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Le donne di Aleister Crowley
Le donne di Aleister Crowley
Le donne di Aleister Crowley
E-book271 pagine3 ore

Le donne di Aleister Crowley

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Info su questo ebook

“Le donne di Alesteir Crowley” è un noir psicologico, erotico, dissacrante, in cui il confine tra realtà e finzione è talmente labile che il lettore, alla fine del romanzo, sarà sorpreso dal suo esito finale inaspettato.
Il consueto percorso delle uccisioni e dell’indagine successiva sui probabili assassini, sarà completamente ribaltato rispetto al cliché tradizionale del filone “Noir” e del “Giallo investigativo”.
Solo nell’ultima pagina, infatti, si chiariranno gli effettivi ruoli dei personaggi, la trama oscura della vicenda e il labirinto mentale in cui viaggiano i colpevoli e gli innocenti.
Jack, il protagonista del romanzo, improvvisamente scomparso, è un affascinante gallerista di mezza età, da sempre ammirato dalle donne. L’uomo si ritrova, dopo una inaspettata delusione amorosa, sperduto nel dedalo dei meandri della sua stessa psiche e completamente incapace di risolvere la sua crisi esistenziale.
Le uniche tracce, che lascia di sé, sono degli strani e allucinanti messaggi, scritti su fogli fradici di pioggia, abbandonati su di una panchina di “Central Park”, in una buia notte in cui imperversa un violento temporale.  
Un suo caro amico, di cui non si conosce l’identità, che è anche la voce narrante della storia, lo cerca disperatamente, perché pensa che Jack possa compiere un gesto irreparabile da un momento all’altro.
Nella ricerca affannosa dell’amico scomparso per tutta New York e in altri luoghi degli Usa, infine, troverà importanti appunti di Jack, rivelatori di una vita sotterranea e spericolata, fatta di sesso sfrenato e caotico, stregoneria, misoginismo e alienazione.
Scoprirà che la vita di Jack, tra solitudine, esoterismo e sesso, ha prodotto in lui una totale perdita della propria identità, per cui ogni azione sarà per lui possibile, anche la più irrazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2020
ISBN9788835862116
Le donne di Aleister Crowley

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    Le donne di Aleister Crowley - Eustachio Fontana

    PRECISAZIONI DELL’AUTORE

    La storia narrata è di pura invenzione.

    Ogni riferimento a personaggi o fatti, presenti nel romanzo, è puramente casuale.

    La copertina del libro è stata creata utilizzando una composizione di due opere litografiche, di mia proprietà, del pittore Mauro Brilli e sono soggette a copyright.

    L’immagine all’interno del libro, che rappresenta il quadro trovato dal protagonista ad Hart Island, L’isola dei morti, è stato realizzato dallo stesso autore.

    Le immagini dei tarocchi, usate come scansione dei capitoli, sono quelle originali del mazzo di carte di Aleister Crowley, pseudonimo di Edward Alexander Crowley, ( Leamington Spa, 12 ottobre 1875 – Hastings, 1º dicembre 1947) noto esoterista e scrittore britannico.

    PREMESSA

    Il romanzo Le donne di Alesteir Crowley è destinato solo ai lettori consapevoli che la storia narrata non farà sconti a ogni moralismo o censura.

    Johan Huizinga, uno storico olandese, poco più di cento anni fa, descrisse

    I toni crudi della vita nell'epoca dei cosiddetti Secoli bui del Medioevo.

    Pestilenze, fame, guerre e ogni tipo di calamità, uccidevano, all'improvviso, centinaia di migliaia di uomini in uno spazio ristretto di tempo e la vita era estremamente precaria.

    New York, nella vicenda narrata, si presenta come il centro del nostro Medioevo contemporaneo. I toni crudi dei secoli passati si sono trasformati in alienazione e pazzia collettiva in una delle città simbolo del cosiddetto progresso tecnologico.

    I personaggi della storia vivono nella schizofrenia convulsa di una megalopoli, solo apparentemente dinamica, che gira a vuoto sullo stesso perno irrazionale di vita sprecata.

    I protagonisti newyorchesi della vicenda, credendo di esistere, annaspano invece nell'inutile ricerca di sé stessi nel vuoto incredibile della propria anima.

    Non si scandalizzi, quindi, il lettore per i toni crudi usati nella stesura del romanzo.

    Un compromesso formale, con l’uso di un linguaggio meno grezzo e provocatorio, non sarebbe confacente al contenuto.

    Questo è il nostro Medioevo e New York non ne rappresenta che uno dei simboli, dove noi uomini brancoliamo, come ciechi, in questo ambiente surreale.

