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Sette variazioni
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E-book185 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Il libro raccoglie sette racconti, collegati fra loro da immagini e temi "variati", tutti caratterizzati da una forte impronta filosofica.
Un libro che riflette sulla portata del linguaggio come strumento di comunicazione autentica e dove il protagonista è l'elemento onirico.
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2014
ISBN9788868857929
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    Anteprima del libro

    Sette variazioni - Giovanni Ferrari

    AMANTI

    UNA COMMEDIA

    Una notte, tanto tempo fa, feci un sogno che si scolpì nella mia memoria con tutti i particolari di un’esperienza vivida e indubitabile. Sognai che venivo calato in un labirinto sotterraneo; non so da chi e per quale ragione, ma ricordo che penetrai in uno stretto cunicolo in posizione eretta, con le gambe rigide e grosse catene che mi stringevano il busto e le braccia. Avevo l’impressione di addentrarmi in un pozzo artesiano, buio e dalle pareti di fango, dove il respiro era appena possibile. Benché tenessi gli occhi spalancati, non riuscivo a vedere nulla. Udivo invece provenire da sopra voci e rumori che si affievolivano sempre più, finché non avvertii altro che l’abbraccio viscido del fango sul mio corpo. In un punto della discesa le gambe si alleggerirono e potei aprirle ai lati; un attimo dopo uscii dalla morsa del cunicolo attraverso un’apertura che mi parve ampia e irregolare.

    Precipitai con la schiena su un terreno duro e per il male che provai cacciai un grido; intanto le catene si erano slacciate e fragorosamente, sbattendo fra loro e contro le pareti del passaggio, furono ritirate verso l’alto. Con le membra libere ma doloranti, gli occhi semiaperti, respiravo in fretta. Distesi le gambe, mi sollevai un poco puntando i gomiti al suolo e guardai davanti a me. Ero in una stanza grande e quadrata, su tre lati chiusa da pareti bianche, levigate e lucide come marmo. Anche il soffitto era di un bianco abbagliante: la luce sembrava diffondersi direttamente dai muri. Di fronte, la stanza si apriva su tre corridoi. Dal mio posto non potevo vedere la loro fine; soltanto, appariva evidente che erano molto lunghi e che conducevano in direzioni diverse.

    Mi alzai con difficoltà e, preso dall’ansia, mi girai verso il foro da cui ero entrato. Si trovava all’angolo tra il soffitto e la parete, cupo e irraggiungibile. Dal margine inferiore fino alla base del muro scendeva una striscia di fanghiglia, resa più visibile dalla bianchezza della stanza, compresa quella del pavimento, che ora mi parve come il riflesso del soffitto; ma un po’ di sozzura era sparsa anche lì, specie nel punto dove ero caduto. Saltai due o tre volte, e tentai di arrampicarmi sulla parete scivolosa: il buco distava sempre qualche metro di troppo. Mi persi d’animo e rassegnato trascinai le gambe indolenzite all’imboccatura dei corridoi, ma dopo alcuni passi mi arrestai e pensai che la cosa migliore da fare era rimanere dove mi trovavo. Se mi fossi inoltrato nel labirinto mi sarei smarrito definitivamente, e forse l’unica uscita era proprio quella medesima via per cui ero entrato. Del resto, anche ammessa l’esistenza di un’altra uscita, la probabilità di trovarla mi sembrava molto incerta. Restando nella stanza, invece, avrei potuto escogitare un modo per risalire il cunicolo, o da esso sarebbe potuto giungere aiuto. Le riflessioni che facevo in sogno si imponevano con una forza e un’urgenza che mi davano una specie di brivido mentale. Sedetti appoggiando la schiena a una parete e subito l’angoscia mi assalì. Tremavo in tutto il corpo e un forte senso di nausea mi invase la gola. Tornai ad alzarmi con fatica ed esausto camminai un po’ lungo il muro. Mi sorpresi ad ascoltare il suono che i passi producevano sul pavimento, e questo mi portò a riflettere, per contrasto, sul silenzio del labirinto.

