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Bestie, Uomini e Dei
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E-book293 pagine4 ore

Bestie, Uomini e Dei

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Bestie Uomini e Dei di Ossendowski è senza dubbio uno dei libri di viaggio e misticismo più affascinanti della storia. L’Autore si unì a un gruppo di polacchi e russi bianchi che cercavano di fuggire dalla Siberia controllata dai comunisti verso l'India attraverso Mongolia, Cina e Tibet. Dopo un viaggio di diverse migliaia di miglia, il gruppo incontra un misterioso barone Ungern von Sternberg. Il barone era un mistico affascinato dalle religioni dell'Estremo Oriente come il buddismo e il lamaismo e si credeva una reincarnazione di Kangchendzönga, il dio della guerra mongolo.
 
Il libro, intriso di crudeltà, bellezza e misteri come il  Regno di Sottoterra e il Re del Mondo, impressionerà e affascinerà come è successo per milioni di lettori nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2020
ISBN9788869375279
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    Anteprima del libro

    Bestie, Uomini e Dei - Ferdynand Ossendowski

    1890

    ​NELLE FORESTE

    Al principio del 1920 mi trovavo nella città di Krasnoiarsk in Siberia, sulle rive del Jenissei, il nobile fiume che dalle montagne mongoliche bagnate di sole ove ha la sua culla discende a portare il calore della vita nel Mar Glaciale. Alla sua foce venne due volte Nansen per cercar di aprire una via più comoda al commercio fra l’Europa e il cuo­re dell’Asia. Là, nel silenzio profondo dell’inverno siberiano mi sorprese d’un tratto l’uragano di paz­zia furiosa che si scatenava in tutta la Russia e se­minava anche in quel paese ricco e tranquillo ven­detta, odio, sangue e delitti che la legge non riesce a punire. Nessuno era sicuro che non fosse giunta l’ora sua. La gente viveva alla giornata: usciva di casa e non sapeva se ci tornerebbe o se non sarebbe presa per la strada e trascinata nelle prigioni del Comitato Rivoluzionario, parodia al tribunale più terribile di quelli dell’Inquisizione.

    Anche noi, stranieri in quel paese sconvolto, non eravamo al sicuro dalle persecuzioni. Io vissi in mezzo ad esse e ne uscii salvo.

    Una mattina, andato a far visita a un amico, mi avvertirono d’un tratto che venti soldati rossi avevan circondato la mia casa per arrestarmi : biso­gnava mi mettessi in salvo. Indossai prontamente un vecchio costume da caccia dell'amico, presi con me un po’ di denaro e scappai in fretta, a piedi, per certe vie secondarie della città. Raggiunta la strada maestra potei noleggiare un veicolo guidato da un contadino che in quattro ore mi trasportò a più di trenta chilometri dalla città in mezzo a una regione molto boscosa. Cammin facendo potei comprare un fucile, trecento cartucce, un’accetta, un coltello, un cappotto di pelle di montone,, tè, sale, biscotti e una cuccuma. Mi spinsi nel cuore del bosco fino ad una capanna abbandonata e mezza distrutta dal fuoco. Da quel giorno cominciai la vita di un au­tentico cacciatore di mestiere ; ma non credevo dav­vero di doverla continuare per tanto tempo. La mat­tina dopo ebbi la fortuna di uccidere due galli di brughiera. Tracce di daini ne trovai pure in abbon­danza; mi accertai così che da mangiare non mi sarebbe mancato. Ma il mio soggiorno in quel luogo non durò molto. Al quinto giorno nel tornare da caccia vidi uscire dal fumaiolo della capanna certe volute di fumo. Avanzai furtivo e scorsi due ca­valli sellati con fucili da soldato appesi alle selle. Due uomini senz’armi non erano pericolosi per me, ch’ero armato; perciò attraversai rapidamente lo spazio sgombro e mi presentai sulla porta. Due sol­dati si alzarono dalla panca impauriti. Erano bolscevichi: riconobbi sui berrettoni di astrakan le stelle rosse e i sudici galloni rossi sulle maniche dei camiciotti. Ci salutammo e sedemmo. Avevano pre­parato il tè: si prese insieme la calda bevanda sempre gradita e si conversò un poco, sempre guar­dandoci con diffidenza. Per addormentare i so­spetti raccontai ch’ero un cacciatore venuto da lon­tano e mi ero fermato lì perché il paese era ricco di martore. Loro mi dissero che facevano parte di un distaccamento mandato nei boschi a dar caccia alle persone sospette.

