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Delitti e luoghi di Roma criminale
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E-book869 pagine12 ore

Delitti e luoghi di Roma criminale

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La mappa di tutti i delitti, le organizzazioni e i nomi nella storia della cronaca nera capitolina

Un delitto e una scena del crimine, un boia e un vicolo, una vittima e un palazzo, un antipasto di mare e un vertice di mafia. Delitti e luoghi di Roma criminale si può leggere come una guida della città, ma le tappe della visita ricalcano il percorso delle morti violente, dall’omicidio di Giulio Cesare ai recenti fatti di cronaca che hanno sconvolto l’equilibrio sociale della Città Eterna. Al centro i casi di cronaca nera che hanno segnato la storia del crimine a Roma: Wilma Montesi, Pier Paolo Pasolini, Enrico De Pedis, Simonetta Cesaroni, Stefano Cucchi… Una macchia di sangue che si è allargata nei secoli, dalla Roma quadrata di Romolo e Remo al Grande Raccordo Anulare.

Alla scoperta di Roma attraverso i suoi crimini

Alcuni dei delitti presenti nel libro:

• 44 a.C. GIULIO CESARE, Il potere fa paura
• 1354 COLA DI RIENZO, Il Tribuno impazzito
• 1606 CARAVAGGIO, Assassinato giocatore di pallacorda
• 1945 GIUSEPPE ALBANO, Il gobbo fatato…
• 1953 WILMA MONTESI, Il caso del reggicalze
• 1975 PIER PAOLO PASOLINI, Le metamorfosi di Pino la rana
• 1980 FRANCO GIUSEPPUCCI, Aho, ma nun me vendicate mai?
• 1990 ENRICO DE PEDIS, Non era uno stinco di santo
• 1990 SIMONETTA CESARONI, Il mistero del morso sul seno
• 1997 MARTA RUSSO, «Fottitene cognata, c’hai i ragazzini»
• 2007 GIOVANNA REGGIANI, Brutto, sporco e cattivo
• 2009 STEFANO CUCCHI, Pestaggio, non astratta congettura
• 2015 GIANCARLO NOCCHIA, Gioielliere rapinato e ucciso a Prati
Mario Caprara
Giornalista, lavora come cronista a Radio Capital. Con Gianluca Semprini ha scritto Destra estrema e criminale e Neri!, pubblicati da Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2016
ISBN9788854198913
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    Anteprima del libro

    Delitti e luoghi di Roma criminale - Mario Caprara

    em

    463

    In questa ricostruzione si fa riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso. Il volume ricostruisce vicende di cronaca nel massimo rispetto dei principi di verità, continenza e pertinenza. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9891-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Mario Caprara

    Delitti e luoghi di Roma criminale

    La mappa di tutti i delitti, le organizzazioni e i nomi nella storia della cronaca nera capitolina

    Prefazione di Nino Marazzita

    omino

    Newton Compton editori

    Un vecchio cortello diceva a ’na spada: Ferisco e sbudello la gente de strada,

    er zangue che caccio da quelle ferite, diventa ’n fattaccio, diventa ’na lite.

    Trilussa

    testatina

    Prefazione

    Tutte le strade portano a Roma. Anche quelle del crimine. Roma, nella rappresentazione mitologica, è nata con un omicidio: la morte di Remo per mano del fratello Romolo. E se la letteratura può rivendicare la propria autonomia estetica, nel corso della storia la realtà ha ben superato la fantasia. Tra crimini efferati e gialli irrisolti, l’Autore ci accompagna in un viaggio nel lato oscuro, nero, maledetto di Roma, dalle cupe atmosfere dell’antichità fino ai giorni nostri. Nel corso della mia carriera ho avuto modo di incontrare e difendere molti diavoli, alcuni dei quali sono citati in questa attenta analisi. Quello che li accomuna è la mancanza di dominio sugli istinti. Il male è connaturato all’uomo e vive dentro ognuno di noi, come una presenza misteriosa e distruttiva allo stesso tempo, da tenere a bada solo con la ragione.

    Il male, comunque, rimane l’elemento più appassionante per un avvocato penalista e per questo mi rammarico di non avere avuto la possibilità di difendere Hitler, Eichmann o Stalin. Col rimpianto di aver perso l’opportunità di un incredibile viaggio nelle loro menti perverse, nella loro lucida follia di cambiare il mondo con gli stermini di massa.

    Nelle grandi vicende giudiziarie spesso tutti si aspettano la verità, la grande chimera della verità, e talvolta mi si attribuisce il merito di averla fatta emergere in alcuni processi. Per esempio, grazie a me, Pietro Pacciani, accusato dei delitti del mostro di Firenze, è stato assolto dopo una condanna frutto di indagini talmente sbagliate da far dubitare perfino della buona fede di alcuni inquirenti.

    Ma nella vicenda di Pier Paolo Pasolini e di Aldo Moro, per restare solo a due delle tante che ho trattato come avvocato, quale verità si è scoperta? Solo quella pirandelliana, una, nessuna, centomila.

    Tutti sperano allora nella verità degli storici, ma essi vengono poi deviati da protagonisti della politica portatori di segreti biechi e indicibili.

    Allora da chi possiamo reclamare il diritto alla verità sulle continue vicende criminali molto spesso irrisolte? Forse dagli inutili e deformanti talk-show che non sono più inchieste giornalistiche ma rappresentazioni teatrali a tema libero ben lontane dal giornalismo d’inchiesta, anche perché più vicine a spettacoli del tipo Bagaglino.

    Personalmente ho già abbandonato come ospite questi spettacoli da alcuni anni e lascio ad altri ospiti, alcuni dei quali esperti del nulla, sollecitati a sostenere all’unisono una tesi accusatoria senza mai prospettare un minimo di critica alle indagini che spesso in questi ultimi anni, in molti casi, sono state un totale fallimento.

    Insomma oggi il clima è cambiato solo perché è stato introdotto in televisione il piacere di sbattere il mostro in prima pagina.

    Oggi si parla tanto di femminicidio, come omicidio perpetrato da parte di un uomo nei confronti di una donna, come appartenente a un genere diverso. Anche questo fenomeno è sempre esistito, sin dall’antica Roma, ma gli elementi che riscontriamo nell’omicidio della povera Ponzia Postumina, pugnalata dal proprio compagno in occasione del loro ultimo appuntamento, avvenuto nel 58 d.C., sono i medesimi che possiamo apprendere sulla pagina di nera di un qualsiasi quotidiano: l’uomo-padrone e la donna-vittima. Siamo dannati a interrogarci per tutto il resto dell’eternità sul confine tra il bene e il male, perché la Storia si ripete. E in una pericolosa commistione tra realtà e finzione, alla quale stiamo recentemente assistendo, la cronaca sta avendo la meglio anche sull’artificio letterario. Se nella serie Gomorra, che tiene incollati al video milioni di telespettatori, viene rappresentato l’orrore assoluto ed è il male a vincere, in tutta la sua crudezza e ripugnanza, nel mondo reale due giovani decidono di torturare un loro coetaneo per vedere l’effetto che fa. Siamo arrivati per giunta a questo. È questo il culmine della crudeltà criminale? Solo il futuro potrà darci questa risposta.

    Dostoevskij diceva che il mondo sarà salvato dalla bellezza. Forse per bellezza intendeva il prevalere della grande e ineguagliabile forza della ragione, fonte di armonia, di condivisione e di rispetto della vita degli altri. Il prevalere, insomma, del pensiero forte sulla umana stupidità.

    Nino Marazzita

    Introduzione

    Il libro raccoglie i delitti più noti della storia e della criminalità di Roma e si sofferma sui luoghi in cui questi sono accaduti. I fatti e i ritratti che abbiamo approfondito hanno in comune l’assassinio e la scena del delitto, le strade della Città Eterna. Collocate su una mappa della capitale, le cronache tracciano un percorso alternativo e criminale che si dipana nel tempo e nello spazio, in una scia di sangue che va dal centro storico alle periferie, ai nuovi quartieri, ai qua ’na vorta c’era solo la campagna. Un protagonista, un sito. Caravaggio a Campo Marzio, Annarella Bracci a Primavalle, Farouk Chourbagi a via Veneto, Emanuela Orlandi a Borgo Pio, Marta Russo alla Sapienza, Zhou Zeng a Torpigna. Dalla storia ai verbali di Polizia, la Roma dei delitti rivela le sue origini di passione, mistero e leggende.