    Mi fermai e stetti con le orecchie tese e il fiato sospeso, ma non udii nulla. Che il silenzio completo fosse la condizione naturale di quel luogo non lo potevo affermare con certezza. Io mi trovavo nella prima stanza, nell’anticamera del labirinto, e proprio per questo ancora fuori da esso. Quel silenzio, tuttavia, anche se non provava il suo dominio nei corridoi, bastava a rendermi inquieto. Diedi un pugno contro la parete, ma ne venne un rumore soffocato che subito svanì; quando ritirai la mano, il silenzio sembrava più profondo. Devo controllarmi, mi dissi, la mia voce fu lenta a spegnersi e restò un poco sospesa all’altezza del viso; poi mossi le labbra a vuoto come per richiamarla. È assurdo restare qui!, continuai febbrilmente. Quale aiuto potrebbe venirmi da questo luogo? Attraverso il cunicolo, al contrario, è possibile che giungano nuove minacce. Quella stanza che dava una flebile eco alla mia voce mi sembrò ora più piccola. Subito mi portai una mano alla gola, mentre sentivo il cuore battere veloce. Piegai le gambe e mi sedetti di nuovo, al centro della stanza: per la prima volta vidi davanti a me il labirinto in tutta la sua paurosa estensione. Vidi la rincorsa senza fine dei cunicoli, il loro intersecarsi folle e imprevedibile, le pareti bianche flettersi al mio passaggio e il pavimento invitarmi docilmente ad avanzare.

    Mi rialzai e percorsi alcune volte, camminando adagio, il perimetro della stanza. Cominciai a fissare l’apertura che dava sul corridoio centrale e notai che lì la luce era meno intensa; anzi, più guardavo e più la penombra dell’ingresso mi colpiva a confronto della lucentezza generale. La stessa cosa rilevai negli altri ingressi. Lentamente, con le braccia inerti ai fianchi, il collo un po’ curvo, raggiunsi l’entrata del cunicolo. Qui mi fermai, proprio sulla soglia; lanciai un’occhiata alle pareti laterali, strinsi le mani a pugno e mi infilai nel corridoio. Mentre avanzavo, osservavo avidamente gli angoli, il soffitto, il pavimento. Come la penombra all’ingresso aveva annunciato, la luce del labirinto era meno bianca e abbagliante di quella della stanza.

    Procedevo da un tempo indefinito, quando mi accorsi di essere arrivato a un bivio. Alla mia sinistra si apriva un’altra galleria, all’apparenza del tutto uguale alla prima. La vista dell’incrocio mi stordì. ‘E adesso?’, pensai sconfortato. Stavo immobile davanti all’incrocio, con lo sguardo perso nel nuovo cunicolo. Decisi di proseguire nel corridoio già noto, ma dopo pochi passi questo deviò a destra, poi di nuovo a sinistra. Le svolte si ripeterono in un senso e nell’altro per un lungo tratto, finché disperato rimpiansi di non aver imboccato il corridoio laterale e mi lasciai cadere sul pavimento.

    A questo punto mi svegliai. Sudavo freddo e i dolori mi spinsero ad alzarmi dal letto, come se questo fosse la vera causa di tanta pena. Non vi riuscii; allontanando le coperte, mi adagiai tremante sulla sponda; richiusi gli occhi. Il sonno travagliato giunse quasi subito. Anche il sogno riapparve. Adesso correvo nei cunicoli senza sforzo, con i piedi che sentivo lievi e appena toccavano terra. Passavo oltre le svolte rapidamente, avanzando a caso, senza più temere gli incroci. Mi era quasi impossibile sapere se attraversavo uno stesso punto più di una volta, ma intuivo confusamente che ciò doveva accadere spesso. In un’occasione, però, me ne resi conto: nel superare una curva, fui certo di averla già passata in precedenza. Gridai: No!, e tornai indietro. La stanza mi sembrava ora un ricordo lontano e anche la luce era divenuta più fioca. Infine sognai di stendermi accanto a una parete, vicino all’angolo fra due gallerie, e di addormentarmi.

    Il sonno parve durare un attimo e quando riaprii gli occhi vidi di fronte a me due uomini. Uno di loro, vecchio e curvo, con una lunga barba grigia e una vestaglia bianca che lo copriva fino alle ginocchia, stava in piedi e mi osservava con ostentata curiosità. L’altro, completamente nudo e calvo, era seduto all’indiana e continuava a guardare ora me, ora il vecchio, con scatti convulsi del collo e un’espressione ebete in viso. A un tratto, quello seduto allungò una mano e mi toccò il braccio destro. Stupido, disse il vecchio, continuando a fissarmi. L’altro sembrò offeso da quell’ingiuria: chinò la testa e mugolò qualcosa di incomprensibile. Era però evidente che non resisteva al desiderio di toccarmi, perché si raggomitolò tutto, come se in quel modo potesse evitare il disappunto del vecchio, si avvicinò di nuovo e mi tastò il capo. Il vecchio non reagì come prima, si intenerì guardando l’uomo seduto e con un gesto blando della mano gli fece segno di alzarsi. Lui obbedì con riluttanza, e intanto mi gettò un’occhiata come quella dei bambini dispettosi quando covano un risentimento. Non era che un povero idiota.