    « Capisci, camerata? » mi disse uno dei due; « an­diamo in cerca di controrivoluzionari per fuci­larli ».

    La spiegazione era inutile. Feci quanto potevo per assicurarli col mio contegno che ero un semplice contadino che viveva di caccia e non avevo che far nulla coi controrivoluzionari. E intanto non facevo che pensare : dove andrò quando saranno partiti que­sti ospiti malvenuti? Cadeva la notte. Allo scuro quei due musi erano anche meno simpatici. Tirarono fuori le bottiglie della vodka e bevvero: l’al­cool cominciò a produrre i suoi effetti a vista d’oc­chio. Alzavano la voce e si vantavano a gara dei nu­merosi borghesi ammazzati a Krasnoiarsk, e dei Co­sacchi che avevano cacciato sotto il ghiaccio. Liti­garono anche un poco, ma si stancarono presto e si disposero a dormire. D’un tratto, senza che prima si udisse il menomo rumore, si spalancò la porta. Dissipatasi la vampata di fumo che usciva dall'ambiente riscaldato apparve come un genio da una nuvola la figura grande ed asciutta di un con­tadino. Il berrettone di astrakan e il cappottane di pelle lo facevano anche più imponente. Aveva in mano il fucile pronto a far fuoco, alla cintura l’a­scia bene affilata, compagna indivisibile del conta­dino siberiano. Ci guardava l’un dopo l’altro con un paio d’occhi vivi e scintillanti come quelli di una fiera. Tosto si tolse il berretto, si fece il segno del­la croce e domandò: « Chi è il padrone qui? »

    « Io », risposi.

    «Posso passare la notte qui?»

    « Sì, c’è posto per tutti. Il tè è ancora, caldo ».

    Lo straniero, girando continuamente gli sguardi su di noi e su tutto ciò che lo circondava, si tolse il cappotto e posò il fucile in un canto. Portava un vecchio camiciotto di pelle con pantaloni dello stes­so materiale cacciati nei gambali di due stivaloni di feltro. Il volto era giovanile, fino e un po’ bef­fardo. I denti bianchi ed aguzzi scintillavano; gli occhi parevano penetrare tutto ciò che guardavano. Osservai qualche ciocca grigia sulla testa scapiglia­ta. Certe rughe amare ai lati della bocca rivelava­no una vita di tempeste e di pericoli. Prese una se­dia accanto al suo fucile e si posò l’accetta a terra vicino ai piedi,

    « Cos’è quella? tua moglie?» gli domandò uno dei due soldati ubriachi indicando l’accetta.

    Il contadino calmo gli rispose, senza batter pal­pebra sotto le sopracciglia folte:

    « S’incontra ogni sorta di gente, ai tempi che cor­rono. Con questa si sta più tranquilli».

    Cominciò a sorbire avidamente il tè. Più volte i suoi occhi vivaci parvero interrogarmi, e poi esplo­ravano intorno quasi a cercar la risposta. Pacato lento e guardingo rispondeva fra un sorso e l’altro di tè caldo a tutte le domande dei soldati. Quando’ebbe finito capovolse il bicchiere, vi posò sopra una piccola zolla di zucchero che gli era avanzata e disse ai soldati:

    « Vado a custodire il mio cavallo. Toglierò la sel­la anche ai vostri».

    « Va bene », rispose sonnolento il più giovane dei due. « Portaci anche i fucili ».

    I due soldati dormirono sulle panche; noi dove­vamo coricarci a terra. Lo straniero tornò coi due fucili e li posò nell’angolo scuro, buttò le selle a terra, vi sedette sopra e cominciò a togliersi gli stivali. Ben presto tutti e tre i miei ospiti russarono; ma io non dormivo, pensando al da fare. All’alba final­mente mi assopii, e mi destai a giorno fatto. Il con­tadino non c’era più. Fuori della capanna, stava sellando il suo bello stallone baio.

    « Te ne vai? » gli chiesi.

    « Sì; ma voglio far la strada con quei due....came­rati»; disse a bassa voce; «dopo ritorno».