    Tribuni e bulli. Nobili e puttane. Drogati e serial killer. Trans e pervertiti. Amanti maledetti, assassini per caso, banditi moderni e vecchi boss. I nostri profili rievocano la malvagità umana e i sentimenti che, dall’antichità a oggi, assoggettano con la violenza i deboli ai più forti. Le esperienze di vittime e carnefici raffigurano il lato oscuro della Città Santa, l’altra faccia di Roma, quella del Male.

    Per ogni protagonista, un capitolo esplora il quartiere, la via, il palazzo di Roma in cui questo lascia l’impronta. Da Castel Sant’Angelo a Ostia fino al Quarticciolo, dai night della Dolce Vita a piazza del Gesù, dalla Magliana alle Botteghe Oscure. Le zone in cui i nostri personaggi hanno tolto la vita o l’hanno data, nascondono a loro volta passati arcaici, leggende dimenticate, particolari inediti: i fantasmi in Campidoglio, l’alchimia a piazza Vittorio, il fungo dei fascisti, la spiaggia di Capocotta, il manicomio della Marcigliana, le ville dell’Olgiata, i ritrovi di Mafia Capitale.

    Roma è ricca di storie maledette. Scegliere quali raccontare è stato difficile. L’elenco sembrerà incompleto. E lo è. Abbiamo però individuato un inizio e una fine del puzzle che vi proponiamo: dalla sfida fra Romolo e Remo al delitto di Luca Varani, torturato e assassinato al culmine di un’orgia gay la notte del 5 marzo 2016. Dal 44 a.C. alla cronaca contemporanea. Dal Palatino al Collatino, il passo è lungo. In mezzo, sulla scena di Roma, gli attori interpretano il film dei loro guai fino alla fine.

    La galleria dei ritratti è corposa, come una foto dei dannati in fila in un girone dantesco. Talvolta un nome vi dirà poco. Guardate bene, perché i loro soprannomi vi diranno di più: Brendona, Renatino, fornaretto, Lallo lo zoppo, il Gobbo, Bruttafaccia, il Landrù del Tevere, Mastro Titta, il nano della stazione Termini.

    La galleria va dal femminicidio alla cospirazione, si sofferma sulle pire di piazza Farnese o sui patiboli di Castel Sant’Angelo, si perde nei vicoli assassini, vaga nel nulla delle periferie, sbircia la sagrestia del castigatore della Roma papalina. Il nostro indice comprende gente famosa e persone normali, finite nella storia e nella nera per avidità, vendetta, sadismo, sesso, ricatto, follia, debolezza. Tanti assassini, tante tipologie di crimine, compresi i misteri insoluti, e i ritratti della nuova delinquenza, che si confronta col potere, controlla la città ma non ammazza.

    Dove è stato necessario abbiamo aggiornato i fatti alle fasi processuali che ancora cercano la verità, così come in altri ne abbiamo registrato l’archiviazione. Preparatevi, le vittime sono quasi sempre donne, mentre è variegata la gamma dei massacratori.

    Anche scremando, la storia delittuosa della Città Santa fornisce capitoli a questo libro e ad altri mille. Nel nostro piccolo, riapriremo pagine di brutalità storiche o contemporanea ferocia, entreremo nei particolari, nelle ricostruzioni, nei processi, nel web, dove è facile perdersi. I ritratti prendono forma tra la storia e la cronaca e rispolverano lo stato delle cose, dalla corruzione clericale alle sassaiole dei bulli, dallo strozzo alle baby prostitute, dal business del money transfer allo spaccio, dal "chill out" alla violenza in famiglia.

    Dall’antichità ai giorni nostri, l’elemento di offesa comune a quasi tutti i protagonisti del nostro libro è il ricorso alla lama. A Roma gira un sacco di gente armata di coltello, pronta a farlo scattare per una puncicata, come per un delitto d’impeto, o per omicidio premeditato. La Città Eterna ha un passato millenario e sanguinario. Il suo controllo si è affermato con la spada, l’archibugio e il supplizio. Qui i poteri religiosi e temporali hanno crocifisso la gente con i chiodi, ritualizzato la morte con la fustigazione e il rogo, la decapitazione e lo squartamento, il mazzolamento e l’impiccagione. Consuetudini complesse e teatrali, sadiche e terribili. Come la pena del sacco (poena cullei), tortura inferta nella Roma antica ai rei di parricidio: subito dopo la sentenza capitale, i piedi del condannato venivano imprigionati in zoccoli di legno e il suo capo veniva coperto da una pelle di lupo. L’omicida veniva frustato a sangue e chiuso in un sacco in compagnia di un cane, di un gallo e di una vipera, o anche di una scimmia. Quel tragico fagotto, animato dalle contorsioni del reo aggredito dagli animali impazziti, veniva poi caricato su un carro trainato da buoi alla volta del Tevere, dove veniva infine gettato.

    I racconti scelti per quest’opera sono il frutto di una sintesi che non soddisferà ogni palato. Nel decidere di riaprire un caso piuttosto che un altro, siamo stati spinti soprattutto dalla curiosità verso i protagonisti esaminati, i loro caratteri, l’epoca e il luogo in cui si sono mossi. I tour capitolini calcano i selciati dove la storia ha preteso atti scellerati. Esiste però un’altra strada da seguire, un cammino sulle tracce del crimine, che ci proietta in una Roma segreta e quotidiana. Una città violenta, impaurita, chiusa in sé stessa, dove un terzo degli abitanti è convinto che negli ultimi anni i rapporti tra le persone si siano deteriorati. I sentimenti che dominano la nostra vita quotidiana, secondo il censis, sono la rabbia e il livore. Non a caso crescono i reati di percosse, minacce, estorsioni e lesioni dolose. E poi gira troppa droga. La Roma giubilare del Perdono sa essere anche spietata senza torcere un capello. Come nel caso dei dirimpettai dell’anziana professoressa morta da quasi due anni nella sua casa alla Garbatella, che per non sentire l’olezzo nauseabondo che proveniva dall’appartamento della defunta sigillarono l’uscio con lo scotch. Mica delinquenti abituali, o pericolosi accoltellatori. No, solo persone della porta accanto. Vicini che lavorano, pagano le tasse e non picchiano i figli. Gente dall’olfatto delicato, che gira la testa dall’altra parte. Nell’indifferenza, più disumana della pena del sacco.

    1. Romolo e Remo, 753 a.C.

    Sventra il gemello per un pezzo di terra

    Roma è nata con un omicidio. Il solco che ne avrebbe delimitato i confini era stato appena tracciato da Romolo, che già veniva bagnato dalle interiora del gemello Remo. L’uno squartò l’altro per un pezzo di terra da comandare. Un mero scontro di potere, che mise di fronte due uomini dello stesso sangue. Niente di più, niente di meno. I fratelli sono tradizionali nemici. Quanti casi simili ci ha mostrato la storia dell’umanità? E quanti fratelli si sono scannati per cupidigia? Il ricorso all’omicidio fra consanguinei competitivi è ancora molto frequente ai giorni nostri: per un’eredità, per una donna, per un confine da non oltrepassare. La storia dei gemelli allattati dalla lupa, l’omicidio, la fondazione di Roma e i primi passi dell’Urbe, fino al ratto delle Sabine, è un’avventura di sangue e passione ancora affascinante e sorprendente. Proviamo a raccontarla.

