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Dostoevskij. La salvezza in scena
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Dostoevskij. La salvezza in scena
E-book216 pagine5 ore

Dostoevskij. La salvezza in scena

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Info su questo ebook

Il testo dostoevskiano mette in luce la larghezza della vita con i suoi abissi: di bene e di male. E fa emergere come il Mistero della totalità, nel tempo, sia stato ridotto e messo da parte in tutta la sua portata e intensità. Un fattore finto e accusatore, cioè l’idea di processo, ha preso il posto della vita. Il soggetto accusa sé, l’altro, il mondo, la realtà in un continuo procedimento giudiziario che sembra non avere mai fine. La ragione diventata giuridica restringe lo sguardo del soggetto a una misura del tutto inadeguata alla complessità della vita e alla profondità costitutiva dell’umano. Ma, alcuni fattori imprevisti destrutturano la dialettica del tribunale della ragione. Spettro, timore, tremore, parola sono figure che provocano il soggetto, introducendo un fattore nuovo non manipolabile. La vita stessa, insomma, sembra invitare al ritorno a un Prima misterioso e inattingibile, che oltrepassa razionalismo e positivismo. Nella scena del testo entra in gioco, infatti, dalle brecce del tempo, un “di più” inspiegabile. Si tratta di un’energia teandrica, in grado di trasformare il soggetto che dice sì a una storia nuova.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita11 dic 2021
ISBN9788816803121
Dostoevskij. La salvezza in scena
Autore

Vincenzo Rizzo

È nato a Cosenza nel 1958. Dottore di ricerca in Filosofia, docente nelle scuole superiori, è membro del Gruppo di ricerca Prologos. Nella sua attività, si è lungamente soffermato sul pensiero di Florenskij, su cui ha pubblicato il volume monografico Vita e razionalità in Pavel A. Florenskij (Jaca Book, 2012). Ha, inoltre, organizzato e partecipato al Convegno italo-russo sul Dialogo tra le Civiltà all’Università Lomonosov su «Multiculturalismo, Universalismo, Destino» tenuto a Mosca il 23-24 maggio 2013. Sempre per Jaca Book ha curato la prefazione alla nuova edizione di V.S. Solov’ëv, Sulla Divinoumanità e altri scritti (2017). È autore di numerosi saggi sul pensiero filosofico russo.

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    Anteprima del libro

    Dostoevskij. La salvezza in scena - Vincenzo Rizzo

    INTRODUZIONE

    Nel testo dostoevskijano è centrale la larghezza della vita: essa mette in questione l’uomo, smuovendolo dalla sua sicurezza e dal suo insediamento in un sapere sazio e pago di sé. Abissi diversi si aprono allo sguardo del soggetto: il bene e il male, la luce e le tenebre, la piccolezza e la grandezza. La vita, insomma, nella sua ineffabile realtà e drammaticità, è l’evidenza di un Mistero in atto che, continuamente, si presenta al soggetto, visitandolo e interpellandolo¹. Essa dice e indica una destinazione irriducibile al proprio potere.

    Il soggetto di fronte al non controllo, al non possesso del suo stesso destino (sud’ba)² cerca di elaborare vie di fuga: vita sotterranea della mente (sottosuolo), astrazione strutturata (sistemi ideologici) e sogni/pensieri illusori (il protagonista de Le notti bianche). Si tratta di vani tentativi di rinchiudersi, con l’isolamento³ in un mondo proprio, di fronte all’avanzare nel tempo del Mistero, in tutta la sua portata e intensità. Un ritirarsi nel chiuso del proprio io o delle proprie idee, per dimenticare, evitare o anticipare, strategicamente, l’urto della realtà. Posizione ben diversa e vera è però quella di Makar ne L’adolescente, che accoglie passivamente il Mistero in tutta la sua interezza e integralità, consapevole di una realtà sempre attiva e destrutturante l’ordine del già noto. Nella sua ottica, infatti, «tutto è Mistero», un fatto che implica, innanzitutto, timore di fronte a ciò che supera la ragione, poiché non riprendibile nei termini dell’ovvio, del già saputo e tuttavia porta, grazie al taglio delle presunte certezze acquisite, alla letizia⁴. Anche lo starec Zosima ricorda tutta la portata e l’energia costitutiva della realtà: «Solo noi due non dormivamo, io e quel giovane, e ci mettemmo a parlare della bellezza di questo mondo divino e del suo sublime mistero»⁵.