    Non gli feci altre domande; solo gli dissi che l’a­spettavo, braccò dalla sella le bisacce che ne pende­vano, le nascose nell’angolo della capanna ch’era bruciato, verificò le staffe e le redini. Quand’ebbe finito disse:

    « Pronto. Vado a svegliare i miei camerati ».

    Mezz’ora dopo il tè del mattino i miei tre ospiti si congedarono. Io rimasi fuori della porta a spac­car legna pel fuoco. All’improvviso risonò un colpo di fucile lontano. Poi un’altro. Poi più nulla. Mi passò sulla testa un volo di galli di brughiera spa­ventati dalle detonazioni. Una ghiandaia strillò in cima a un pino. Tesi l’orecchio a lungo, se venisse qualcuno. Silenzio.

    Sul basso Jenissei fa notte presto. Preparai il fuo­co nella stufa e cominciai a cuocer la minestra; l’orecchio sempre teso a tutti i rumori di fuori.

    Sentivo bene che la morte era accanto a me ad ogni istante, e poteva cogliermi in tanti modi: uo­mo, belva, freddo, accidente, malattia. Nessuno c’era che potesse assistermi: ero nelle mani di Dio, e dovevo aiutarmi con le mie, e coi miei piedi an­che; con la mira giusta e con la presenza di spirito.

    Ascoltavo, tuttavia. Ma invano. Quando tornò lo straniero non me ne accorsi. Ricomparve sulla so­glia all’improvviso come il giorno prima. Attraver­so il velo di vapore rividi i suoi occhi sorridenti e il volto fine. Entrò, e andò a posare rumorosamen­te nel solito cantone tre fucili.

    « Due cavalli, due fucili, due selle, due scatole di biscotto, mezzo pacchetto di tè, un Bacchettino di sale, cinquanta cartucce, due cappotti, due paia di stivali ». Rideva nel far l’elenco. « Buona giornata, oggi ».

    Io lo guardai a bocca aperta.

    « Che c’è da stupire tanto ? » fece lui ridendo. « Komu nujny eti tovarischi? A chi è utile quella gente lì? Prendiamo il tè e dormiamo.

    Domani ti condurrò in un posto più sicuro e ti la­scierò là ».

    ​IL SEGRETO DEL MIO COMPAGNO DI VIAGGIO

    All’alba lasciammo il mio primo rifugio, con le nostre robe nelle bisacce attaccate ad una delle selle.

    « Abbiamo da quattro a cinquecento verste da fa­re ». annunziò con molta calma il compagno, che si chiamava Ivan : un nome che non mi diceva nul­la né alla mente né al cuore, perché là un uomo su due si chiama così.

    « E’ lunga, dunque », dissi io malcontento.

    « Una settimana al più. Forse anche meno », mi rispose.

    Quella notte la passammo nei boschi, sotto i grandi rami distesi degli abeti. Per me era la prima notte che dormivo a ciel sereno. Quante altre dove­vo passarne così, in un anno e mezzo di vagabon­daggio ! Di giorno il freddo era assai pungente. Sot­to i piedi dei cavalli la néve gelata strideva, si indu­riva intorno agli zoccoli in pallottole, che rotolava­no poi sulla crosta bianca con un rumore di vetro che si screpola. I galli volavano stanchi dagli albe­ri; le lepri discendevano senza fretta giù pei let­ti dei torrenti estivi. A notte cominciò il vento a ge­mere e a fischiare piegando le cime degli alberi sopra le nostre teste: in basso regnava la calma e il silenzio. Facemmo alt in un burrone fra grossi al­beri. Lì trovammo certi abeti caduti, li tagliammo, accendemmo il fuoco, e fatto il tè pranzammo.

    Ivan prese due tronchi, li spianò da un lato con Faccetta, fece combaciare le facce spianate e poi alle

    estremità ficcò fra esse due cunei che le allon­tanavano di otto o dieci centimetri. Nella fessura ponemmo dei tizzoni in fiamme: il fuoco prese ra­pidamente le due facce spianate per tutta la loro lunghezza.

    « Così domattina lo troviamo ancora acceso », as­sicurò. « Questa è la naida dei cercatori d’oro. Noi cercatori d’oro viviamo nei boschi estate e inverno e sempre dormiamo accanto alla naida. Magnifico, eh? E poi vedrai tu stesso».