    Chi siete?, domandai stupefatto. Due prigionieri, rispose il vecchio. È da molto tempo che vi trovate nel labirinto?, continuai ansiosamente. Da molto. Io rimasi impietrito e il vecchio, che dava l’impressione di seguire un giro di pensieri tutto suo, aggiunse tranquillamente: Si può sopravvivere. Abbiamo acqua e cibo. La cosa mi lasciò del tutto indifferente. Ma l’uscita, vecchio, esiste?, lo incalzai e per l’agitazione mi levai da terra con uno scatto. Chi può dirlo!, rispose quasi stizzito, mentre l’idiota, spaventato dalla mia aggressività, fece un balzo indietro verso il centro della galleria. Il vecchio gli si avvicinò e afferratolo per un braccio lo tenne stretto al suo fianco, poi riprese a parlare in tono più conciliante. Non ho mai saputo di nessuno che sia riuscito a evadere dal labirinto. Avrò percorso migliaia di gallerie, ma certo ne resteranno almeno altrettante che forse mai potrò raggiungere. I detenuti non sono più di tre o quattro alla volta. Può darsi che ciò dipenda dal fatto che si vuole impedire il loro aiuto reciproco. Le informazioni del vecchio erano sconnesse e poco utili a infondermi coraggio. Egli dovette accorgersi della mia delusione, perché assunta un’espressione compiaciuta ripeté, come per consolarmi: C’è da bere e da mangiare. L’idiota sogghignò e con una furia improvvisa prese a strofinarsi le mani. C’è…c’è…, andava sussurrando.

    Mi svegliai una seconda volta e subito guardai l’orologio. Segnava le sei. Era quasi l’alba. Ero talmente stanco che mi sembrava di non avere dormito affatto, ma di essere ancora in attesa del primo sonno. Sollevai un poco la testa e guardai verso la finestra chiusa. Dalle fessure filtrava un chiarore che salutai con gioia, perché ciò che desideravo, nonostante la stanchezza, era di non riaddormentarmi e non rischiare così di riprendere il sogno interrotto. Ma non fui accontentato: dopo pochi minuti passati a rigirarmi nel letto, sopravvenne un sonno leggero e febbrile. Prontamente si fecero avanti le immagini penose.

    Mi trovavo seduto all’imboccatura di un cunicolo con il vecchio e l’idiota. Ero sfinito e depresso. Sentivo che la ragione di quell’abbattimento stava nel fatto che avevamo percorso innumerevoli gallerie, molte delle quali il vecchio non aveva mai raggiunto in precedenza. È impossibile uscire, sospirai, e con la testa fra le mani scoppiai a piangere come un bambino. Il vecchio disse: Fai così perché sei qui da poco tempo. Guarda me, invece. Io ho rinunciato all’idea della fuga. Ti ho accompagnato nella tua ricerca, facendoti da guida, perché tu potessi stancarti quanto basta. In questo luogo le virtù della stanchezza sono preziose: essa distoglie dalle azioni vane, ripiega il prigioniero in se stesso e lo aiuta a capire; e infine gli dona la benedizione del sonno. Sappi che come nel mondo superiore non vi è alcuno che possa sottrarsi al dominio della volta del cielo, e quanto più si allontana da una parte, tanto più si avvicina alla parte opposta, così il labirinto fa valere in ogni luogo la sua forza. Quanto più si crede di allontanarsi verso la periferia del labirinto, di sentire finalmente allentata la morsa delle pareti che stringono il corpo e lo spirito, di essere insomma a un passo dall’uscita, tanto più ci si addentra in esso, si è irrevocabilmente prigionieri della sua rete. La fuga da una galleria è la corsa a precipizio in un’altra galleria. Ma perché disperare? Come ti ho detto, si può vivere anche qui e se si impara a contentarsi è possibile farlo perfino con una certa soddisfazione. Ti dirò di più, e abbassando la voce si avvicinò alla mia spalla, a volte mi chiedo se il mondo di lassù non sia altro che un sogno comune a noi prigionieri. Siamo dunque davvero prigionieri? A me, ad esempio, capita spesso di provare la sensazione di essere qui da sempre, come un’escrescenza del labirinto.