    Tutto ebbe inizio da una questione politica, quella del governo della città di Albalonga. Amulio, il suo re, impose al fratello Numitore di non generare pretendenti al trono. Per questo Rea Silvia, l’unica figlia femmina di Numitore, venne consacrata vestale e dunque votata alla castità contro il suo volere. Albalonga fu fondata dal figlio di Enea, Ascanio. Dal xii all’viii secolo a.C. vi regnarono i suoi discendenti. Fino a quando si arrivò al regno di Amulio, che aveva usurpato il trono del fratello Numitore. Amulio commise ogni tipo di atrocità, e fece uccidere tutti i figli maschi del fratello. Ci sono varie versioni della leggenda di Rea Silvia, considerata dai più discendente della stirpe di Enea. Quella di diventare la sacerdotessa della dea Vesta per impedirle di avere figli da mettere sul trono di Albalonga è la più canonica. E si sviluppa con l’intraprendente dio Marte che s’invaghisce della fanciulla e la feconda mentre dorme. Pitture, mosaici, rilievi, sarcofagi, gemme e monete riproducono il miracolo del dio che scende dal cielo e sono ammirabili a Pompei, alla Domus Aurea e al Museo nazionale romano. Il mito offre vari finali: dopo il parto la mamma di Romolo e Remo fu mandata a morte, come prevedeva la legge per le sacerdotesse che non rispettavano il voto di castità; la donna morì di stenti e fu fatta gettare nel Tevere, o nell’Aniene; la mamma dei gemelli fu presa in sposa dallo zio usurpatore Amulio, o liberata dalla prigione alla morte del tiranno. E i bimbi appena dati alla luce? Lo zio Amulio li abbandonò alla corrente del Tevere. A causa delle piogge, però, il fiume aveva rotto gli argini, e i due schiavi incaricati di lasciarli andare al loro destino depositarono la cesta in cui vagivano i neonati nel punto in cui erano arrivate le acque esondate. Queste, ritirandosi, lasciarono i gemelli a mollo in una pozza, presso la palude del Velabro, fra il Colle Palatino e il Colle Campidoglio. La cesta si fermò alla base del Palatino. A pochi metri c’è una grotta, chiamata Lupercale perché sacra a Marte e a Fauno Luperco. La grotta sarebbe stata effettivamente individuata dalla Sovrintendenza archeologica di Roma nel 2007. Per Romolo e Remo fu già tanto non perire annegati. Il miracolo fu la lupa che scese dai monti per venire ad abbeverarsi al fiume e che, anziché mangiarsi i cuccioli d’uomo in due bocconi, offrì loro un paio di mammelle gonfie di latte. Il mito vuole che la lupa salvò i bimbi e continuò ad allattarli nella valle sovrastata dai colli Palatino e Aventino, su cui più tardi sorgerà il Circo Massimo. La realtà potrebbe essere stata un’altra, e cioè che la lupa fosse una prostituta già madre che, impietosita da quei due bimbi affamati, li prese con sé e li salvò da morte certa. I libri di storia raccontano che Romolo e Remo furono trovati dal pastore Faustolo, porcaro al servizio di Amulio, e che questi ne avesse condiviso il loro svezzamento con la moglie Acca Larentia. Crebbero forti e coraggiosi. E scorrazzarono come banditi felici in quell’ampia area paludosa che si estendeva tra il Palatino, la vallata verso il Tevere e il Foro Romano. Zona misteriosa questa. Nelle credenze dell’Età del Bronzo, qui c’era l’ingresso per gli inferi. E qui risiedeva il dio Fauno, che stabilì la sua dimora nel Lupercale.

    Ogni 15 di febbraio, fino al v secolo d.C., i romani celebravano il miracoloso intervento della lupa che salvò i gemelli. Il rito dei lupercali, in onore del dio Luperco, mezzo lupo e mezzo capro, prevedeva la corsa di giovani sacerdoti che, coperti dalle pelli degli animali sacrificati, colpivano con strisce di cotenna le donne del Palatino al fine di purificarle e per favorirne la fecondità. L’orgia dei Lupercali fu l’ultimo rito dei romani ad essere abolito dai cristiani.

    Intanto Romolo e Remo crescevano. S’irrobustivano nel corpo e nello spirito. Il primo però sembrava possedere maggiore saggezza e intelligenza politica, scrive il filosofo e biografo greco Plutarco nella sua Vita di Romolo, riconoscendogli anche una naturale predisposizione al comando e agli affari. Insieme erano diventati i padroni della foresta paludosa che sorgeva nell’ansa del Tevere. Cavalcavano instancabili a caccia di fauna e di banditi, ai quali rapinavano il bottino. Poi lo dividevano con gli amici pastori. Due bravi capibanda. Uno un po’ più furbo dell’altro, stando a Plutarco. Un giorno le parti s’invertirono. Furono cioè i briganti ad assalire loro, stanchi di recitare la parte dei predati. Romolo si difese da leone. Remo invece fu catturato e condotto ad Albalonga, di fronte al re Amulio. Questi lo accusò di voler fare il padrone a casa d’altri, le terre di Numitore, e stabilì che venisse consegnato al fratello. Qui il racconto è a una svolta. Il re deposto venne a sapere la storia di Remo, fratello gemello di Romolo, che somigliava tanto a quella dei suoi nipoti, figli della figlia Rea Silvia. Numitore comparò il tempo passato dall’abbandono della cesta nel Tevere all’età approssimativa che avrebbero avuto ora i due discendenti. E così conobbe Remo, suo nipote. Che storia! Nel frattempo Faustolo il porcaro aveva svelato a Romolo le sue vere origini e le discendenze reali. Il futuro re di Roma allora si mise a capo di un gruppo di qualche decina di compagni e si diresse ad Albalonga, raggiunto da Remo, che era stato liberato dal ritrovato nonno. Amulio venne ucciso e Numitore ritornò a fare il re.

    Come in un sequel cinematografico, la saga offre altri capitoli. Romolo e Remo volevano farsi una città tutta loro. Scelsero l’area accarezzata dal Tevere dove erano approdati e cresciuti. In effetti, in zona c’era bisogno di case. Le popolazioni degli albani e dei latini crescevano a vista d’occhio. Si trattava di decidere chi fosse il re. Mica poco. E anche stabilire a chi sarebbe spettato di scegliere l’area da urbanizzare. Nel caso dei gemelli, l’età non poteva concedere diritti di precedenza a nessuno dei due. Non restò che ricorrere alla volontà divina, ossia a un "auspicium ex avibus". Chi dei due avesse visto per primo i volatili più favorevoli avrebbe guidato la colonia. Il luogo scelto da Romolo per osservare gli uccelli fu il Palatino, quello di Remo fu il colle di fronte, l’Aventino. Lo storico latino Tito Livio, autore di una monumentale Storia di Roma, racconta che il primo ad avere la visione fu Remo. Sei avvoltoi. A Romolo ne apparvero invece dodici, ma solo dopo che il presagio era stato annunciato dal fratello. Il guaio fu che entrambi i gruppi al seguito si affrettarono a proclamare re il proprio campione, chi in base al primato temporale dell’avvistamento, chi in base al numero degli uccelli contati. Lo stallo generò una discussione, e dalle parole si passò ai fatti, come in una qualunque lite dei giorni nostri. Finì nel sangue, come sappiamo, quello di Remo, colpito da un fendente nella mischia feroce che si era creata fra le due fazioni.

    La versione di Plutarco coincide perfettamente con quella di Livio. Tranne che per un elemento: Romolo potrebbe aver fatto il furbo, e non aver avvistato alcun avvoltoio. L’inganno svelato avrebbe acceso la mischia, finita con l’assassinio di Remo. Andò che quando questi s’accorse che il gemello l’aveva ingannato, cercò di ostacolarlo nello scavo del fossato perimetrico su cui sarebbero sorte le mura della città. Remo osò sfidare Romolo varcando quel fossato, ma cadde colpito. Secondo alcuni dallo stesso gemello, secondo altri da un suo uomo, Celere. Nel mucchio selvaggio caddero anche Faustolo, il pastore che li aveva cresciuti, e suo fratello Plistino

    Insomma, Romolo uccise il fratello Remo che varcò per scherno il confine sacro della città. E Livio riportò il suo grido di battaglia: «Così moriranno tutti coloro che varcheranno le mie mura». Ci basta questa spiegazione? Non è sempre apparso strano che i romani abbiano accettato il mito di un fratricidio, un delitto di cui tutti si vergognerebbero, alla base della fondazione di Roma? E se la domanda da porsi fosse invece chi s’inventò la storia del fratricidio come fondamento di Roma? Si è dibattuto molto su questo. E da osservatori riportiamo la risposta più suggestiva trovata a questa domanda.

    L’assassino di Remo fu colui stesso che l’inventò. E cioè la plebe romana, che proprio tra il iv e il iii secolo a.C. ottenne finalmente l’apertura delle magistrature anche ai non patrizi. Commedie e drammi celebrarono l’avvento, così ostacolato, della plebe al potere: e Remo, etimologicamente «un impedimento», fu il simbolo della conquista così ritardata. Il mito di Romolo e Remo parabola della lotta di classe. E l’omicidio? Un normale rito propiziatorio, se quando si pascolava sotto al Colle Palatino si facevano ancora i sacrifici umani. Anzi, l’omicidio di Remo servì a condannare per sempre Romolo, il patrizio che per tanto tempo aveva escluso il plebeo dal potere. Romolo e Remo avevano la stessa origine divina, nati da Marte e Rea Silvia. Avevano condiviso lo stesso destino: perseguitati da Amulio, sopravvissuti al Tevere, svezzati da una lupa, conquistatori di Albalonga e fondatori di Roma. Peccato che non si capirono sui confini.

    Remo voleva l’Aventino

    Il colle di cui oggi ci accorgiamo a malapena, se non quando ci finiamo dentro, delimitato dal traffico di via del Circo Massimo, via Marmorata e lungotevere Aventino, era l’area su cui Remo sognava la sua città. Toccò a Romolo fondare Roma sul colle opposto, il Palatino. E l’Aventino restò una sorta di cittadella dentro l’Urbe. Oggi è uno dei luoghi più eleganti ed esclusivi di Roma. Qui quaranta metri quadri li trovi a 450 mila euro. Le mansarde poi non ne parliamo. E comunque sono già tutte vendute.