    Tagliò dei rami e ne fece una specie di tetto a un solo spiovente che dispose obliquo davan­ti alla naida con due puntelli. Sopra il tetto e sopra il fuoco stendeva i suoi rami protettori un grosso abete. Portammo altri rami e li spargemmo sotto il riparo. Vi posammo le gualdrappe delle selle, formando così un seggio sul quale Ivan sedet­te e si tolse il Cappotto. Ben presto ebbe la fronte e il collo imperlati di sudore, e se lo asciugava con le maniche.

    « Qua si sta ben caldi ! » esclamò.

    In breve dovetti togliermi anch’io il cappotto e tosto mi coricai per dormire senza nulla che faces­se da coperta, mentre attraverso i rami degli abeti si vedeva il gelido scintillio delle stelle, e appena fuori della naida faceva un freddo pungente contro il quale noi ci trovavamo comodamente riparati. Dopo quella notte non ebbi più paura del freddo. Di giorno a cavallo, gelavo; la notte invece ero ben riscaldato grazie a quell’ingegnosa naida che mi permetteva di deporre quel grave cappottone e ri­manermene in semplice camiciotto sotto il tetto di pini e d’abeti a sorseggiare il tè sempre gradito.

    Durante le nostre tappe giornaliere Ivan mi rac­contò un poco le vicende della sua vita vagabonda per le montagne e i boschi della Transbaicalia in cerca d’oro. Erano avventure molto movimentate e interessanti, di pericoli e di lotte. Ivan era il tipo di quei cercatori d’oro ai quali si deve in Russia, e forse in altri paesi, la scoperta delle miniere più ricche; mentre loro restano poveri. Egli evitò di raccontarmi perché aveva lasciato la Transbaicalia per venire sul Jenissei. Compresi dalla sua manie­ra di esprimersi che intendeva tenere per sé il suo segreto, e non insistei per conoscerlo. Tuttavia un giorno avvenne per puro caso che il velo che na­scondeva quella parte della sua vita si sollevò un pochino. Eravamo già quasi al termine del viaggio. Tutta la giornata avevamo avanzato faticosamente per una fitta boscaglia di salici verso la sponda del grande affluente di destra del Jenissei, la Mana. Da ogni parte erano sentieri coperti di peste fitte delle lepri che abbondavano nella boscaglia. Le vedeva­mo correre qua e là davanti a noi. Un’altra volta vedemmo la coda rossastra di una volpe appiatta­ta dietro un masso a tener d’occhio contempora­neamente noi e le lepri.

    Da qualche tempo Ivan non apriva bocca. Alfi­ne parlò e mi disse che non lungi di là passava un piccolo affluente della Mana, e al confluente c’era una capanna.

    « Che dici? Arriviamo fin là o passiamo la notte accanto alla naida? »

    Io consigliai d’andare fino alla capanna, perché volevo lavarmi e perché sarebbe stato piacevole passar la notte sotto un vero tetto. Ivan aggrottò le ciglia ma accettò.

    Faceva già scuro quando giungemmo. La capan­na era circondata dal bosco fitto e da cespugli di lampone selvatico. All’interno non conteneva che una piccola camera con due finestre microscopiche e una enorme stufa russa. Al muro esterno si ap­poggiavano le rovine di una tettoia e di una canti­na. Accendemmo la stufa e preparammo la mode­sta cena. Ivan cominciò a bere dalla bottiglia ere­ditata dai soldati e in breve diventò molto loquace; gli occhi gli brillavano; non faceva che accarezzar­si rapidamente la lunga capigliatura. Cominciò a raccontarmi la storia di un episodio della sua vita; ma d’un tratto s’interruppe e guardò con gli occhi spaventati e distorti un angolo oscuro.

    «E’ un topo?» domandò.

    « Io non vedo niente », risposi.

    Tacque di nuovo, accigliato è meditabondo. Tan­te volte ci accadeva di rimaner muti ambedue per ore intere; perciò non me ne stupii. Ivan si chinò verso di me e cominciò a parlarmi a bassa voce.

