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Pazze di libertà
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E-book181 pagine2 ore

Pazze di libertà

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Info su questo ebook

Il sole è alto nel cielo quando Maria si risveglia in un luogo che non conosce, ma le bastano pochi attimi per capire che non sarà una giornata come le altre. La luce esterna proietta sul pavimento l'ombra delle sbarre che bloccano la finestra, la porta è serrata e il letto in cui si ritrova non è il suo. Le lenzuola sono rigide, i muri segnati dai graffi. Un manicomio. Ma lei non è pazza, non può permettersi di restare lì, fra le urla delle altre internate e gli orrori dell'ospedale psichiatrico. Fuori c'è Lucio che l'aspetta. Sullo sfondo di una Grosseto segnata dalle bombe, dalle razzie e dalla lotta partigiana della seconda guerra mondiale, si muovono le vite delle donne che provano a farsi spazio in un mondo governato dagli uomini. E Maria funge da portavoce e da esempio per ognuna di loro.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2020
ISBN9788893331746
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    Anteprima del libro

    Pazze di libertà - Silvia Meconcelli

    forte)

    PROLOGO

    Aprii gli occhi. Mi guardai intorno stordita, avevo dormito troppo. Mi sentivo confusa, frastornata. Dovetti stringere le palpebre per mettere a fuoco la stanza. Dove mi trovavo? Il mio cuore iniziò a picchiare forte quando mi resi conto di essere sola, in un luogo cupo e sconosciuto, con le pareti che sembravano inghiottirmi. Percepii una forte oppressione al petto, una sensazione di terrore affogarmi. Ero rinchiusa in una cella. Mi alzai di scatto e corsi alla porta. Era serrata. Perché è bloccata, questa maledetta porta?, mi domandai senza respiro.

    Bussai forte.

    «Aprite!».

    Non rispose nessuno.

    Picchiai con il palmo delle mani sul metallo freddo, le dita che battevano un suono sordo.

    Volai verso la finestra, lunghi riquadri di luce pallida filtravano tra le sbarre arrugginite, sfumando sulle lenzuola sgualcite. Provai a romperla, ma era una pesante lastra impossibile da frantumare.

    Restai con la fronte appiccicata alla finestra, il respiro pesante creava sul vetro un alone che si allargava e si stringeva.

    Guardai fuori per cercare di capire se avessi mai visto quel posto. Era un grande edificio di mattoni a tre piani, con un cortile centrale piastrellato, pieno di finestre. Sbarre dappertutto.

    Chi mi ha portata qui dentro?

    Interpellai i miei ricordi per rievocare il momento esatto in cui avevo varcato la soglia di quel fabbricato, ma un buco nero oscurava la mia memoria. L’inquietudine non si placava. Gettai di nuovo un’occhiata fuori. Intravidi in lontananza una rete metallica, poi un cancello nero, semiaperto. A quel punto notai che stava entrando un signore con il cappello. Aveva un cappotto di lana e una sciarpa scura, sotto portava un camice bianco, sembrava un dottore. Ero confusa, tornai con lo sguardo dentro la stanza: le pareti scrostate, senza intonaco, le sbarre alle finestre e la porta chiusa. Una prigione.

    Un nodo mi strinse la gola, poi una forte nausea, un conato. Portai una mano alla bocca per trattenermi, ma non riuscii a frenare l’impulso irresistibile di rigettare l’orrore che si stava impossessando di me. Mi avvicinai al secchio rosso in fondo al letto e vomitai.

    Tirai su la testa e rimasi con gli occhi chiusi per un attimo, in attesa di un cambio di scena. Sì, pensai che mi sarei alzata e tutto sarebbe tornato alla normalità, mi sarei risvegliata nella mia camera con Tata Ines. Ma quando sollevai lo sguardo, tremante e malferma, quelle pareti scrostate erano ancora lì, umide, segnate da righe nere di umidità e graffi. Non era cambiato niente, ero sempre in ginocchio di fronte al secchio rosso.

    Un’ondata di panico mi travolse costringendomi a gettarmi di nuovo sulla porta, qualcuno mi avrebbe sentito.