    L’Aventino è uno straordinario luogo di storia. È qui che sarebbe stato sepolto Remo. Poi il colle prese il nome di Aventino, come il figlio di Ercole e re di Albalonga, che qui fu tumulato dopo essere stato colpito da un fulmine. Sul colle vennero edificati i palazzi più fastosi dell’epoca imperiale. Vi sorgevano i templi di Diana e di Giunone, con le terme di Decio e quelle Suriane, sulle cui rovine sorge oggi la piccola chiesa di Santa Prisca. Si racconta che in cima al colle ci fosse la grotta del gigante Caco, ucciso da Ercole per aver rubato i buoi di Gerione. I romani, pragmatici, sfruttarono la sua posizione fuori del perimetro ufficiale di Roma, per collocarvi il culto delle divinità straniere importate dalle conquiste dell’impero. Avvenne per il tempio di Giunone Regina, proveniente da Veio, e quello di Vertumno, originario di Bolsena.

    Di fronte al Circo Massimo, le pendici dell’Aventino ospitano il Roseto Comunale. Una volta era il cimitero degli ebrei romani, lo testimoniano i vialetti che separano le grandi aiuole di esemplari rarissimi di rose, che disegnano la Menorah, cioè il candelabro a sette braccia. Quella che oggi è piazza dei Cavalieri di Malta, era un tempo l’ingresso alla villa dei Gerosolimitani e alla loro chiesa. Il complesso risale al 1765, disegnato dall’architetto, incisore e pittore veneziano Giovanbattista Piranesi incaricato dalla congregazione ad adattare l’Aventino a luogo di culto, meditazione e preghiera. Sul portale del giardino, c’è il buco di una serratura da dove si vede la cupola di San Pietro. Fu l’unico esperimento del grande artista massone con l’architettura, che avrebbe immaginato il colle come un’immensa nave pronta a spiegare le vele per Gerusalemme. Il vascello, secondo la leggenda, «alle ore di centro della notte di un giorno di sempre, leverà l’ancora per giungere alle sacre terre». Sopra il portale principale del complesso dei Gerosolimitani, c’è il rilievo di un’imbarcazione che sembrerebbe pronta a salpare. Su questi terreni un tempo i romani immagazzinavano le armi in autunno, dopo le campagne militari. Il luogo ha tante chiese. Lungo via di Santa Sabina, verso piazza Pietro d’Illiria, c’è ad esempio la chiesa di Santa Sabina, che sorge sui resti di un santuario a Giunone Regina, e quelli della casa della matrona romana Sabina, poi santificata. La chiesa fu sede di un Conclave nel 1287. All’ingresso principale c’è una porta in legno di cipresso risalente al v secolo. È il più antico esempio di scultura lignea paleocristiana. In uno dei diciotto riquadri giunti fino a noi c’è la prima raffigurazione conosciuta della crocifissione.

    Il vero tesoro l’Aventino lo nasconde nel sottosuolo. Sotto Santa Sabina, e sotto condomini e vie e piazze, ci sono antiche domus, strade romane, resti di templi. Le chiese di Santa Prisca e Santa Balbina nascondono ambienti dove venivano consumati antichi riti pagani. In un palazzo di piazza Albania, nel giugno del 2015, sono stati scoperti i resti di una casa di età tardo imperiale. Un tesoro, fatto di tre mosaici e di frammenti di muri affrescati, alti fino a un metro e venti. Ci troviamo di fronte a un sito ad alta presenza archeologica, vestigia che vanno dall’età arcaica al iii secolo, fino al vi.

    Nel chiostro di Santa Sabina si trova un arancio che si dice sia stato piantato da san Domenico. Sarebbe stato il primo piantato in Italia. La chiesa è legata a una leggenda che ha che fare col maligno, quella del Lapis Diaboli. Un masso di colore nero, tondeggiante, domina su un pezzo di colonna, a sinistra della porta d’ingresso. La pietra sarebbe stata scagliata dal demonio contro san Domenico.

    La parola Aventino evoca anche un concetto politico a noi più vicino. E cioè l’atto di ritirarsi da una controversia parlamentare in segno di protesta. Si ritirarono all’Aventino i parlamentari antifascisti dopo il rapimento e il delitto di Giacomo Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i brogli elettorali e le violenze fasciste. I deputati dell’opposizione, il 27 giugno del 1924, abbandonarono i lavori parlamentari, annunciando di ritornarvi solo dopo l’abolizione della milizia del littorio e il ripristino della legge. La storia però ci dice che l’Aventino in politica funziona poco.

    2. Giulio Cesare, 44 a.C.

    Il potere fa paura

    A largo di Torre Argentina ci si arriva con i bus 30 e 87. O con il tram numero 8, che viene da piazza Venezia. Siamo in pieno centro storico, uno dei siti più antichi e importanti della capitale. Qui, a pochi metri dal Teatro Argentina, hanno ammazzato Giulio Cesare. Proprio davanti all’edicola del prospiciente largo Arenula, ci si può affacciare all’antichissima area sacra e gettare lo sguardo sui resti di quattro templi di età repubblicana che fanno ombra ai gatti nello stesso punto in cui la fecero all’imperatore assassinato il 15 marzo del 44 a.C.

    Giulio Cesare fu pugnalato nella Curia di Pompeo, ex luogotenente di Lucio Cornelio Silla, nell’attuale area archeologica di largo di Torre Argentina. L’occasione dell’agguato la diede una riunione di senatori. Oggi conosciamo il luogo esatto dell’omicidio. È un muro cementizio di tre metri di larghezza per due di altezza. Qui era solito sedersi il generale, alle spalle dei sacelli della Fortuna e di Feronia. I templi sono quattro, gli altri due sono quello di Giuturna e il Santuario dei Lari Permanini. Il luogo, ogni 15 di marzo, ancora oggi, diventa palcoscenico di una rappresentazione in costume del delitto del conquistatore della Gallia.

    La Curia fu il primo teatro in muratura costruito a Roma per volere del console Gneo Pompeo Magno, abile generale, marito di Giulia, figlia di Cesare. Pompeo, insieme all’amico aristocratico Marco Licinio Crasso, si alleò col futuro dittatore nell’accordo tripartito detto triumvirato. L’accordo permise a Cesare, con le truppe di Pompeo e i sesterzi di Crasso, la scalata al potere. Alla morte del finanziatore, il soldato girò le spalle a Cesare e ognuno se ne andò per i fatti suoi. Ebbene, l’imperatore cadde sotto i fendenti dei cospiratori nel locus sceleratus, ai piedi della statua del suo avversario Pompeo Magno, che aveva fatto egli stesso installare lì, e davanti a cui s’inchinava ogni volta che vi passava davanti. Quelle che vi raccontiamo sono le ultime ore di Caio Giulio Cesare, il più grande uomo di Roma, ucciso a coltellate da un pugno di traditori. Prima però raccontiamo l’uomo. Non un individuo qualunque. E rispolveriamo un po’ di antefatto storico, per capire la genesi dell’omicidio più famoso dell’antichità.

    Cesare veniva da una famiglia aristocratica povera della Suburra, il quartiere popolare e malfamato di Roma. Incerta la sua data di nascita: 100 o 102 a.C. Si formò con un precettore gallo, era afflitto da emicranie e attacchi epilettici. Neanche il tempo di farsi uomo che perse i capelli. Lui si vergognava della sua calvizie, e imparò a disegnare riporti di chiome dalla nuca alla fronte. Occhi neri e vivi, di mezza taglia, magro da giovane, irrobustito in età matura dai lunghi periodi di vita militare. Ottimo cavallerizzo. Si divertiva a galoppare con le mani dietro la schiena. Era uno scavezzacollo. Ma già brillava per intelligenza e propensione al comando. A Roma in quel momento era in corso una guerra civile. Gli optimates, sostenitori delle élite aristocratiche e detentori del potere, si scannavano con i populares, democratici sensibili alle richieste del popolo. Pompeo stava con i primi, Cesare con i secondi. Il generale non era bello, ma piaceva alle donne. Sapeva farle ridere, le seduceva con l’intelligenza. Ne sposò quattro ed ebbe centinaia di amanti. I soldati lo chiamavano moechus calvus, l’adultero calvo. Nelle sfilate trionfali, cui Cesare partecipava di ritorno dalle conquiste, i suoi centurioni ne ridimensionavano l’aura gridando: «Ehi uomini, chiudete in casa le vostre mogli: è tornato il seduttore zuccapelata». Oppure, «smetti, zuccapelata, di guardar le matrone, concentrati sulle prostitute». Cesare ne rideva, concentrato anche su altro. Era bisex, come d’uso fra quei ranghi dell’antica Roma. Quando aveva solo sedici anni, durante una guerra in Asia, diventò il favorito di Nicomede iv Filopatore, re di Bitinia, che a letto preferiva i ragazzi. A Roma Gaio Scribonio Curione, molto tempo dopo, lo definirà «il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti». Cesare viene ricordato come ricco di umorismo, garbato, raffinato, spregiudicato, sarcastico, dalla risposta sempre pronta. In battaglia era un astuto stratega. In politica era un maestro del compromesso. Sapeva essere duro, se serviva. I popoli però lo amavano per la sua magnanimità e per la sua inclinazione al perdono. Sempre in cerca di finanziamenti, necessari alle sue battaglie politiche e militari, ebbe un ruolo cruciale nella transizione del governo di Roma, da repubblicano a imperiale. I libri di storia riepilogano che fu dictator di Roma alla fine del 49 a.C., nel 47 a.C., nel 46 a.C. con carica decennale, e dal 44 a.C. dittatore perpetuo.

