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Prigioniera di me stessa
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E-book226 pagine3 ore

Prigioniera di me stessa

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Info su questo ebook

Una storia, mille vite parallele. Se ripenso a tutto quello che ho passato, è già un piccolo miracolo che io sia qui a raccontarlo. È incredibile come sia riuscita a tirarmi fuori da quel baratro nel quale troppe volte ho rischiato di rimare. In passato seguivo l’istinto, senza troppe sovrastrutture. Quante volte sono finita nei guai… 
C’è qualcosa di spiazzante in me, un’energia sconosciuta che quando supera il blocco delle mie insicurezze, si riflette negli altri… A volte vorrei abbracciarli, e con loro il mondo intero, tutto l’universo. Le parole non bastano a spiegare ciò che provo, ma forse qualcuno riuscirà a immedesimarsi e a comprendere quello che non si può dire, ma solo vivere sulla propria pelle.
Ascoltando le esperienze della gente, ho capito che non ero sola: spesso rimaniamo prigionieri di sistemi di credenze, che alla fine svaniscono quando prendiamo atto che la vita è un soffio. Eppure, ancora fatichiamo a lasciarci andare…
La vita è un gran mistero, e come andrà a finire non lo sappiamo. Nel frattempo, è giusto scegliere per il meglio, con responsabilità, ma senza rimanere ingabbiati nella trappola della paura. 
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2023
ISBN9791220144858
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    Anteprima del libro

    Prigioniera di me stessa - Conny Ganci

    Introduzione

    È una lunga strada alberata, la strada sterrata sotto i miei piedi. Un buio che soccombe davanti a me. E io corro, corro disperata. Non ho il controllo del mio corpo, che si lascia andare in sentimenti che cercano una via d’uscita. Le lacrime scendono sul mio viso una dopo l’altra, ho voglia di scappare da me stessa, dai ricordi, dai pensieri, dagli sguardi della gente.

    Guardo il mio volto riflesso allo specchio e mi passo la mano fra i capelli. I miei occhi sono sempre così tristi. Incominciano a vedersi i segni dell’età, mi vedo cambiata, saranno state tutte le lacrime che hanno bagnato il mio viso, o forse è solo l’espressione malinconica che mi accompagna da sempre. Guardo il mio corpo, che non ho mai accettato, sin da quando ero una bambina. Troppo magra… troppo magra! I pensieri iniziano a cadere davanti ai miei occhi come tante fotografie che prendono vita. Salto da un pensiero all’altro e mi ritorna in mente quando è cominciato tutto. Il mio respiro si fa sempre più pesante, sento lo stomaco che si contorce, e poi… un senso di vuoto assoluto, accompagnato da una profonda malinconia.

    Ricordo quella triste sera di novembre. Il secondo dei miei fratelli mi teneva sulle spalle; correndo uscivamo da quell’androne, lasciandoci alle spalle quel cortile e quella casa dove mia madre peccò, innamorandosi di un uomo sposato che viveva lì, nello stesso cortile. Stavamo scappando dalle chiacchiere, dalle offese della gente, e dai figli di lui, pieni di rabbia per quanto era accaduto. Mia madre, quest’uomo, mio fratello e mia sorella partirono per Bologna, mentre io, la più piccola dei tre figli, fui lasciata a casa di mio padre, lui già convivente da anni con un’altra donna, a sua volta vedova, con due figli più grandi di me. Ed ecco l’abbandono.

    Avevo solo otto anni, e quella sera mi ritrovai da un momento all’altro sola, in una casa a me estranea. La mia vita aveva cambiato scenografia e personaggi, qualcosa di traumatico si impossessò di me e della mia mente, dei miei sentimenti, mutandone i colori. Mi sentivo smarrita, abbandonata, avevo tanta voglia di piangere, ma le lacrime scendevano solo dentro di me, e iniziai così a rifugiarmi in me stessa, trattenendo dentro quello che fuori avrei voluto urlare. Nessuna spiegazione mi era stata data, nessun conforto, nulla di nulla. Lasciata come se fossi stata un oggetto, un qualcosa di cui liberarsi, perché scomodo. Non vidi più mia madre per diversi anni, solo ogni tanto qualche telefonata; l’unica cosa che sapevo è che lei non stava bene.

    La mia storia in quella nuova famiglia è un po’ come la fiaba di Cenerentola: la matrigna e le due sorellastre. La mia matrigna aveva il vizio di bere. Lavorava in ospedale con mio padre, facevano turni diversi, ma a volte lavoravano anche insieme. Mi sentivo a disagio in quella casa, e lei non ha fatto mai niente per non farmi sentire così. Ricordo ancora il dolore di quei giorni e le sue urla che mi entravano in testa.