    «Aprite! Qualcuno mi apra!» dovetti alzare il tono della voce.

    «Aprite, aprite, aprite!» urlai.

    Udire l’eco della mia voce fu sconcertante. Non avevo mai gridato così forte in vita mia, poi iniziai a singhiozzare. Più lo facevo, più il rimbombo diventava insopportabile. Non potevo credere che qualcuno avesse deciso di rinchiudermi. Mi hanno imprigionata o mi stanno nascondendo da qualcuno?

    Mendicai una risposta al vuoto intorno a me.

    Più saliva il mio turbamento più la disperazione si impossessava del mio corpo: i pugni chiusi e le dita ferite, il sangue che usciva dalle nocche. Mi gettai contro la porta di ferro, sbattendo i fianchi, la testa, il seno. Fui presa dallo sconforto. Mi sentivo bastonata.

    A quel punto arrivarono due infermiere con il camice bianco, erano alte e muscolose. Aprirono la porta sbuffando spazientite. Mi presero sotto le ascelle, io caddi senza forze ai loro piedi e mi lasciai trascinare sul letto senza opporre resistenza. Avevo ancora la speranza di essere salvata. Non avevo chiaro quanto tempo fosse passato, ero esausta ma sollevata che qualcuno mi avesse finalmente sentita. Pensai che presto sarei uscita da quella cella.

    «Perché sono qui?» riuscii a chiedere. Ma non arrivò risposta.

    Sentii solo l’ago che mi bucava e un dolore caldo che mi scendeva lungo il braccio.

    Poi mi addormentai.

    CAPITOLO I

    Maria

    Mi svegliai sdraiata supina, con un forte dolore ai polsi e alle caviglie. Mi bruciavano gli occhi, mi dolevano le reni, la schiena. Provai ad alzarmi senza riuscirci, quindi spostai la testa, allungai il collo forzando il mento sul seno, le spalle appena ricurve. Mi accorsi di essere legata al letto, le braccia e le gambe immobilizzate. Istintivamente contrassi i muscoli, provando a divincolarmi, contorcendomi, dibattendomi contro quella realtà assurda. Non potevo credere che mi stessero facendo davvero quello.

    Urlai disperata. Gettai lo sguardo sulla camicia bianca che mi copriva, i piedi pallidi sbucavano alla fine del letto, magri, intirizziti. In fondo alla stanza vidi muoversi qualcosa. Lo sguardo appannato non mi permetteva di capire, dovetti strizzare gli occhi. Notai una figura accovacciata nell’angolo, seduta per terra, il mento sulle ginocchia, le dita nelle orecchie, la fronte corrugata. Mi guardava.

    «È peggio se urli, signorina» mormorò quando si accorse di essere osservata.

    Mi zittii subito, inebetita. Restai in silenzio per un frammento di tempo che mi sembrò interminabile e udii per la prima volta gli altri suoni che fino a quel momento non avevo avvertito. Boati, stridii di sedie a rotelle sul pavimento, passi nel corridoio. Cocci che cadevano per terra rompendosi in mille pezzi. Cigolii di porte che si aprivano e richiudevano violentemente. Pioggia. Mi voltai verso la finestra, le gocce si posavano sul vetro formando rigagnoli d’acqua che colavano giù e sparivano svelti. Anche il cielo piangeva.

    Era un pianto destinato a crescere.

    La cosa impressionante, però, erano le voci, centinaia di voci che strillavano lontane, latravano, sbraitavano con toni acuti, laceranti. Quella donna di fronte a me aveva ragione: urlare non sarebbe servito a nulla, tutti gridavano là dentro.

    Mi voltai verso l’angolo, ma la donna non c’era più, la cercai con gli occhi; era sparita. Dov’era andata? Forse era un fantasma, un’allucinazione?

    Presi di nuovo a urlare, un ululato straziante, l’aria squarciata in due da un doloroso lampo di angoscia. Un fruscio sopra la testa mi fece sussultare, provai a guardare in alto e dietro di me ritrovai la donna di prima che mi osservava con gli occhi spalancati. Sobbalzai, cercando una fuga. Non ricordandomi di essere legata, mi lacerai i polsi.