    I toni crudi presenti nella vicenda sono unicamente funzionali alla psicologia dei personaggi e al tentativo di dare veridicità alla storia.

    La psiche alterata dei protagonisti e le vicende scabrose, in cui sono coinvolti, determinano la scansione degli avvenimenti che si susseguono e, come tali, vanno interpretati dai lettori.

    La forma, scelta dall'autore, rispecchia pertanto un contenuto inquieto e realistico, che solo con una forma marcata e avulsa da una schematica censura ha potuto ottenere la sua giusta espressione.

    L’INIZIO

    New York, la città dove vivo, La Grande Mela dei reprobi o dei probi.

    Scegliete, pure voi, il definitore che si adegui meglio al vostro caso e poi incolpatelo o assolvetelo.

    A me rimane ben poco di questa Grande Mela, ammesso che il grosso e vorace baco che se la divora, nell'acquiescenza dei più, abbia avuto lo scrupolo di lasciarmi qualche avanzo di una megalopoli ormai sul letto di morte.

    Mi basterebbe un barlume di vita o almeno la sensazione di vivere, alla stregua di un naufrago, che naviga in mezzo ai fumi malefici e tossici ed ai suoi sacrari del capitalismo: le assurde basiliche laiche in verticale, assemblate con vetro, acciaio e banconote, a densità umana stratosferica come la loro assurda altitudine.

    Mi accontenterei di fare solo l’inutile pistone umano, ignaro di andare su e giù per gli altezzosi santuari longitudinali, protesi impunemente verso un cielo bugiardo e indifferente, come loro, che non ha la minima intenzione di elargire promesse né speranze.

    Mi piacerebbe essere un alieno tra le loro formiche, che brulicano all'interno, chinate verso i protocolli burocratici, le spesse scartoffie, i geroglifici postmoderni, i marchi indefiniti e i fidi bancari, di cui, al di là dell’ingannevole nome, non c’è mai da fidarsi.

    Vorrei ignorare l’assurdità che le formiche di sopra non degnino di uno sguardo le formiche di sotto, che s’intrecciano frenetiche nel labirinto dei loro pensieri contorti e nel dedalo di strade affogate dal cemento.

    Vorrei distogliere la mia inquietudine dalla patologia del tran tran della vita, che scorre nella presunta normalità, fino a quando non accada l’imprevedibile e nasca una scheggia impazzita, un qualsiasi traditore della norma, un antieroe del progresso incontestabile e stabilizzato del dio quattrino.

    Uno che, prendendo coscienza oppure impazzendo per la noia dei brogliacci, dei file o degli schedari virtuali, abbia il tempo di guardarsi nello specchio dei suoi pensieri, perché un’illuminazione, una scarica umana di un cervello è sempre possibile.

    Questo antieroe del progresso o traditore della norma, a quel punto, correrà il rischio di riconoscersi nelle formiche di sotto. Poi le scoprirà proprio uguali a quelle di sopra, le sue, e libererà il suo pensiero, ermetico fino a quel momento, costatando che il formicaio di sopra, quello a cui appartiene, è identico a quello di sotto e il resto era solo una comoda finzione.

    È possibile, allora, che la sua mente cominci a calcolare in quanti secondi o millesimi di secondi il suo corpo possa compiere il rapido tragitto che lo separa dal selciato della strada sottostante e che tipo di rumore possa emettere la sua materia, a cui avrà deciso di rubare la vita, nello schianto sul cemento.

    Milioni di persone, ognuna diversa dall’altra, tutte in cerca di qualcosa a New York, la Grande Mela bacata ed io mi sono sperso tra loro e per ritrovarmi sono andato alla ricerca di sensazioni forti.

    In cerca dei morti veri e non di quelli che fanno finta di non esserlo, mentre sono ancora vivi, ho compiuto un’azione assurda. Non me ne spiego il motivo e i perché potrebbero ferirmi.

    Andare per cimiteri è assurdo?

    E allora cos'ha di diverso un film horror che piace alla massa, un truculento omicidio visto alla tv oppure la macabra pausa davanti alla parola Muore sulla civetta di un quotidiano?

    Mi annoiavo e non ero in cerca di niente oppure ero in cerca di qualcosa, che non avevo ancora messo a fuoco o forse cazzeggiavo, cazzeggiavo e basta, e non ero in cerca di niente.

    Sopravvivo qui a New York, la grande mela bacata e, forse, l’unica spiegazione plausibile è che fossi alla ricerca di una goccia di antidoto allo squallore delle formiche di sotto e di sopra e dei loro deleteri formicai, affogati nel cemento, ai quali io stesso appartengo. Ma non c’è scritto da nessuna parte che al peggio subentri il meglio e che un antidoto non peggiori l’effetto di un veleno.