    Il Mistero, nella sua esuberanza, si rivela, talora, come improvvisa interruzione dell’ordinario⁶, avvento dell’imprevisto (la finta condanna a morte dello scrittore o lo scandalo della corruzione del corpo di Zosima), irruzione dello straordinario, incontro con una realtà che aumenta lo stato di conoscenza (le crisi epilettiche, i gesti misteriosi dello starec, ecc), ingresso nella storia di un tempo infinito e intensificato⁷. Esso è ciò che ha a che fare anche con un amore inconcepibile, non sentimentalmente inteso, in grado di andare oltre il confine e trapassare la vita. «Mi dimentichino pure tutti i miei cari, ma io vi amerò anche oltre la tomba… discenderò nel sonno verso di voi… tanto… anche dopo la morte esiste l’amore»⁸. La sua inspiegabile decisività viene accolta da un cuore pensante, diverso, irriducibile e della stessa natura del Mistero (celomudrie)⁹, che si apre finalmente alla realtà in modo nuovo, senza censure. Un cuore siffatto, intelligente e vibrante, oltrepassa razionalismo e positivismo, correnti filosofiche, che anatomizzano il soggetto e la realtà, non arrivando alle loro profondità. Tale animo giunge in Giobbe fino a combaciare con il Mistero stesso¹⁰.

    Ma che cosa ha prodotto, nascostamente e dal di dentro del soggetto, la rimozione/la messa in disparte del Mistero¹¹ con i suoi interrogativi e le questioni ultime/decisive e ineliminabili? Che cosa ha fatto sì che il mondo vero finisse per diventare favola? Per il genio russo¹² è subentrato nella vita un fattore finto e accusatore, capace, in qualche modo, di deviare lo sguardo del soggetto dal Mistero, considerato insostenibile e ingestibile: l’idea di processo¹³. Processo contro l’uomo e contro Dio sono luoghi celebri del testo dostoevskiano e punti di partenza di ideologie falsificanti la realtà. Il soggetto accusa se stesso o l’altro o altri o la vita, in modo strutturato e cerebrale. Apre un processo continuo, con cui vuole farla finita con l’ostacolo, la contraddizione, il colpo a vuoto, la propria esiguità di essere mortale: l’alterità, insomma. La messa a morte dell’usuraia per una giustizia superiore (Raskol’nikov in Delitto e castigo), il processo contro Cristo dichiarato nuovamente colpevole da un tribunale inglese sotto tutti i punti ne L’adolescente¹⁴, la polemica nichilistico-distruttiva de I demoni, l’antiteismo come rivolta metafisica (Ivan Karamazov), i numerosi suicidi (di protesta o logicometafisici) sono l’ultimo atto¹⁵, per chiudere la partita della procedura giudiziaria intentata e per restringere a una misura propria definitiva la larghezza della vita e il suo Mistero. In tal senso, il testo dostoevskijano è un vero e proprio laboratorio – teatro di un experimentum crucis –, in cui la procedura iniziata, l’atto e la realtà vengono messi di fronte all’estremo, per vedere il dispiegarsi e l’eventuale tenuta dell’idea. Di fronte all’accusa portata avanti nel/dal processo interiore e/o intellettuale, la risposta adeguata non consiste nel preparare un’attenta e strutturata difesa apologetica: della vita, di sé, dell’altro o della religione o di Dio. Alla dialettica, alla divisione calcolante risponde infatti la vita stessa, nella quale si dispiega un’alterità attiva, come nel caso di Raskol’nikov, che si imbatte in una resistenza, uno sconvolgimento interiore e un fallimento del suo piano. E d’altro canto, la ragione/ogni ragione, per quanto astuta e strutturata, non può annullare la realtà misteriosa sempre presente. Non si tratta, comunque, di approdare a una forma di quietismo e/o di muta accettazione dell’ordine delle cose.