    Da dittatore, portava una corona di alloro sulla testa, che copriva finalmente quel patetico riporto. Da conquistatore sottomise la Gallia, le sue centurie calpestarono per la prima volta il suolo della Britannia e della Germania, estese il dominio romano fino all’oceano Atlantico e al Reno. Era amato dai plebei e odiato dai patrizi. Passò il Rubicone e sfidò Pompeo a Farsalo, sconfiggendolo in una memorabile battaglia. Fece un figlio con Cleopatra, chiamato Cesarione, impose la regina dell’Egitto a Roma e alla sposa Calpurnia. Riaprì con le armi i rubinetti del grano della Spagna. E voleva fare ancora un sacco di altre cose. Vendicare Crasso contro i Parti, estendere l’impero a Oriente, rilanciare la classe media. Ma era anziano e stanco. E i cospiratori stavano lì vicino, come iene acquattate ad aspettare la preda esausta per mangiarsela ancora mezza viva. Cesare soffriva di esplosioni d’ira, era assillato dagli incubi, afflitto da intense cefalee e dolori intestinali. E il mal caduco, l’epilessia, non l’aveva mai abbandonato.

    A Cesare di certo non sfuggirono i propositi di complotto orditi alle sue spalle. Evidentemente non riteneva i suoi nemici all’altezza di osare. Sottovalutava una sessantina di senatori, contrari a ogni sua forma di potere. Nel febbraio del 48 il «pallido e magro» Caio Cassio Longino, come lo descrive Plutarco, si mise alla testa della cospirazione contro Caio Giulio Cesare e cercò di tirare dentro il cognato Bruto, amato dal dittatore come un figlio. Bruto era un uomo colto, che aveva studiato il greco e la filosofia. Aveva ben governato la Gallia Cisalpina affidatagli da Cesare, aveva sposato sua cugina Porzia, la figlia di suo zio Maco Porcio Catone Uticense, entrambi ostili al vecchio generale. I due congiuranti avevano personalità profondamente diverse. Cassio era un prepotente, frequentatore di plebaglia e giocatore d’azzardo. Gli piaceva il rischio. Era un impulsivo. Bruto invece era un calcolatore, un riflessivo, un taciturno. Un indeciso che odiava Cesare perché sapeva di essere suo figlio. Cassio voleva uccidere il tiranno perché temeva che volesse dividere la corona con Cleopatra e lasciarla al bastardo Cesarione, dopo aver trasferito la capitale dell’impero in Egitto. E poi andava dicendo che il capo si era montato la testa: aveva fatto innalzare una sua statua accanto a quella dei vecchi re di Roma e fatto coniare monete col suo volto. Politicamente, l’assassinio di Giulio Cesare impediva le riforme della società che il condottiero aveva in mente. E che tanto mettevano paura ai suoi acerrimi nemici. I quali decisero di toglierlo di mezzo il giorno delle idi, il 15 marzo del 44 a.C. La trappola scattò durante la seduta in senato a cui l’imperatore doveva partecipare. Fu un giorno di sangue, preceduto da funesti presagi.

    La sera prima dell’agguato, Cesare pranzava in casa con alcuni amici. Da buon anfitrione, propose un tema di conversazione, un po’ macabro per la verità: «Che morte preferireste?», chiese agli ospiti. Ognuno disse la sua, Cesare scelse una morte rapida e violenta. Più tardi quella notte, secondo i fatti romanzati da Plutarco, Cesare si coricò come al solito accanto a Calpurnia. D’un tratto una corrente spalancò porte e finestre della camera. La luce della luna illuminava la stanza, Calpurnia gemeva e pronunciava nel sonno incomprensibili parole.

    Al suo risveglio Calpurnia confidò di averlo visto in sogno e di avere un brutto presentimento. Lo implorò di non andare alla seduta. Gli indovini convocati quella mattina stessa confermarono le premonizioni della donna. Un congiurato venne a sollecitare Cesare di andare alla riunione. Il generale lo seguì, mancando di un soffio un amico che veniva a informarlo del complotto. Per strada un chiromante gli gridò di guardarsi dalle idi di marzo. «Ci siamo già», rispose Cesare. «Non sono ancora passate», ribatté lo iettatore. Giulio avanzava spedito verso il suo destino. Senza scorta, perché l’aveva abolita. Lo accompagnavano Marco Antonio, il suo luogotenente, e altri senatori e cavalieri. Fra quanti gli si fecero incontro porgendogli suppliche e richieste scritte, qualcuno provò a passargli un messaggio d’avvertimento. Plutarco, nella sua Vita di Cesare, riporta l’episodio. L’insegnante di lettere greche Artemidoro di Cnido, amico di amici di Bruto, si avvicinò a Cesare porgendogli un pezzo di carta di papiro su cui era denunciata la cospirazione. L’imperatore prese il pizzino ma non riuscì a leggere perché la folla lo acclamava spintonandolo. L’avrebbe letto dopo, pensò, ma sarebbe stato troppo tardi.

    Ad aspettarlo nell’aula del senato, una sessantina di congiurati, capeggiati dagli ex pompeiani Caio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto. Si erano muniti di daghe, spade corte dalla lama larga e dritta, robuste, maneggevoli, adatte al combattimento ravvicinato. Le lame vennero introdotte nell’aula nascoste in alcune casse di documenti, gli insorti disposero alcuni gladiatori nella Curia di Pompeo. Al momento di entrare nella sala, qualcuno mise in mano a Cesare un papiro arrotolato. Sembrava una delle solite suppliche, le punte lo raggiunsero un attimo prima che potesse svolgere il rotolo. La scena dell’omicidio tramandata dal cronista Plutarco descrive il capo dell’impero passato come un fantoccio di braccia in braccia, trafitto colpo dopo colpo ovunque volgesse lo sguardo. Come una bestia in trappola, la vittima designata doveva passare per il filo di ogni congiurato. Tutti dovevano sporcarsi del suo sangue. Quando toccò a Bruto sferrare il colpo, Cesare si tirò la toga sul capo e si lasciò cadere. Il suo corpo si ammonticchiò alla base della statua di Pompeo, il suo vecchio e rancoroso nemico. Il suo sangue, come un fiume che rompe gli argini, inondò i marmi bianchi del senato. Molti si ferirono nella foga di colpire.

    Nel papiro che gli avevano messo in mano prima dell’esecuzione c’era una dettagliata denuncia dei cospiratori. Non era una supplica, ma la motivazione della sentenza di morte. Quando il dittatore cadde a terra trafitto, i suoi assassini si riversarono nelle strade dell’Urbe rivendicando il delitto e la ritrovata libertà di Roma. L’unico che poteva difenderlo, il suo luogotenente Marco Antonio, era stato trattenuto in anticamera. Il corpo di Caio Giulio Cesare restò alcune ore a terra prima di essere ricomposto nella sua casa. Le sue spoglie vennero affidate al medico Antistio, che sulla vittima effettuò una delle prime autopsie della Storia. L’esame confermò ventitré pugnalate, una sola mortale. La prima colpì Cesare fra il collo e le spalle, portandolo istintivamente a voltarsi di scatto verso il suo aggressore. E offrendo di nuovo le spalle a un altro assalitore. Stavolta il colpo sarebbe stato fatale. È più che probabile che in questa drammatica circostanza Giulio Cesare, accortosi della presenza di Bruto fra i congiurati, abbia pronunciato le famose parole riportate da Svetonio: «Anche tu, figlio mio?». Una teoria afferma che gli assassini possano essere stati meno della ventina corrispondente al numero delle ferite. E che i componenti di un gruppo più ristretto possano aver dato più colpi ciascuno. L’ipotesi di «un uomo, una pugnalata» sarebbe dunque più simbolica che reale.