    « Voglio dirti un fatto di molto tempo fa. Io ave­vo un amico in Transbaicalia. Era un galeotto esi­liato. Si chiamava Gavronski. Vagammo insieme per molte foreste e molte montagne in cerca d’oro, col patto che si sarebbe diviso in parti uguali ciò che si trovava. Ma un giorno improvvisamente Ga­vronski si recò nella Taiga sul Jenissei e non lo vidi più. Cinque anni dopo si seppe che aveva tro­vato una miniera molto ricca e si era arricchito. Più tardi si sparse la voce che lui e sua moglie erano morti assassinati....»

    S’interruppe un momento, e poi riprese : « Questa era la loro capanna. Qui abitava lui con la moglie. Da queste parti, sul fiume, trovava l’oro. Ma dov’era non lo diceva a nessuno. Tutti i contadini di qui sanno che aveva molto denaro alla banca e che aveva venduto dell’oro al Governo. Qui furono as­sassinati, lui e la moglie »,

    Ivan andò davanti alla stufa, prese un tizzone ardente e si chinò a illuminare un punto a terra.

    «Le vedi, queste macchie, e queste altre sul mu­ro? E’ il sangue loro, il sangue dei Gavronski. Mo­rirono, ma non dissero dove si trovava l’oro. Fu ti­rato fuori da un buco profondo che avevano scava­to sulla sponda e che era nascosto dalla cantina sot­to la tettoia. Ma Gavronski non confessò nulla... Dio quanto li ho torturati! Li ho bruciati, ho torto loro le dita, ho cavato loro gli occhi, ma Gavronski mo­ri senza aver detto niente ».

    Pensò un momento poi si affrettò a dirmi:

    « Tutte queste cose me le hanno raccontate i con­tadini ».

    Buttò nella stufa il tizzone acceso e si lasciò ca­dere sulla panca. « E’ ora di dormire », fece secco secco, e non disse altro.

    Ascoltai a lungo il suo respiro interrotto da paro­le che brontolava a se stesso nel voltarsi e rivol­tarsi sul fianco fumando la pipa.

    La mattina dopo lasciammo quella scena di tan­ta miseria e di tanta crudeltà; giungemmo alfine, dopo sette giorni di viaggio, ad una folla foresta di cedri ai piedi di una lunga catena montuosa.

    « Di qui », mi avvertì Ivan, al gruppo di case più vicino sono ottanta verste. I contadini vengono qui a coglier noci di cedro solo nell’autunno. Fino allo­ra non vedrai nessuno. Troverai anche molti uccel ­li e animali, e noci in abbondanza: per cui ci potrai vivere. Vedi questo fiume? Quando vorrai vedere i contadini cammina lungo il fiume e li troverai».

    Ivan mi aiutò a costruire la capanna di fango. Ma non era una vera capanna. Era formata dalle radici di un gran cedro strappato dal suolo e ab­battuto probabilmente da qualche furioso uragano. Presentavano una cavità profonda della quale feci la camera chiudendola da una parte con un muro dì fango rafforzato dalle radici sollevate. Altre ra­dici formarono l’armatura del tetto di bastoni e di rami intrecciati, completato da pietre per raffor­zarlo e fissarlo e da uno strato di neve come coi­bente del calore.

    Sul davanti la capanna era sempre aperta, ma sempre protetta dalla fida naiga. In quel buco sotto la neve io passai due mesi di un caldo estivo, senza vedere mai un essere umano e senza alcun rapporto col mondo abitato, in cui frattanto accadevano av­venimenti così importanti. Vivevo si può dire se­polto fra le radici del grande albero, al cospetto della natura; la mia compagnia d’ogni momento erano le difficoltà, i disagi e i pericoli di quell’esi­stenza, l’ansietà per la vita. Ivan se ne andò due giorni dopo lasciandomi un sacco di biscotto e un po’ di zucchero. Non lo rividi mai più.

    ​LA LOTTA PER LA VITA

    Allora rimasi solo. Intorno a me la foresta sempre verde dei cedri coperti di neve, i cespugli nudi, il fiume gelato e, per quanto potevo spinger lo sguar­do fra i rami e i tronchi degli alberi, null’altro che l’immenso mare dei cedri e la neve. Era la taiga siberiana !