    Per Dostoevskij è infatti necessario un impegno serio nella realtà, che consiste nell’attraversare e superare l’idea stessa di processo ab initio con un fuori campo, uscendo dalla logica del tribunale. In questo si gioca la possibilità di scoprire il proprio logos, all’interno di un percorso umano che prevede uno scopo non manipolabile. Non basta, perciò, la dialettica del rifiuto portata avanti dal marito de La Mite¹⁶ e basata sul fatto che gli eventi sono la rottura delle leggi e dell’ordine. Si tratta invece di studiare come l’ordine giudiziario si sia instaurato nell’uomo, mettendo da parte la dinamica dell’esperienza. Perciò, la costante attenzione dello scrittore ai processi del suo tempo non è legata a un mero interesse giornalistico-politico¹⁷, ma alla possibilità di trovare tracce di una possibile fuoriuscita dalla «tribunalizzazione della storia»¹⁸. Tale modo liberatorio di approcciarsi alla realtà è rinvenibile in diversi momenti della sua opera: il giovane Zosima, richiamato dal Mistero, dopo la violenza fatta all’attendente, esce fuori dalla logica del duello (giusto/sbagliato)¹⁹, non temendo il disonore. Alëša, inoltre, non rompe in maniera antagonistica con il fratello Ivan, nonostante la totale divergenza nella visione del mondo.

    L’idea di processo è insomma una trappola mentale, che soffoca la vita, depotenziandola. Essa porta, ultimamente, a un nichilismo disperato senza via d’uscita. Lo scrittore non pensa certamente di rinunciare al giudizio, ma desidera sottolinearne il nesso con il destino e il mistero. Non vuole, peraltro, a livello politico, rinchiudersi nello status quo, per scansare le problematiche poste dalla società in fermento²⁰. Intende, però, considerare tutti i fattori in gioco e in modo speciale quelli profondi, che sfuggono a una misura e a un metro ritenuti supponentemente oggettivi. Egli si colloca pienamente all’interno dell’ottica cristiana ortodossa, certa di un Prima misericordioso, misteriosamente libero e inattingibile, che si mostra in grado di intervenire e salvare l’uomo e la vita tutta, entrando in scena, in azione, in modo imprendibile e non saputo. Tale dato reale emerge, infatti, in momenti, in situazioni in cui il grido di salvezza reclamato nella/dalla vita incontra una presenza imprevista e non contenibile, capace di rideterminare la storia, non nei termini della condanna, ma nella direzione di una novità. Marmeladov, con la sua domanda autentica di un luogo di salvezza, Sonja con un desiderio di bene più grande, in grado di attraversare la sua misera condizione e Dmitrij con le sue cieche passioni vinte da un oltre in atto, documentano una giustizia pulsante nell’uomo, ma diversa da quella del mondo, che mira alla redenzione e vive nella Chiesa²¹.

    Dostoevskij descrive, poi, attentamente, alcune figure decisive e misteriose che resistono, in modo imprendibile, dal di dentro della vita, al giudizio finale del procedimento inquisitorio, rimandando l’uomo a tutta la drammaticità in cui è inserito: spettro, tremore e terrore mistico. Tali situazioni eccezionali costringono il soggetto a riposizionarsi rispetto all’origine del suo discorso, mettendolo in crisi. Esse obiettano all’io, certo del proprio insediamento in un sapere giudicante e saccente, indicando una dimensione non aggirabile e non propria, che eccede la capacità di misura.