    In che cosa mi sarei potuto imbattere io, in perpetua ricerca di guai?

    Io mi sono messo a sfidare la polizia, che mi poteva sparare a vista.

    Absolutely Forbidden, No Landing, dicevano i numerosi cartelli di dissuasione per i curiosi o matti, che dir si voglia, desiderosi di varcare la soglia tra i cosiddetti vivi, per incontrare i cosiddetti morti.

    Ero ossessionato di compiere al più presto l’azione inconsulta di andare a visitare il più grande e squallido cimitero del mondo e, alla fine, l’ho fatto.

    Forse perché, già disgustato per il baco della mela, volevo nausearmi ancora di più assaggiando lo stesso baco, lo stesso fottuto baco che se la divora e abbracciare la putredine più assoluta.

    Dopo molte peripezie e percorsi tortuosi per evitare la guardia costiera, in un mare, nero come la pece e senza più esistenze vitali, con la complicità di un contrabbandiere da quattro soldi e di un altrettanto sgangherato natante, sono sbarcato nell'Isola dei morti dimenticati, alle porte della Grande Mela o meglio del marciume che ne resta.

    Mi piaceva andare incontro alla morte oppure traevo piacere nel cercare cadaveri in un’isola dimenticata dagli uomini?

    Sono un depravato o un mentecatto, a cui il baco della mela è entrato nella testa?

    Insomma ho messo piede, da vivo e, per mia fortuna, la mia incoscienza non ha agevolato l’aggiunta di un’unità al numero dei morti che qui abbondano.

    Sono, quindi, sbarcato ad Hart Island, il più grande cimitero degli Usa e per giunta di notte.

    Qui, in grandi fosse comuni, sono state seppellite un milione di persone.

    Molti non lo sanno o fanno finta di non saperlo, ma le viscere di questa piccola isola, dove io ho avuto la ventura o la sventura di mettere piede, attaccata al Bronx, ospita un milione di anime, dannate o redente, questo non si sa.

    Abbiamo un’unica certezza su quelle povere anime: sono quasi tutte sconosciute.

    Sono arrivate via mare, dentro umili casse di legno, ammucchiate una sull'altra sui battelli e i carri, per poi finire, allo stesso modo, accatastate sotto terra, tre alla volta. In una porzione di terreno ogni cumulo ne ha accanto a sé un altro, e poi un altro ancora, fino a comporre un esercito di centocinquanta bare.

    Raggiunti i necrofori numeri stabiliti, i detenuti del vicino penitenziario di Rikers Island, utilizzati per il viaggio della morte e pagati cinquanta centesimi all'ora, la ricoprono e sistemano sulla fossa comune una croce bianca.

    Quelle grandi sono per gli adulti, le piccole per i bambini o i feti morti.

    Al di sotto di questi disgraziati, morti precocemente, le anime sono di più, perché singolarmente fanno meno volume di morte. Sono mille alla volta, mille a ogni croce.

    Che cosa avrei potuto scovare in un posto simile se non i segni, i drammatici segni di una sofferenza estrema e l’immaginazione del passaggio dei morti viventi, quelli ancora non sepolti? Non è forse questa la condizione dei galeotti del vicino penitenziario, che trascinano altri morti, valanghe di morti come loro, con una vita analoga e senza futuro, come quella dei cadaveri che seppelliscono?

    Cosa mi sarei potuto aspettare visitando un simile posto?

    Uno, al di fuori della storia, uno che non ha letto ancora il proseguo di questa vicenda assurda e presume di sapere, non avrebbe dubbi: avrei trovato solo morte e sgomento.

    Ho scovato, invece, tracce di vita.

    Credo di vita pure intensa, dove mai sarebbe stato immaginabile trovare qualcosa di simile e cioè in un’ala di un fatiscente edificio in rovina, forse la sede semi crollata di un ex archivio dei morti, quando non erano così numerosi e si continuava a contarli uno per uno.

    Rimanevano solo un tetto crollato, lembi di muro scalcinato e soprattutto una quantità enorme di spazzatura che emanava un orribile fetore di marciume e un tanfo di morte dappertutto, forse l’esalazione delle tonnellate dei cadaveri sepolti.

    Disgustato, stavo per andarmene altrove e, con la torcia nel buio della notte, sarei voluto tornare un po’ all’aperto, sempre con l’aria fetida dei morti, ma meno fetida dello spazio dell’edificio crollato pieno di sudiciume.

    A quel punto ho udito un rumore sinistro.