    «Che vuoi? Chi sei?».

    «Signorina dagli occhi verdi, te l’ho già detto di non urlare, vero?».

    «Sì, chi sei?».

    «Se urli, ti portano via».

    «Io voglio andare via!» replicai di getto.

    La donna si avvicinò da dietro la mia testa, la guardavo al contrario, le sue labbra vicino ai miei occhi, la dentatura capovolta dava una forma inquietante alla sua bocca, il fiato soffiava di traverso.

    Le puzzava l’alito. Trattenni il respiro aspettando impaurita, non potevo fare niente, neppure muovermi. Solo sperare. «Non devi avere paura di me, bella signorina».

    «Io non ho paura di te» contestai cercando di nascondere il mio terrore.

    «Sì, che hai paura, di questo posto e anche di me. Si vede dai tuoi occhi, bella signorina, io ormai vi conosco tutte».

    «Dove siamo?».

    «All’ospedale, signorina dalle belle mani».

    Provai a guardarmi le mani, ma desistetti, era troppo doloroso.

    «Sono belle, le tue mani. Sei aristocratica, non hai mai lavorato nei campi, vero?».

    «No. In che ospedale siamo? Perché mi tengono legata?» chiesi nell’illusione di una risposta diversa da quella che mi aspettavo.

    «All’ospedale psichiatrico, qui dicono che siamo tutti matti. Lo chiamano anche manicomio. E io, che sono qui da un bel po’, di pazzi veri ne ho visti tanti. Anche i dottori sono pazzi, e le infermiere, e anche le suore, e anche il postino è pazzo. Ci sono i pazzi rinchiusi e quelli liberi. Lo sai che sei ancora più bella quando non urli? Non devi urlare, capito? Non si urla! Qui non si urla! A me dà tanta noia sentire urlare, capito? Mi fanno male le orecchie e poi non posso più cantare».

    «Cantare?» la domanda mi uscì spontanea.

    «Sì, sono una cantante, mi esercito tutti i giorni così quando uscirò da questo posto diventerò famosa. Ti spiego. Se tu urli, i timpani mi fanno male e perdo la tonalità, poi è un problema ritrovarla. Quindi non urlare, capito? Vuoi che ti canti una canzone?».

    Chiusi gli occhi. Ero frastornata, tutto avrei voluto in quel momento tranne che quella donna bizzarra mi cantasse una canzone. Ma che fare altrimenti? Non potevo contraddirla. Non ero nella posizione di rifiutare, ero in manicomio. Dovevo prendere tempo e fiato.

    «Sì» sospirai.

    «Senti questa. Ba… ba… Baciami piccina, sulla bo… bo… bocca piccolina, dammi tan tan tanti baci in quantità, tarataratarataratatà. Bi… bi… bimba birichina, tu sei be… be… bella e sbarazzina, quale ten ten tentazione sei per me, teretereteretereterè¹. Ti piace?».

    Fece una piroetta e con un leggero balzo tornò al punto di partenza, con la testa di fronte alla mia e al contrario. Sorrisi, non so come ma sorrisi, quella donna era senza dubbio strana ma sembrava genuina.

    «Brava, bravissima. Scusami se prima ho urlato, non avrei voluto, ma mi sono svegliata così» balbettai e con gli occhi indicai il mio corpo.

    «Non ti preoccupare, fanno tutte uguale. Anch’io ho urlato tanto, poi però ho smesso, mi sono fatta furba, eh sì, io non bercio più».

    «Prima mi hai detto che se urlo mi portano via… Dove mi portano?».

    «Nella stanza bianca».

    «Cioè?» chiesi, ma la donna si voltò di scatto e mi diede le spalle.

    «Non te lo dico, carina. Anzi, ora basta con tutte queste domande. Non ho tempo da perdere con te, sai? Che vuoi da me? Lasciami in pace».

    Mi trattenni, forse avevo toccato un tasto dolente, forse volevo sapere troppe cose tutte insieme, pensai che dovevo essere più cauta e capire chi avevo di fronte.

    «Hai ragione, scusa» mormorai.