    Nell’esaminare il corpo dell’imperatore, Antistio ritrovò serrato nel suo pugno il biglietto che poco prima di essere ucciso gli aveva passato Artemidoro per metterlo in guardia dall’agguato. Questo non riuscì a salvare Cesare, ma fu usato come prova nel processo contro i suoi assalitori. Subito dopo l’esecuzione, lo stesso Bruto, che si sarebbe unito ai congiurati solo poco prima che agissero, agitando la daga ancora grondante del sangue del suo probabile padre, lanciò un saluto a Marco Tullio Cicerone chiamandolo «Padre della Patria», e lo invitò a tenere un discorso. L’avvocato restò in silenzio. La notizia fece in un attimo il giro di Roma. Fuori del senato si era già riunita una folla. C’era molta agitazione. I cospiratori provarono a parlare alla plebe, ma il suo minaccioso brontolio li fece correre in Campidoglio, dove si barricarono difesi da schiavi armati. Chiesero a Marco Antonio di aiutarli. E il pupillo di Cesare, il mattino dopo, venne in soccorso dei vincitori. E fece di più: cercò di arringare la folla, riuscendovi, promettendo loro la cattura e il castigo dei responsabili dell’assassinio del dittatore. Il condottiero andò da Calpurnia e si fece consegnare il testamento di Cesare, che il dictator aveva scritto sei mesi prima. Senza aprirlo lo consegnò alle vestali, sicuro di esservi designato come successore. Insomma, il futuro amante di Cleopatra si era montato la testa. Appoggiò la proposta di amnistia generale avanzata da Cicerone, in cambio del lasciapassare del senato di tutti i progetti in sospeso di Cesare. Intrattenne a cena Cassio e Bruto, ventiquattro ore dopo l’assassinio del suo ex datore di lavoro, promettendo loro un governatorato sicuro e lontano da Roma. Il 18 di marzo Marco Antonio fu incaricato di pronunciare l’elogio funebre del conquistatore, nel funerale più solenne e sentito mai visto prima a Roma. Il giorno dopo il generale si fece consegnare il testamento dalle vestali per la cerimonia della pubblica lettura. Era sicuro di prendere il posto di Cesare. «Nobile, raccomandato e valoroso», avrà ripassato nella mente il neosenatore Marco Antonio. Alla lettura delle ultime volontà di Cesare, nella sala cadde il silenzio. Caio Giulio lasciava cento milioni di sesterzi da dividere fra tutti i cittadini di Roma. Al municipio donava i suoi meravigliosi giardini per farne un parco pubblico. Il resto della sua personale fortuna, Cesare volle che andasse divisa fra i suoi tre pronipoti. Uno di loro, Caio Ottavio, veniva adottato come figlio e designato erede al trono. Il fedelissimo Marco Antonio veniva ripagato dal dittatore con la stessa fedeltà da lui riservata al defunto.

    Caio Ottavio, un giovanottello fragile ma con forza d’animo, prese il nome di Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto. E si dimostrò l’ultima grande vittoria politica di Cesare: il gracile successore del dittatore romano governò per oltre quarant’anni con coraggio e razionalità. Dimostrando di aver appreso le lezioni dello zio che l’aveva preceduto al potere, fondando un secondo triumvirato con Lepido, un altro luogotenente di Cesare, e quel rosicone di Marco Antonio, col quale aveva appena guerreggiato. I loro eserciti dettero la caccia a Cassio e Bruto, i due principali colpevoli dell’assassinio del dictator. I due si erano sistemati in Oriente. Governavano rispettivamente la Siria e la Macedonia. Erano diventati dei tiranni. Avevano ridotto alla fame la Palestina, la Cilicia e la Tracia, e schiavizzato gli ebrei che non potevano pagare le tasse. Furono sconfitti nella cittadina macedone di Filippi, nel 42 a.C. A Filippi cadde anche ciò che restava dell’aristocrazia repubblicana. Il senato deificò Cesare elevandolo a divinità. Cassio e Bruto trovarono la morte col suicidio, trafitti anche loro dal ferro freddo di una lama.

    Largo di Torre Argentina

    Nono rione, quello della Pigna. La scelta del simbolo si deve al ritrovamento di un’enorme pigna bronzea romana, che fu trasferita in Vaticano in epoca antichissima. E lì fa bella mostra di sé nel cosiddetto cortile della pigna. Siamo nel primo Municipio di Roma, all’interno delle Mura Aureliane, nella zona denominata Campo Marzio.

    Il Campus Martius faceva parte di una vasta pianura paludosa compresa tra il Tevere e le antiche mura del Palatino. Inizialmente esterna ai confini della città, l’area era distribuita su circa due chilometri. Il Campo Marzio venne intitolato al dio Marte, e adibito a esercizi militari. In seguito divenne centro di scambio delle popolazioni confluite a Roma fin dal periodo arcaico. A causa di una depressione naturale del terreno, la superficie subiva frequenti alluvioni e divenne fertilissima. Tarquinio il Superbo, ultimo re prima della Repubblica, si appropriò del Campo Marzio e vi coltivò il grano. Secondo una leggenda, durante la rivolta contro il violento e presuntuoso Tarquinio, i covoni di grano del Campo Marzio furono gettati nel fiume: sarebbe nata così l’isola Tiberina.

    Campo Marzio, sulla cartina, ricorda un quadrato. A tracciarne i confini, il Pantheon, largo di Torre Argentina, via delle Botteghe Oscure e piazza Venezia. In questo pezzo di Roma, come vedremo, la Storia ha partorito molti fatti di sangue. Il toponimo di largo Argentina non ha niente a che vedere con il Paese sudamericano. Il nome si deve al vescovo tedesco Johannes Burckardt, in italiano Giovanni Burcardo, cerimoniere pontificio della curia di Alessandro vi, papa Rodrigo Borgia. Proprio mentre veniva appena scoperta l’America, fra il 1491 e il 1500, il prelato si fece costruire una residenza provvista di una torre su un terreno del rione Sant’Eustachio, preso in affitto dal monastero di Farfa. Il palazzetto venne chiamato Argentoratina, dal nome latino della sua città natale, Strasburgo, detta anche Argentoratum, in riferimento alle sue miniere di argento. Nel tempo, la zona prese il nome di Argentina.

    Oggi la torre, incorporata nella casa del vescovo in via del Sudario, non è più visibile dall’esterno. L’area ha assunto l’attuale fisionomia il 22 ottobre del 1928 per volere di Benito Mussolini, al culmine di una violenta polemica fra quanti desideravano spianare e ricostruire e quanti volevano conservare le più importanti vestigia dell’umanità. Il Teatro Argentina c’era già, la sua costruzione risale al 1732, realizzata con i soldi del duca Giuseppe Cesarini Sforza, investiti nell’opera per rivalutare il patrimonio della famiglia sfruttando il terreno rimasto improduttivo. All’inizio del secolo scorso, nel 1909, i lavori per collegare via Arenula a corso Vittorio Emanuele ii erano già previsti dal piano regolatore. Il programma sarebbe stato rispettato dieci anni dopo, e prevedeva la distruzione di edifici di importanza archeologica, soprattutto medievali. Uno scempio, insomma. Tutta l’Area Sacra rischiava di andare distrutta per fare posto ai palazzi dell’Istituto romano dei Beni stabili, che aveva firmato un appalto con il governatorato di Roma per la demolizione e la sistemazione dell’isolato di un complesso abitativo e commerciale. Le demolizioni iniziarono da una chiesa, quella cinquecentesca di San Nicola de’ Cesarini. E proprio lì sotto, il colpo di scena archeologico: il ritrovamento dell’area dei quattro templi sacri.