    Per quanto tempo dovrò viverci? Mi: troveranno i Bolscevichi? Lo sapranno i miei amici che io son qui? Che ne sarà ora della mia famiglia? Queste do­mande erano come fuochi che m’ardevano conti­nuamente. Ben presto compresi perché Ivan mi aveva condotto così lungi. Nel nostro viaggio erava­mo passati per molti luoghi appartati, assai lontani dalla gente, e Ivan avrebbe potuto lasciarmici sen­za pericolo che alcuno mi scoprisse; ma egli dice­va sempre che mi voleva condurre in un luogo dove mi sarebbe più facile vivere. E aveva ragione. La bellezza del mio rifugio solitario erano la gran fore­sta di cedri e le montagne coperte di foreste che si stendevano da ogni parte fino all’orizzonte.

    Il cedro è un albero magnifico e poderoso, con ra­mi che si distendono ben larghi come una tenda sempre verde, e attirano sotto la loro protezione animali d’ogni specie.

    Quei boschi albergavano una vita animatissima. Era un baccano continuo di scoiattoli saltanti da un albero all’altro; strillavano i picchi; un volo di fringuelli dal petto color carminio passava sugli alberi come una fiammata; arrivava un branchetto di cardellini, e tutto l’anfiteatro verde risonava dei loro canti. Una lepre scappava veloce fra due tron­chi; dietro strisciava furtiva l’ombra bianca di un ermellino appena visibile sulla neve: io seguivo a lungo la piccola macchia nera che era la punta della coda. Sulla neve indurita avanzava cauta l’e­legante figura di un daino. Alla fine venne anche a trovarmi dall’alta montagna il re della foresta siberiana, l’orso bruno. Tutto ciò mi distraeva, mi faceva passare le idee nere e mi dava coraggio per tirare avanti. Mi faceva bene anche — sebbene faticoso — ascendere fino alla cima della monta­gna; di lassù si dominava la foresta, si giungeva con la vista fino alla barriera rossa che chiudeva l’orizzonte, ed era l’alta riva oltre l’altra sponda del Jenissei. Là c’erano i paesi, le città, gli amici, i nemici, e c’era anche il punto in cui, secondo me, doveva trovarsi la dimora dei miei.

    Ecco perché Ivan mi aveva condotto in quel luogo. Nei lunghi giorni della solitudine cominciai a sentire vivamente la mancanza di quel compa­gno che, era — è vero — l’assassino dei Gavronski, ma m’assisteva come un padre, mi sellava il ca­vallo, mi tagliava la legna, faceva di tutto per ren­dermi la vita meno dura. Quell’uomo aveva pas­sati tanti inverni solo coi suoi pensieri, al cospet­to della natura — al cospetto di Dio: — conosce­va l’orrore della solitudine e aveva appreso a sop­portarlo. Pensavo qualche volta che, se la mia vi­ta doveva finire in quel luogo avrei fatto un ul­timo sforzo per trascinarmi in cima alla monta­gna, a morirvi guardando lontano, oltre la distesa immensa delle vette e delle foreste, là dov’erano i miei cari.

    Tuttavia quella era un’esistenza che mi dava molte occasioni di riflettere, e ancor più di fatica­re. Era una lotta per la vita, aspra, dura, continua. La fatica più grossa era quella di preparare i due tronchi per la naiga. I tronchi caduti erano rico­perti di neve e inchiodati al suolo dal ghiaccio. Bisognava scavare per liberarli' e poi, con l’aiuto di una lunga pertica usata come leva, rimuoverli fino al mio rifugio. Per facilitare tale lavoro prefe­rivo andarli a cercare sui fianchi del monte: l’a­scensione era faticosa, ma poi, all’ingiù, era più fa­cile la rimozione dei tronchi. Presto feci una sco­perta preziosa. Vicino al mio covo trovai una gran­de quantità d’alberi di larice, il magnifico e melan­conico gigante della foresta.

    Li aveva schiantati una grande bufera. I tron­chi erano ricoperti di neve ma ancora attaccati al ceppo nel punto della rottura. Quando l’accetta vi si affondava per finire di staccarli, io stentavo a ritirarla. Cercando la ragione di questo fatto m’accorsi che era la molta resina che quel legname conteneva. Le schegge si accendevano sempli­cemente con una scintilla: da allora in poi ne ten­ni sempre una provvista grazie alla quale potevo accendere prontamente il fuoco per scaldarmi le mani tornando dalla caccia e per fare il tè.

    La maggior parte della giornata era occupata dalla caccia. Ben presto mi convinsi che mi con­veniva seguire un programma regolare di occupa­zioni giornaliere

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