    Qualcuno o qualcosa stava frugando nella spazzatura e ho cambiato idea.

    Mi sono girato e, schifato, ho colto un gruppo di ratti famelici che stava rosicchiando fra la spazzatura e, così, ho visto sporgere dal mucchio di sporcizia lo spigolo di quella che sembrava essere una cornice.

    Mi sono chiesto se potesse essere davvero una cornice, quando un altro gigantesco ratto mi ha distratto. L’ho visto, imperterrito e spavaldo, mordere una carta da gioco.

    Lì per lì, pensavo che fosse una semplice carta da gioco, ma alla luce della torcia, ho notato che era di dimensioni un po’più grandi, un tarocco, ma un tarocco che non conoscevo e poi ho notato che di carte così ce n’erano ancora altre, sparse alla rinfusa tutto intorno.

    Conosco bene i tarocchi, ma quelli non li avevo mai visti. Erano carte che non facevano parte della mia collezione, una fissazione di collezionare i tarocchi che ho in testa da almeno un decennio.

    Alla fine il ratto della carta ha deciso di andarsene e io sono ritornato a osservare l’angolo di quella che doveva essere una cornice. Se ne vedeva sporgere solo lo spigolo e mi sono chiesto cosa diavolo ci fosse di sotto. Pensavo che fosse solo una fottuta cornice e non altro, ma non ne ero sicuro e volevo scavare per vedere se sotto ci fosse stato qualcosa di più.

    Avrei dovuto svuotare della terra marcia dal putridume. La cosa mi faceva ribrezzo e poi l’operazione si complicava, perché a pochi centimetri c’erano degli escrementi. Evidentemente qualche poliziotto di pattuglia si era calato i pantaloni, perché non ce la faceva più a trattenerla, oppure erano i resti di qualche visitatore notturno che dalla paura se l’era fatta addosso.

    Anche gli incoscienti defecano, anzi forse defecano più degli altri. Magari un tizio incosciente come me, inseguito dalla polizia, prima di beccarsi una pallottola in testa, si era calato le brache.

    Non sapevo come scavare e poi ero sommerso dallo schifo: il fetore, il tanfo, il marciume mi facevano vomitare, ma ho trovato un pezzo di legno, di sicuro un pezzo di travicello del tetto crollato. Mi sono messo i guanti e ho cominciato a scavare e, alla fine, ho trovato — cosa quasi inverosimile — un quadro sporco, ma quasi intatto avvolto nel cellophane.

    «Chi l’ha abbandonato in questo posto di merda?» mi sono chiesto.

    La risposta non ce l’ho tuttora.

    Forse una vendetta, un seppellimento voluto, uno spregio per indicare un amore finito, che valeva, né più né meno, come la merda e il fetore che là mi circondava.

    Il quadro aveva, però, un soggetto che poco a che fare con la morte.

    Un culo, infatti, di solito, resta vitale e simpatico. Grande o piccolo che sia, un culo ti può far sorridere o ti desta ammirazione, senza contare poi che nella vita, una faccia ha spesso meno dignità di un culo.

    Sul piano morale il culo è più onesto della faccia: non inganna, non è una maschera ipocrita. Un culo resta un culo, mentre una faccia ha mille forme, nella maggior parte maligne o incattivite.

    Insomma mi sono imbattuto in un quadro con il culo esposto di una tizia, non un culo normale, ma un bel culo.

    Che sia stata seppellita anche lei in una fossa comune?

    Vicino al quadro, a poca distanza, c’erano le carte che si stava rosicchiando il grosso ratto. Tarocchi, forse gettati per terra in un momento di rabbia o, almeno, così io mi immagino la scena dell’incazzato che avrebbe potuto seppellire il quadro e lanciare rabbioso per aria le carte. Mi sono chiesto, infatti, se il culo fosse collegato alle carte e la mia sensazione è proprio che lo fosse stato.

    Non sono un mago né uno stregone e non mastico argomenti della cabala, anche se ho la fissazione dei tarocchi, ma quelli non li avevo ancora visti ed ho avuto subito l’impressione che il mio contatto con quelle carte non sarebbe finito con la visita al cimitero.

    Prima che l’aria pestilenziale avesse divorato il quadro, il mazzo di tarocchi e, soprattutto la mia suggestione su di un bel culo, che voglio credere ancora vivo e vegeto, ho cercato di riflettere quanto più a freddo possibile.

    Suggestionato?

    Ero suggestionato dagli effetti luminosi della torcia che lo mettevano in evidenza oppure no? Ma mi sono subito reso conto che la mia era molto di più di una suggestione.