    La scoperta fu troppo importante. I lavori furono fermati. Si misero in moto gli uffici legali. Si crearono due correnti, quella dei demolitori e quella dei conservatori. Lasciare intatta una zona archeologica di straordinaria importanza, o edificare su terreni pregiati? Stavolta intervenne il Duce. In favore della conservazione dell’area sacra argentina, che divenne largo di Torre Argentina, dove cadde trafitto Caio Giulio Cesare. Come abbiamo visto, il capo dell’impero di Roma sarebbe stato pugnalato al centro della parte inferiore del complesso della Curia di Pompeo, identificabile con il grande podio di blocchi di tufo, situato alle spalle dei sacelli della Fortuna e di Feronia. La Curia non è altro che il primo teatro in muratura eretto a Roma per volere del console Gneo Pompeo Magno, l’avversario di Cesare. Il profilo semicircolare della Curia di Pompeo, e le gradinate dell’antica arena, sono ancora individuabili nelle fondamenta delle case di via Grottapinta, e tra via del Biscione e via dei Giubbonari. Nelle cantine dei palazzi della zona, si trovano ancora i resti delle murature e delle arcate dell’arena. La sistemazione del 1929 salvò l’area dei quattro templi, ma dette semaforo verde alla demolizione di tutto il resto. Se ne andarono così in briciole edifici tardoantichi dell’viii o ix secolo. Via Arenula c’era già. Fu aperta nel 1880 per collegare la Torre Argentina con ponte Garibaldi. In questo caso vennero sacrificate alla nuova urbanizzazione parte di via delle Zoccolette e quattro antiche chiese, Santa Maria dei Calderari, San Bartolomeo dei Vaccinari, Sant’Anna dei Falegnami e Santissima Annunziata dei Cuochi e dei Pasticceri.

    Fra i ruderi di Torre Argentina vive una delle più antiche colonie feline della capitale. Oggi in zona fanno affari d’oro i bed and breakfast. Tutto intorno, mendicanti e senza tetto provenienti da ogni parte del mondo. Qui, come in tutto il centro storico di Roma, l’ombra del racket dell’elemosina. Li vedi subito. Si avvicinano ai tavolini all’aperto dei ristoranti, lasciano piccoli gadget insieme a un fogliettino con su scritto «un aiuto per mangiare». Veloci e invisibili ripassano a ritirare la mercanzia e le offerte. E vanno avanti, di ristorante in ristorante, fino a notte. Sono i sordomuti dell’Est, che il racket dell’elemosina trasforma in schiavi cacciatori di denaro.

    Se ci s’infila nei vicoli di via Arenula, si sbuca dopo pochi metri nell’antichissimo ghetto di Roma. Non più di tre ettari, voluti nel 1555 da Paolo iv, e chiamato serraglio degli ebrei, situato tra le attuali via del Portico d’Ottavia, piazza delle Cinque Scòle (dove erano riunite cinque scuole ebraiche) e il Tevere. La zona che i romani oggi indicano come ghetto è all’incirca delimitata da via Arenula, via dei Falegnami, via de’ Funari, via della Tribuna di Campitelli, via del Portico d’Ottavia e lungotevere de’ Cenci, dove sorge la Sinagoga di Roma. Tra i ristoranti kosher ricordiamo la Taverna del Ghetto, per i fritti, e il Giardino Romano, per i carciofi alla giudia. Torta di ricotta e visciole, e biscotti alle mandorle e cannella, alla Pasticceria Boccione.

    La costruzione dei muraglioni sul Tevere avvenne dopo l’Unità d’Italia. Per l’edificazione di quell’opera, che avrebbe finalmente protetto la città dalle frequenti inondazioni, fu abbattuto quasi tutto il vecchio ghetto che scendeva verso il fiume, da cui aveva luogo un fiorente mercato del pesce, e che nei periodi di secca diventava una vera e propria spiaggia. Nella bolla papale, fra le altre cose, agli ebrei veniva proibito di esercitare qualunque commercio, eccetto quello degli stracci e dei vestiti usati. Da qui il termine dispregiativo romano di stracciarolo.

    3. Ponzia Postumina, 58 d.C.

    Il femminicidio nell’antica Roma

    Ammazzata a 16 anni. Come Federica Mangiapelo, uccisa la notte di Halloween del 2012 su una spiaggia del lago di Bracciano. Annegata come la sua coetanea della Roma imperiale, Prima Florenzia, gettata nel Tevere da suo marito Orfeo. Ignoriamo il motivo del delitto, e se il femminicida dell’Urbe sia stato poi punito. Conosciamo solo il dolore dei genitori della giovane moglie, arrivato sino a noi su un’iscrizione funeraria ritrovata nella necropoli di Isola Sacra, a Fiumicino, dove la famiglia abitava: «Restuto Piscinese e Prima Restuta posero a Prima Florenzia, figlia carissima, che fu gettata nel Tevere dal marito Orfeo. Il cognato Dicembre pose. Ella visse sedici anni e mezzo». A rispolverare l’epigrafe, insieme a molte altre migliaia, è stata la professoressa Anna Pasqualini, archeologa e docente di Antichità romane all’università dell’Aquila e a quella di Tor Vergata. La storia di Prima Florenzia, sia pure priva di altri particolari, fotografa un contesto senza tempo in cui è facile ritrovare gli ingredienti di una cronaca nera di oggi: una famiglia unita, l’amore per una figlia, un compagno-padrone, una vittima donna.

    Il femminicidio resta ancora oggi una delle zavorre più odiose dell’umanità. Secondo le rilevazioni di Eures, il portale di ricerche economiche e sociali, i casi di mariti o fidanzati che uccidono una donna, per motivi che un tempo si sarebbero detti passionali, purtroppo non diminuiscono. La ventiduenne Sara Di Pietrantonio, la ragazza bruciata viva alla Magliana all’alba di domenica 29 maggio 2016 dall’ex fidanzato Vincenzo Paduano, di ventisette anni, è la vittima numero cinquantacinque del 2016. Nello stesso periodo dell’anno prima erano state sessantatré: una diminuzione ancora troppo esigua perché si parli di cambio di passo.

    La vicenda di Florenzia è solo uno dei casi di violenza sulle donne riportati alla luce dalla Pasqualini¹ che dimostrano come la prepotenza e l’abuso maschile nell’antica Roma fossero un fenomeno frequente quanto oggi. Uccidere le proprie congiunte, a quanto pare, è una pratica di cui vergognarsi da duemila anni.

    Solo nel 2013 si è registrata la più alta percentuale di donne tra le vittime di omicidio in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati (179 su 502). Il Lazio e la Campania, con 20 donne uccise da mariti, fidanzati e spasimanti, presentano il maggior numero nazionale di omicidi di donne. I dati sul femminicidio nella Roma imperiale non sono noti. Ma riteniamo che gli Orfeo che buttavano al fiume la propria moglie non fossero pochi. Un caso famoso è quello di Ponzia Postumina. Assassinata in una tragica notte da Ottavio Sagitta, senatore e tribuno della plebe sotto il regno di Nerone, 58 d.C. La storia ce l’ha tramandata Publio Cornelio Tacito², e all’epoca fece scalpore.

    Il tribuno della plebe Ottavio Sagitta s’era invaghito follemente di Ponzia, che era già sposata. La riempì di doni, la sedusse, l’indusse ad abbandonare il marito promettendole nuove nozze. Ponzia però ritirò la sua promessa e Ottavio, per niente rassegnato, non sapeva più se ricorrere alle minacce o alle promesse. Niente, la donna di lui non voleva più saperne. Allora l’uomo implorò un ultimo appuntamento, per un chiarimento. Una sola notte per «placare la passione e trovare infine pace». I due amanti si videro di notte, nella stanza di lei, sorvegliata da un’ancella. La notte passò fra litigi, spiegazioni, rimproveri, baci rubati. «Infiammato» dalla passione, l’uomo d’un tratto estrasse un coltello e ferì la povera Ponzia, che cadde morta con un’espressione di sorpresa nel volto. L’ancella denunciò il tribuno e la verità fu chiara a tutti. Il senato lo condannò secondo le leggi romane sugli omicidi.

    Il focoso senatore si era presentato all’appuntamento con Ponzia portandosi dietro un pugnale. Con una prova del genere in tribunale, oggi sarebbe dura difendersi dall’accusa di omicidio premeditato. A Ottavio Sagitta fu applicata la legge de sicariis, l’omicidio volontario, e fu condannato all’esilio nell’isola di Ponza.

