido. Quindi Fede si era dissolto anche lui come un effetto che serve a fare da transizione fra una scena e l’altra. Credendo che la dissolvenza sia in grado di deresponsabilizzare il regista di ciò che non viene mostrato. Anzi è proprio quella la grandiosità della sceneggiatura perfetta. Il regista non ha colpe morali o meriti. Ne è solo il braccio meccanico, alla stregua di un cameraman qualsiasi. È la sceneggiatura che rompe gli equilibri. È il racconto. La narrazione. Il significato chiaro o recondito non importa di ciò che si narra. All’estremo potremmo dire il simbolismo. E allora? Non siamo mica gli scrittori proletari del Giappone a cavallo delle due guerre. Non abbiamo la missione di appuntare la realtà e diffonderla nella dialettica rivoluzionaria. Nella propaganda per il popolo. No. Il cinema, o meglio forse la sceneggiatura ha altri oneri. Quello magari di morire dentro una sceneggiatura o nella realizzazione del film perfetto. Chi lo sa. Quello di costruire un mondo talmente reale da sembrare artificiale.

    Certo tutte le storie di cui è colmo l’universo non sono altro che polvere di immaginazione, diceva qualcuno. Pagine di celluloide. Una enorme menzogna. Una raggiante linea azzurra che attraversa anima e mente per illuminare un set fatto di cartapesta e fondali colorati. La pioggia si crea con una pompa diretta verso l’alto in getto verticale che ripiomba sull’asfalto, sugli attori e sulle comparse. I tuoni prodotti con lo scrosciare di due lamiere arrugginite, sfregate con vigore l’una contro l’altra. E i fulmini con i flash delle macchine da posa. C’è qualcuno che intima il ciak si gira e lo stop! Ma è come per il comando di fare fuoco sui tre di Villarbasse. Fino all’ultimo non lo si deve sapere. Bisogna illudersi che il finale all’improvviso possa cambiare. Che arrivi qualcuno a fermare il copione e il montaggio. Che un questore troppo zelante firmi il sequestro delle bobine per lesa maestà o oscenità lesive del comune senso del pudore. O perché troppa verità sembra una menzogna talmente lampante che sovvertirebbe tutto l’ordine naturale delle cose. Ma la menzogna più grande è racchiusa nelle pagine di carta, o di celluloide. Tutto ciò che non è nell’inquadratura non esiste. Infatti Fede non esisteva più. Annegato nei marosi di quell’inferno che si era scoperchiato davanti ai suoi occhi quando iniziò a scendere negli scantinati dello scintillante palazzo della Rai. Quando aveva ascoltato il prete della coscienza. Quando aveva rivisto Villarbasse e quella rapida sequenza di rivoltella estratta all’improvviso e il fuoco accecante che spegneva lo sguardo luciferino del suo giovane amico tatuatore londinese. Quando aveva chiuso anch’egli gli occhi e compreso perché Villarbasse. Perché tutto quel dolore, quell’orrore, quella disperazione raccolta in un ettaro di terra. Dietro il muro di cinta di una cascina.

    Poi capì tutto quando si mise a sfrucugliare documentari. Sulla Calabria vista dall’alto. Sulla Fiat e i suoi trentacinque giorni di inutile e perdente occupazione. La testimonianza dei limoni riverberanti di una Genova in fiamme. Quanto dolore. Quanta disperazione. Quanta morte inutile. Come quella di Paul. Come la sua. Fede era scomparso nei sotterranei della Rai di Torino. Enea sembrava non saperne nulla. E il caso del giovane filmmaker scomparso finì di diritto negli archivi dei misteri irrisolti. Così come da lì a poco il ritrovamento di un giovane scrittore nel cesso di un treno Intercity Torino-Milano, con la nuca perforata da un taglio profondo e gli occhi sbarrati rivolti verso il finestrino appannato e algido di trasparenza.

    Nel frattempo il rumore del treno si affievoliva, andandosi a smorzare per fermarsi proprio nell’istante in cui nel piazzale prospiciente la stazione di Basse di Stura un furgone Om con i finestrini piccoli e un enorme cofano si era mostrato uscendo dal tunnel. Dal finestrino appannato egli vedeva tutto questo. Ma era ormai sfiancato e passivo. Osservava a metà fra l’intontimento claustrofobico e la rassegnazione al dissanguamento. L’emicrania perforava la corteccia cerebrale e le tempie, come una tarma da allevamento lasciata a riprodursi in un vecchio armadio di noce. Piccoli denti aguzzi che divorano tutto in pochi secondi. Solo il ronzare distruttivo e inarrestabile di invisibili parassiti in cattività.

    Il furgone si fermò pochi metri dopo la fine del tunnel. Nello spiazzo. Tre sedie erano già sistemate in fila a due metri dall’alto muro increspato di vecchio muschio ammuffito. Fissate al terreno con dei picchetti, dalle spalliere penzolavano tre strisce di tela bianca, larghe dieci centimetri e lunghe una cinquantina. Una fastidiosa nebbiolina grigia occultava il cielo alla vista di cronisti, fotografi, celerini, pubblico ministero, avvocati, questurini, parroco e medici legali impedendo loro di capire se esso fosse nuvoloso o sereno come un condannato a morte che va verso il proprio destino indossando una coppola di velluto marrone e legato polsi e piedi da una pesante catena sferragliante.