    La donna si spostò lentamente, non udii i suoi passi, era scalza e sembrava volasse. Si sdraiò su una brandina che notai solo in quel momento, si coprì fin sopra la testa con la coperta di lana ruvida, sotto la coltre iniziò a cantare: «Tarataratarataratatà, teretereteretereterè».

    Sospirai, avevo paura, iniziai a tremare. Ero esausta, avevo bisogno di muovermi, di andare in bagno, di farmi una doccia, mi sentivo sporca e maleodorante. Avevo bisogno di mangiare. No, in realtà in quel momento non avevo fame, avrei vomitato ogni cosa, il mio stomaco era chiuso e il mio alito cattivo. Da bere, da bere sì, avrei avuto bisogno di un bicchiere d’acqua. Qualcuno sarebbe venuto a darmi un fottuto bicchiere d’acqua?

    Mi ricordai di Lucio, di quando mi raccontò che nella macchia non mangiava, ma beveva, andava a prendere da bere al ruscello. Beato lui. Lucio.

    Chiusi gli occhi e mi addormentai.

    Mi svegliai bagnata, mi ero fatta la pipì addosso. Fu lì che iniziai a piangere senza far rumore, lacrime infinite mi colavano sul collo. Piansi come una bambina sciocca a cui hanno tolto un giocattolo, ma a me avevano tolto la libertà, una libertà che non avevo ancora fatto in tempo a conquistare.

    Stavo affogando in un mare di confusione, dovevo assolutamente rimettere in ordine gli eventi, era l’unico modo per placare la rabbia in attesa di qualcosa, di qualcuno che mi avrebbe slegata da quei polsini di cuoio sudici. Perché sarebbe arrivato, prima o poi.

    Rammentai Iole che mi parlava del controllo del corpo e delle emozioni, dovevo riuscirci anche io, non dovevo cedere al pianto, altrimenti sarei caduta nella spirale della rabbia e mi sarei ritrovata a urlare di nuovo. Dovevo placarmi e lasciare spazio alla memoria. Ma fin dove arrivavano i miei ricordi?

    *

    Era estate, faceva caldo, Lucio mi stava aspettando all’angolo della strada e io non avevo bisogno di altro, solo di lui. Era passata una settimana dall’ultima volta che ci eravamo visti. Avevo trascorso un’ora davanti allo specchio a provarmi i vestiti, ne avevo tanti e non era stato facile scegliere. Ce n’erano di corti e di lunghi, con il pizzo, eleganti o sportivi. Volevo essere bella ma anche adeguata, adatta alla situazione.

    Sapevo che lui avrebbe indossato una maglietta semplice, nel suo stile di ragazzo modesto e umile, forse anche troppo. Pensai che avrei voluto essere un po’ come lui, così decisi di lasciare nell’armadio gli abiti appariscenti e sontuosi che mi comprava mia madre: mi ricordavo bene di quella volta che avevo indossato un vestito rosso con la trina sulle spalle e la gonna lunga e mi ero sentita a disagio accanto alla sua maglietta bianca con il collo largo. Optai così per un abito leggero che mi nascondeva le spalle ma mi scopriva tutto il resto, tanto era sottile e trasparente. Era quello a fiori gialli e viola, con i bottoni davanti che tiravano il tessuto intorno al mio corpo ricco e generoso.

    Al momento stabilito, scesi le scale di corsa, avevo i sandali di cuoio che mi fasciavano i piedi, mi tenni forte al corrimano e saltai le scale a due a due riuscendo a mantenermi in perfetto equilibrio. Presi un libro e finsi di andare in biblioteca. Lo incontrai all’angolo della strada due isolati dopo.

    «Eccola qua, la mia Maria. Vieni, salta su!» mi disse Lucio con il sorriso sulle labbra, mostrando i denti leggermente storti che gli conferivano però un’aria sensuale. Lo studiai maliziosa, camminando a pochi metri di distanza da lui, aveva glutei tondi e muscolosi. Le forti cosce che sbucavano dai pantaloni corti erano delineate e scolpite come quelle del David di Michelangelo, che avevo visto per la prima volta sul libro di storia dell’arte di mia madre. Mi

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