    A Roma la violenza sulle donne era connaturata alla mentalità maschilista locale. Ed era esercitata sia dai patrizi che dai plebei. Da questi ultimi proveniva una certa Giulia Maiana di Lione, altra vittima della brutalità di un uomo. Questo è il suo epitaffio:

    Agli Dei Mani e alla quiete eterna di Giulia Maiana, donna specchiatissima, uccisa dalla mano di un marito crudelissimo, che morì prima di quanto il fato le avesse accordato. Col marito visse ventotto anni e con lui generò due figli, un maschio di diciannove anni e una femmina di diciotto. O fides o pietas. Giulio Maggiore, fratello della dolcissima sorella e suo figlio Ingenuinio Gennaro eressero il cippo e lo dedicarono sub ascia.³

    Anonime o conosciute, le donne dell’antica Roma sono sempre vittime della stessa malvagità maschile. Prendiamo ad esempio il celebre episodio di Lucrezia, moglie di Collatino, insidiata da Sesto Tarquinio, figlio del tiranno Tarquinio il Superbo. Mentre Roma si espandeva sotto il dominio della monarchia etrusca, nell’assedio di Ardea i soldati ripensavano alla propria casa e alle proprie donne. Ne descrivevano i pregi e scommettevano sulle virtù delle consorti. Il più orgoglioso di tutti era Lucio Tarquinio Collatino, marito di Lucrezia, che a sorpresa decise di invitare la soldataglia a casa sua per fagliela conoscere. Quando la vide, Sesto Tarquinio perse la testa. E non esitò a chiederle di diventare la sua amante. Lei rifiutò. Lui la ricattò, prospettandole, per disonorarla, di farla ritrovare morta accanto al cadavere di uno schiavo nudo. Lucrezia cedette allo stupro, ma subito dopo raccontò a suo padre e a suo marito Collatino l’oltraggio appena subìto dal figlio del Superbo. E in preda alla disperazione si uccise davanti ai loro occhi.

    Un caso analogo a quello di Lucrezia accadde molti secoli dopo a una virtuosa matrona di nome Mallonia. Ad insidiarla fu «un vecchio e bavoso Tiberio, invaghitosi di lei»⁴, racconta l’archeologa Anna Pasqualini a proposito di Tiberio Giulio Cesare Augusto.

    Dopo essere stato respinto con orrore, l’imperatore trascinò la donna in tribunale con l’accusa di impudicizia, formulata da un delatore prezzolato. La povera donna priva del sostegno di parenti e amici si tolse la vita senza aspettare l’esito scontato del processo, vittima della passione senile di un tiranno, ancor più sordido di Sesto Tarquinio.

    La stessa brutalità di Sesto, o virilità di stupro come è stata definita la violenza sulle donne dallo storico francese della Roma antica Paul-Marie Veyne, la ritroviamo in un altro femminicidio di quel lontano passato. Quello di Virginia, giovane plebea figlia del soldato romano Lucio Virginio, sedotta dal patrizio Appio Claudio Crasso. Un altro approccio di sangue, iniziato con lusinghe e doni, finito con un rapimento e un’esecuzione. Il decemviro s’invaghì della ragazza, cercò in ogni modo di avvicinarla a sé. Lei rifiutò la sua corte. Allora Claudio la fece rapire e mise in atto un disegno diabolico: costrinse un complice a dichiarare che la giovane era in realtà una sua schiava. Quindi priva di ogni diritto. La questione finì in tribunale. Però la corte (quando si dice il conflitto d’interessi) era presieduta proprio da Appio Claudio. Mentre si attendeva il ritorno del fante Lucio Virginio, impegnato in una guerra con gli Equi (le guerre si facevano dietro casa a quei tempi), i romani protestarono per l’ennesima prepotenza del potere. Il giudice allora concesse alla ragazza di tornarsene a casa. Giunto a Roma, Virginio rivendicò l’innocenza della figlia. Appio Claudio insistette: «È la mia schiava!». Scoppiò una rivolta, i littori dispersero la plebe. Il genitore allora si appartò con Virginia presso il sacello di Venere Cloacina, nel Foro Romano. Un passo dell’opera di Livio, Ab Urbe Condita, posto in prossimità dell’altare, ricorda l’avvenimento: «Virginio trae la figlia e la nutrice presso il sacello di Cloacina alle taberne che ora son dette nuove ed ivi, preso da un macellaio un coltello, esclama: Solo in questo modo, o figlia, posso restituirti in libertà. Quindi trafigge il petto della fanciulla e volgendosi al tribunale dice: Te e la tua testa, o Appio, io consacro alla vendetta con questo sangue». Pochi giorni dopo il popolo, nauseato dalla sfrontatezza dei patrizi, colse l’occasione per cacciare i decemviri e i re e ristabilire il governo repubblicano.

    Nelle iscrizioni funerarie romane sono documentati anche i femminicidi a scopo di rapina. In un carme epigrafico di Roma così un vedovo si rivolgeva al passante:

    Chiunque legga questa iscrizione, se è un giovane che ama la sua donna, si astenga dall’avvolgerle d’oro le braccia. Anche se ella ti cinge il collo con le sue braccia adorne, e ti supplica di poter indossare doni all’altezza dei suoi meriti, accontentala nelle vesti, ma lascia stare i gioielli: si terranno alla larga ladri e seduttori. Fu infatti un serpente vistoso sulle sue braccia a provocare la morte della mia signora che a me, il marito, ha colpito al cuore. E la ferita la porterò sempre.

    Un consiglio saggio di duemila anni fa. Con gli scippi che ci sono a Roma, buono ancora per una signora del duemila.

    Venere Cloacina e la Cloaca Maxima

    Nella Roma di oggi la base circolare che rimane del tempietto intitolato alla protettrice della Cloaca Maxima (e della purezza) è collocata a lato di via dei Fori Imperiali, vicino ai resti della basilica Emilia e della via Sacra. Il basamento di marmo, come risulta dalle raffigurazioni sulle monete, originariamente sosteneva un piccolo recinto perimetrale al cui interno erano situate due statue di divinità: Cloacina e Venere. Con il tempo le due dee vennero assimilate e fuse in un’unica entità: Venere Cloacina.

    Cloacina, dal verbo latino cloare, cioè purificare e pulire, era adorata dai romani come la dea delle fogne. E della pulizia in generale. Anche dell’intestino, visto che la sua effige era posizionata nei bagni delle case romane. Accanto a questo piccolo ma importante santuario a cielo aperto, connesso con la Cloaca Maxima, la fognatura principale di Roma antica, che in questo punto entrava nel Foro Romano, si sarebbero svolti due importanti episodi: la purificazione con rami di mirto degli eserciti romano e sabino, dopo la guerra seguita al Ratto delle Sabine, e l’uccisione di Virginia da parte del padre, Lucio Virginio. Qui, dicevamo, scorre la via Sacra. Si tratta dell’asse stradale più importante e più antico della valle del Foro, così chiamato dopo che Romolo e Tito Tazio risolsero con una pace il rapimento delle giovani. Sotto all’antico livello stradale passa la Cloaca Maxima.

    La fogna che ha sfidato i secoli fu iniziata all’epoca dei re etruschi, sotto Tarquinio Prisco o Tarquinio il Superbo. Furono questi a insegnare ai romani la bonifica delle paludi e l’ingegneria delle fognature. Nessuno dei governanti di Roma, però, trascurò mai l’opera, che sostenne le esigenze di una città che arrivò a un milione di abitanti, e contribuì a liberare le acque malariche che ancora inzuppavano il terreno del Foro. Re e imperatori continuarono a migliorare la cloaca fino alla fine dell’impero. Se a Roma non ci furono epidemie devastanti, lo si deve certamente a questa struttura. Ma anche agli acquedotti e alle terme. Una ricerca dell’università dell’Illinois ha studiato i depositi calcarei nell’acquedotto Anio Novus, iniziato da Caligola nel 38 e terminato da Claudio nel 52. In questo modo ha calcolato il flusso d’acqua che lo percorreva: oltre mille e quattrocento litri al secondo, dal fiume Aniene alla città di Roma. Un vero portento di ingegneria idraulica.

    All’inizio la cloaca era solo un canale a cielo aperto, che raccoglieva le acque dei torrenti naturali e contribuiva così alla bonifica di quell’area paludosa su cui venne edificato il Foro Romano. In seguito fu interrata, ampliata e periodicamente restaurata. Continuò a funzionare per parecchio tempo anche dopo la fine dell’impero. Nella fogna, per secoli, affluirono tutti i rifiuti di Roma. Compresi i corpi di molti uomini e donne morti misteriosamente. Come quello dell’imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, meglio conosciuto come Eliogabalo, l’adoratore del dio Sole che compiva sacrifici umani, assassinato dai pretoriani l’11 marzo del 222 d.C.

    1 Anna Pasqualini, Femminicidio e stalking nell’antica Roma, da «Forma Urbis», Donne nell’antichità: figlie, mogli, sorelle, madri, streghe, sante, numero xx, fascicolo 3, Roma, marzo 2015.

    2 Publio Cornelio Tacito, Annali, xiii, 44.

    3 Carte archéologique de la Gaule, 69, 2 Lyon, Paris 2007, p. 684, citato in Anna Pasqualini, cit.

    4 Anna Pasqualini, cit.

    5 Ibidem.

    6 Ibidem.

    4. Giulia

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