    «Io sono Giovanni Puleo! Questo è La Barbera Francesco e questo qui dietro è D’Ignoti Giovanni!» urlò con un misto di esaltazione disperata e orgoglio siciliano l’uomo con il sorriso serrato in denti marci rinchiuso in una folta barba nera. «Fateci una bella foto ricordo!» sfidando insolente il battaglione di fotografi asserragliati nella nebbiolina uggiosa e appiccicaticcia. Si iniziò quindi a fare fuoco con i lampi di magnesio, incrociando sotto un serrato mitragliamento i volti dei tre assassini che sorridevano e si mettevano in posa come fanno i prigionieri politici, indicando le catene come un’ingiusta limitazione del proprio pensare piuttosto che dell’agire vero e proprio. Uno strattone deciso da parte dei Carabinieri di scorta riportò i tre al rango di comuni assassini, efferati e privi di scrupoli e coscienza morale. Erano stati loro a macchiarsi della tremenda strage della Cascina Simonetto due anni prima. Erano stati loro a non mostrare alcuna pietà nell’abbattere uno a uno gli otto innocenti abitanti del casolare, con un pesante colpo di roncola sulla testa e a infoibarli dentro il silos pieno d’acqua. Erano stati loro a portare via denari, pellicce di volpe e salami sbocconcellati nella fuga senza mostrare un attimo di rimorso o pentimento. Nemmeno durante gli atti processuali. Affrontati con baldanzosa strafottenza. Tre assassini, tre borsaneristi dell’Italia devastata dalla guerra e dalle ferite che essa si portava appresso. Solo disprezzo dall’opinione pubblica. Dalla legge degli uomini, ma soprattutto da quella di Dio. Non avevano diritto ad alcuna rivendicazione, nessuna perorazione delle proprie ragioni, dato l’atto sanguinario, barbarico, odioso di cui si erano macchiati per una rapina. A parte l’aver lasciato in vita, solo e spaventato nella cucina disabitata dopo la mattanza, il piccolo nipotino dei mezzadri. Un guizzo di ignorante umanità, in quell’oceano di sangue ed efferatezza.

    All’improvviso Puleo, rivolgendo lo sguardo verso l’oscuro cielo piemontese urlò a squarciagola: «Evviva la Sicilia libera e indipendente!» e anche La Barbera urlò: «Viva Finocchiaro Aprile, liberatore della Sicilia!». Solo il D’Ignoti rimase chiuso nel suo imperturbabile e rassegnato silenzio a occhi bassi.

    Le urla che confondevano banditismo comune e le istanze separatiste crearono imbarazzo e confusione fra le autorità e i cronisti. Proprio in quei giorni che insanguinavano la Sicilia ponendo agli occhi degli alleati americani un grave e secolare problema latente, quella questione meridionale di cui la Strage di Villarbase, quell’odioso delitto compiuto a sangue freddo quando ancora gli orrori della guerra di liberazione galleggiavano nell’aria, era un episodio ben più che simbolico. Era una connaturata conseguenza storica e antropologica della guerra che bisognava liquidare con un ultimo atto di ordine pubblico. Di giustizia penale. Di delinquenza comune.

    Furono slegati dai ferri uno a uno, e i loro polsi assicurati, attraverso le cordicelle, alle spalliere delle sedie. Altre cordicelle legarono le caviglie nude dei tre ai picchetti interrati nell’erba umida e fredda. Il clamore degli slogan e il borbottio nervoso che si diffuse nel confabulante comitato d’onore, fu coperto dal sempre più deciso e baritonale salmodiare di Padre Ruggero: «Gesù mio, misericordia, perdonami! Gesù mio misericordia, perdonami!».

    Puleo continuava a fumare scuotendo la cenere leggermente con l’indice. Quando i fucili, a un segno silente dell’ufficiale della Celere, si impennarono dritti verso il cielo, Padre Ruggero porse il crocifisso ai tre condannati. Lo baciarono e ripeterono all’unisono con l’uomo di fede «Gesù mio misericordia perdonami».

    Furono le ultime parole dei tre. Padre Ruggero si defilò rapidamente dalla linea di fuoco. Secondo il referto del medico legale i tre morirono sul colpo, sotto la grandinata di proiettili, senza nemmeno dover ricorrere all’estremo atto d’umanità del colpo di grazia.

    Il cappellano rimase ancora un poco di tempo nello spiazzo di Basse di Stura. I becchini non si affannarono più di tanto a ricomporre le salme e gettarono i pesanti corpi crivellati dentro rozze bare di legno, molto simili se non identiche a quelle che avevano condotto i feretri delle otto vittime del macello nel cimitero di Villarbasse, quando il treno diretto a Milano Centrale quella mattina si era fermato davanti la chiesa. Vittime e carnefici allo stesso modo. Senza banda e pianti i tre siciliani. Ma solo il mormorio dei corvi e il traballante requiem del motore a scoppio del furgone Om che condusse le bare alla fossa comune del Campo 1 del Cimitero Comunale di Torino. Intorno alle nove e mezzo un’ultima benedizione e la terra che ricopre tutto sei metri sotto di sé. Fu quella l’ultima fucilazione avvenuta in Italia prima dell’avvento della Costituzione e

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1