    Le parole del vecchio mi suonarono assurde, una specie di vaniloquio, prolisso e stucchevole. Fui preso da un forte desiderio di scagliarmi contro quei due compagni fastidiosi, che invece di favorire la mia fuga sembravano ostacolarla. Mi volsi e vidi che il vecchio aveva chiuso gli occhi e se ne stava in atteggiamento di riposo, quasi fosse pago dell’ammonimento che mi aveva rivolto. Ciò accrebbe la mia ira. Guardai l’idiota e notai che mi osservava a sua volta in modo minaccioso. Che hai?, gli chiesi bruscamente. Lui fece una smorfia e sbirciò il vecchio che con calma si sistemava la vestaglia sulle spalle. Mi avvicinai e fermo a gambe larghe lo fissai con aria di sfida. È ora di smetterla, gli dissi. Quel mio modo di fare, anziché indurlo a cedere, lo provocò. Si esibì in un’altra smorfia ripugnante, mostrandomi con ridicolo compiacimento i suoi piccoli denti scuri; poi si alzò e con un balzo si avventò su di me. Le sue mani mi strinsero il collo come due tenaglie, mentre le gambe, che aveva magre e corte, si muovevano freneticamente, saltando e scalciando. Cercai di divincolarmi, ma quella sua mossa fulminea mi aveva colto di sorpresa, e per alcuni secondi rimasi in balia dei suoi strattoni. A un tratto, mi diede una forte spinta che mi fece perdere l’equilibrio ma, aggrappatomi a lui per le spalle, lo costrinsi a cadere con me. Lì steso a terra intravidi, sopra la testa dell’idiota, il vecchio che ci guardava con un misto di insofferenza e afflizione. L’idiota approfittò subito della mia disattenzione e mi sferrò un pugno con tanta violenza che la vista mi si annebbiò. Il vecchio allora si avvicinò e con un movimento lento ma sicuro si chinò sull’idiota, lo prese sotto le spalle, come se dovesse eseguire un lavoro ripetuto già molte volte, e infine lo sollevò. L’idiota si irrigidì ma non fece resistenza. Basta, vieni via, disse il vecchio e cominciò a trascinarlo verso la parete.

    L’idiota si lasciava spostare di qua e di là, poiché il vecchio non riusciva a seguire un percorso in linea retta, ma conduceva quel peso secondo la postura che prendeva a ogni sosta, quando doveva recuperare fiato. Io ero ancora disteso a terra e guardavo quella scena con stupore. A un certo punto il vecchio si fermò, si chinò di nuovo e agguantò l’idiota per il collo. Cosa facciamo, eh?, gli disse in modo insinuante. A quelle parole l’altro ebbe un sussulto, mise su un’aria mesta e lasciò che il vecchio lo spingesse lentamente verso terra. Ora si trovava rannicchiato ai suoi piedi e sembrava attendere qualcosa con rassegnazione. Il vecchio gli indicò il pavimento. L’idiota, come se obbedisse a un ordine noto, allungò le gambe e le braccia e si stese, immobile, con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto. Cosa facciamo, eh?, ripeté il vecchio. Vieni qua, tu!, gridò a me, in tono aggressivo, quasi furioso. Senza pensare e sopraffatto da quei modi imperiosi, mi avvicinai. Intanto l’idiota aveva allargato gambe e braccia quanto più poteva. Capivo che quel movimento lo eseguiva a memoria e al momento giusto; capivo anche, dallo sguardo vuoto che piegò verso di me, che non poteva sottrarsi a ciò che manifestamente si preannunciava come un supplizio. Stavo per urlare qualcosa contro il vecchio, quando mi svegliai. Era giorno fatto; mi sedetti sul letto e cominciai a rimuginare su ciò che avevo sognato.

    Non applaudite? Eppure, giunto a questo punto, ho sempre avvertito la vostra profonda comprensione che mi sosteneva e incitava a proseguire. Siete annoiati? Quante volte mi avete sentito raccontare il sogno che ancora oggi tormenta le mie veglie! Non posso biasimarvi, tuttavia anche questa sera siete qui con me. Forse qualcuno vi ha costretto a venire a teatro? Non lo credo, ma certo sapevate che si sarebbe data l’ennesima replica dello spettacolo. Perché allora questo silenzio? Ora mi faccio

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