    Gli spettri di persone uccise appaiono e rivelano ai loro giudici/uccisori il non dominio dell’uomo su ciò che ha fatto. Gli omicidi, infatti, non possono seppellire nel proprio mondo interiore l’atto cattivo commesso e la persona messa a morte. E d’altro canto, anche la forma nichilistica dell’espulsione di sé, dell’altro, di Dio si imbatte, prima o dopo del suo attuarsi, in due dimensioni della vita eccezionali e perturbanti: tremore e terrore mistico. Una misura più ampia, insomma, inquieta il soggetto con le sue scosse telluriche, minandolo nel profondo e sloggiandolo dal suo vacuo conoscere. È la vita che urge con la sua verità e chiede di poter rientrare in chi l’ha respinta, l’ha ripudiata. E d’altro canto, chi forza la vita con l’arbitrio, giungendo al delitto per l’esercizio del Potere, si imbatte in due leggi: quella dell’anima e quella della fine di ogni potere. La prima legge, attraverso il microscopio dello scrittore, afferma che i nostri atti cattivi ci seguono, con effetti inevitabili e drammatici nella vita (tormento, tortura della coscienza, morsi interiori, monologhi labirintici senza uscita, ecc) e la seconda evidenzia che la storia erode sempre il disegno puramente umano, foss’anche buono. Il potere sull’altro, infatti, decade e mostra nel tempo la sua mancanza di energia, la sua debolezza ultima: polvere e cenere.

    Emblematiche, a tal proposito, sono le storie di Svidrigajlov e Stavrogin, personaggi di straordinaria potenza, che finiscono la loro esistenza nel fallimento. La catastrofe della loro vita e quella di altri importanti personaggi è una vera e propria riduzione all’assurdo fatta dal Nostro della tesi relativa alla liceità del delitto. Il genio russo, infatti, accompagna il lettore nei passaggi che si susseguono verso il piano inclinato che conduce al nulla. Detto altrimenti, il nichilismo estremo si autodistrugge, non restando nel tempo.

    Una vita senza delitto e senza processo, in grado di ospitare tutto/tutti, come quella di Markel, fratello di Zosima, morto prematuramente, è, invece, segno di un’autentica novità possibile e di una speranza efficace per tutti: del compimento della propria ragion d’essere. Lo scrittore sceglie, per illustrare il movimento del vero nella realtà, insomma, non una via dimostrativa logico-razionale, ma una via espositiva ed esperienziale.

    Nella ricerca di una posizione pienamente umana, per attraversare la realtà in tutta la sua vasta e ingestibile complessità, l’uomo/ogni uomo si rivolge ad altri: parla. Verchovenskij prende la parola, secondo un progetto ideologico, per affermare il proprio potere e dare ordini mortali o dibatte, per prevalere eristicamente nel discorso²², usando fallacie²³. Ma anche il suo processo ideologico non regge e finisce nel naufragio, poiché l’uomo non sopporta il disumano. Il progetto costruito dalla mente crolla rispetto all’avvento di un incontenibile, che agisce dal di dentro, facendo cadere i muri mentali.

    Altri cercano, invece, una parola vera e franca che apra la loro vita alla realtà ultima e segreta. La parrēsia è come richiesta dal cuore dell’uomo ed è rinvenibile, in modo speciale, ne I fratelli Karamazov. La parrēsia non è il «dir tutto» di Fëdor, attraverso il vaniloquio, e non è neanche il finto «dire la verità» del Grande Inquisitore, che intenta una sorta di processo finale, per abolire il Mistero del Nome e per giungere alla damnatio memoriae di Dio. Essa è invece legata alla paternità, alla cardiognosia²⁴ e volta a un bene: la salvezza²⁵. Per ciò stesso lo starec si inchina davanti a Dmitrij e ammonisce con sapienza il vecchio Karamazov. Zosima esprime con la sua parola una libertà superiore che, finalmente e diversamente dall’atteggiamento mondano, non vuole condannare, ma liberare, perché essa stessa liberata. L’esperienza di libertà diventa così una proposta concreta, che rende possibile attraversare e superare la confusione e il nichilismo²⁶.

    Dostoevskij mostra alla fine de I fratelli Karamazov gli esiti disastrosi del tribunale della ragione: esso finisce per condannare un innocente e considerare non vera una testimonianza importante, non giungendo a una prova decisiva²⁷. Censure, rimozioni, pregiudizi occludono l’accoglienza passiva/umile del vero e di un giudizio dettato dalla terra dell’io e delle sue radici profonde. La giustizia puramente umana non sa guardare al cuore dell’uomo, restando impigliata nella rete della costruzione ideologica.