    Sì, poteva essere anche un vecchio quadro, il semplice nudo di una donna, una vecchia troia da casino, ormai trapassata da tempo che a New York abbondano e abbondavano anche in tempi passati.

    Ho poi considerato che anche se la cornice fosse stata antica, non era così consequenziale che lo fosse anche il culo.

    Ho caricato tutto sulla barca del contrabbandiere e siamo ripartiti nell'oscurità della notte senza luna per tornare da dove eravamo partiti.

    Lui mi ha impacchettato il tutto in una vecchia coperta che giaceva chissà da quanto tempo nella sua sudicia barca: il quadro con il cellophane e i tarocchi.

    Mi è sembrato gentile per il gesto, ma dopo, quel figlio di puttana mi ha guardato con una faccia poco raccomandabile e ed ha preteso ulteriori soldi.

    «Ma come ti porto in un posto di merda, ti impacchetto anche il quadro assieme a delle schifose carte e non mi dai più nulla?» mi ha urlato con tono minaccioso, infilandosi una mano nella tasca che, ci giuro la mia testa, di sicuro conteneva un coltello con cui mi avrebbe infilzato.

    Poteva uccidermi, per portare via tutto quello che avevo nel portafoglio più il quadro. Nel buio della notte mi avrebbe gettato nell'acqua fetida e nessuno avrebbe più cercato né ritrovato il mio corpo.

    Ho scrutato la faccia del contrabbandiere nella penombra, una faccia minacciosa e poco rassicurante per la mia sicurezza.

    E quindi, poiché le facce sono più pericolose dei culi, mi è toccato sganciargli all'istante altri cento dollari, oltre ai cinquecento che gli avevo già dato prima di partire per Hart Island, l’Isola dei morti.

    Dopo una notte agitata e insonne — e come poteva essere diversamente — mi sono svegliato la mattina dopo, ripensando a tutto quello che mi era successo.

    Ho ripulito il quadro e poi l’ho appeso alla parete del mio studio di viale Lex, come lo chiamiamo noi newyorchesi, cioè Lexington Avenue, un viale in direzione nord-sud nell'East Side del borough di Manhattan.

    Per fortuna i doppi vetri cancellano il frastuono del traffico stradale, che scorre a senso unico verso sud, dalla 131ma strada est a Gramercy Park alla 21ma strada est e così, in mattinata, ho potuto recuperare un paio di ore di sonno.

    immagine 1

    Nel mio appartamento, assieme al ricordo dei cadaveri, delle fosse comuni e a tutto lo squallore di Hart Island, mi è poi venuta in mente la storia tragica di Jack, che potrebbe avere inquietanti collegamenti con l’Isola dei morti, il quadro e i tarocchi.

    Non credo e non ho mai creduto alle combinazioni.

    Mi sono spinto ad Hart Island solo per un caso e, sempre lo stesso caso, mi ha fatto ritrovare il quadro e i tarocchi?

    Osservando di nuovo, e questa volta, senza i pericoli di un’isola proibita e con la quiete necessaria del mio appartamento, il culo e quella donna, a cui quel culo appartiene, mi sono ricordato la storia intricata e contorta di Jack, il mio amico più caro, quello di cui non posso fare a meno, che si è imbattuto in donne dal culo simile a quello del quadro e in quei tarocchi, che quel culo ricordano, e non vagamente.

    Le carte le ho poi riconosciute, dopo una ricerca sul computer.

    Sono i tarocchi di Alesteir Crowley, un intero mazzo di sue carte, gettate alla rinfusa tra i resti di macerie a pochi metri dal quadro.

    Alesteir Crowley, il mago pervertito, dal sesso trivalente, dai sacrifici di sangue, dai riti esoterici e diabolici, non so se c’entri con la storia di Jack, ma, di sicuro, c’entrano donne simili alle sue, quelle che ha posseduto, quelle impazzite e non, pervertite, ingenue o maligne. Femmine della stessa pasta della pittrice, sua convivente, che gli disegnò i tarocchi che rappresentavano in forma iconografica gli incubi ricorrenti che lui le descriveva.

    Sono donne simili a quelle del mio amico Jack?

    I tarocchi, assieme alle donne, che le carte rappresentano, hanno segnato la vita di Jack e anche la mia, perché io e Jack potremmo essere una stessa persona dal tanto amore che dimostriamo l’uno per l’altro in ogni gesto quotidiano, in ogni dubbio, in ogni speranza, in ogni sogno che potrà avverarsi o non avverarsi.

    Il centro della storia di Jack è New York, la Grande Mela, che non è ospitale, non ha cuore, non ha sentimenti. È esaltata, assordante e confusa, un posto nemico, arduo, smanioso, ambiguo

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