    Lo scrittore sottolinea nel testo anche l’avanzare misterioso di un «di più» inspiegabile, di una forza superiore presente nel condannato ai lavori forzati. Consiste in un’energia teandrica²⁸, che irrompe dal confine: il sogno²⁹. Tale forza vibrante e com-movente rende possibile a Mitja accettare una pena ingiusta, non scappando³⁰ e affermando una sorprendente novità nel/del suo io. L’accadere dell’impossibile nella realtà: il mistero più grande, cioè quello del cambiamento interiore del passionale Mitja, la vita nuova vivente in Alëša e i bambini riuniti sulla tomba di Iljuša sono i segni di una salvezza entrata in scena nel testo. Tale avvenimento genera un sapere risorto³¹, che deborda dal testo e accresce lietamente la domanda dell’uomo, facendo subentrare alla dialettica un’altra vita, tutta fatta di Mistero. Un Mistero che dimostra come impossibile pretesa³² l’oblio desiderato dal Grande Inquisitore, per eliminare il Cristo, rivelando infine il Suo volto incancellabile.

    ¹All’interno della prospettiva ortodossa (Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore, Palamas, ecc) la realtà, gli enti, le cose hanno un logos superiore alla ratio, che è stato donato da Dio. L’intelligenza consiste, perciò, nel ricondurre fatti, persone, ecc all’unico Logos. Si veda di O. Clément, I Visionari. Saggio sul superamento del nichilismo, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1987, pp. 157-209.

    ²Nella sua etimologia il termine ricorda il nesso tra destino (sud’ba) e giudizio (sud’).

    ³Ne I fratelli Karamazov il solipsismo coincide con il suicidio morale. L’isolamento consiste nella messa tra parentesi del legame e della parentela tra gli esseri umani. Si veda di F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di P. Maiani, Bompiani, Milano 2005, p. 679 e p. 703.

    ⁴«dà al cuore una sensazione di timore e di prodigio, e quel timore porta la letizia». F. Dostoevskij, L’adolescente, tr. it. di M. Rakowska e I.G. Tenconi, Garzanti, Milano 1981, p. 485.

    ⁵F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 659.

    ⁶I. Verč, Vdrug. L’improvviso in Dostoevskij, Editoriale Stampa Triestina, Trieste 1977.

    ⁷de Lubac, nel paragrafo L’esperienza dell’eternità, fa notare le brecce da cui, secondo Kirillov, emerge un’armonia eterna e anche Myškin parla dell’istante invaso da una bellezza superiore. Per Svidrigajlov, invece, in una cameretta, in tutti gli angoli, ci sono ragni e questa è l’eternità. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, tr. it. di L. Ferino, Morcelliana, Brescia, p. 288.

    ⁸F. Dostoevskij, L’ adolescente, cit., p. 486.

    ⁹Nella tradizione ortodossa è il termine con cui si indica la saggezza integrale del cuore, che aderisce all’origine di tutto.

    ¹⁰«Ma qui la grandezza sta appunto nel mistero, il mistero, cioè, per cui una fugace figura terrena e la verità eterna hanno potuto combaciare. Davanti alla giustizia terrena si compie l’opera della giustizia eterna». F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 653.

    ¹¹C. Esposito, Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca, Carocci editore, Roma 2021, pp. 51-56.

    ¹²«Caro Dostoevskij» lo definisce Askol’dov, invitando il lettore a immedesimarsi nella sua saggezza, soffrendo con lui e lasciandosi coinvolgere fino in fondo. L. Šestov, N. Berdjaev, F. Stepun, S. Askol’dov, Un artista del pensiero. Saggi su Dostoevskij, tr. it. di G. Gigante, Cronopio, Napoli 1992, pp. 105-106.

    ¹³In certo qual modo, il tribunale della ragione ha contribuito all’interiorizzazione di una modalità di affronto della realtà, che ha poi avuto snodi impensati. Non bisogna dimenticare, peraltro, che lo scrittore, durante l’esilio in Siberia, in una lettera del 30 gennaio 1864, chiese al fratello l’invio della Critica della Ragion Pura di Kant. Evgenia Cherkasova, Dostoevsky and Kant: Dialogues on Ethics, Brill Rodopi, Amsterdam-New York 2009.

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