    È mattino, sono all’incirca le sei. Lei seduta sulla sedia, vicino alla finestra del cucinino che dà sul living dove dormo io e le mie sorellastre; lavora a maglia e beve il suo vino. Dopo un po’ inizia ad aprire le persiane e sbatte le ante dei mobili. Sono sveglia, rimango con gli occhi chiusi, vorrei non riaprirli mai più… Mi stringo le mani sulle orecchie per non sentire lei che inizia a parlare da sola, con termini volgari, dentro frasi risolve a me. L’alcol le dà la forza di sfogare indirettamente la sua rabbia verso la sottoscritta, l’intrusa figlia di una donna di cui era gelosa.

    I litigi erano frequenti a causa mia, non potevo fare niente, anche solo il mio respiro era un pretesto per obiettare qualcosa. Mio padre non poteva rivolgersi a me affettuosamente, e a chiunque veniva a trovarci lei, alzando la voce, parlava con rabbia di me, della mia presenza in casa sua, affinché io potessi sentire. Tante volte lo faceva anche direttamente con me. A volte mi stringevo le mani sulle orecchie, altre volte correvo in lacrime giù in cortile e mi rifugiavo sotto un salice piangente; questo mi faceva sentire protetta, abbracciata e consolata. Ma il più delle volte correvo in bagno, e guardandomi allo specchio mi punivo, mi graffiavo, mi picchiavo e poi mi schiacciavo la faccia contro l’asciugamano e gridavo: Voglio la mamma! Voglio la mamma!. Lei veniva dietro la porta, e continuando a gridare mi diceva: Torna da dove sei venuta!.

    Ero sola, mio padre era a lavoro, ed io avrei voluto morire. Straziata dal dolore, mi sentivo la causa dei loro litigi, della sua rabbia, mi sentivo colpevole di tutto, ed è per questo che mi punivo.

    Ho trascorso cinque anni così. Cinque anni sono tanti! Non avevo la libertà di fare niente, nemmeno di mangiare qualcosa se avevo fame… vedevo le sue figlie che nascondevano le cose più buone, per non dovermele offrire. Ricordo le tante volte in cui mi sono svegliata in piena notte col mal d’orecchie e mio padre non si alzava. Rimanevo lì, a sopportare quel dolore da sola, senza nessuno che si prendesse cura di me. Ricordo che ero una bambina dolce, buona, ma a un certo punto sono cambiata. Avevano svegliato l’altra parte di me…

    Nutrivo tanta rabbia, niente affetto, niente amore, niente di niente. Quando andavo a scuola mi sentivo libera, socializzavo con gli altri, ma ovviamente ero fragile, triste. Non ero io, c’era qualcosa che mi bloccava, e anche se non me ne rendevo conto ero già prigioniera di me stessa: due identità in lotta, l’una contro l’altra.

    *

    Avevo all’incirca quattordici anni. La situazione da mio padre era tragica. Sentivo dentro di me un disperato bisogno d’amore, d’affetto. Mia madre intanto affrontava la sua convivenza con quell’uomo… avevano già messo al mondo altri figli. Ogni tanto andavo a trovarla, ma anche lì le cose non erano tutte rose e fiori. Il suo compagno la picchiava. Quando l’andavo a trovare era terrorizzata da quello che potevo dire, perché lui l’avrebbe utilizzato come un alibi per arrabbiarsi con lei. Erano tutti malati: un padre fra una figlia e una donna, e una madre nella stessa situazione, se non peggiore… la mia triste riflessione è che nessuno dei due era in grado di prendere una posizione giusta. Erano entrambi succubi di due persone malate.

    Avrei voluto essere adottata da una famiglia, da una vera famiglia, peccato che nel frattempo iniziava a infondersi nel profondo del mio inconscio un senso di autodistruzione. Cosicché, iniziavo a cercare l’amore fuori ed ogni delusione mi faceva sprofondare nella mia prigione interiore, odiando persino me stessa. Ero già stanca di vivere a soli quattordici anni…

    Dopo c’è molta confusione, sono successe tante di quelle cose che per scriverle non mi basterebbero dieci anni. Io poi non riesco a sintetizzare, devo immergermi nei particolari, entrare nel vivo della faccenda, e fa male. Ecco perché mi è risultato più congeniale scrivere saltuariamente, per dosare bene il dolore, assumerlo a piccole dosi: era l’unico modo per sopportarlo, per affrontarlo…

    I

    Il primo ricordo che ho di mio padre risale all’età di cinque anni, non chiedetemi in quale contesto o situazione, i ricordi sono offuscati e confusi. Lui non viveva con noi, era già convivente con la sua nuova compagna. Se provo ad andare indietro in quegli anni ripenso a mio padre come a una figura labile, e tale rimane, perché non ci sono ricordi né belli né brutti legati a lui. Probabilmente, non c’è stata nessuna occasione di natura affettiva, tale da rimanere impressa nella mia mente e nel mio cuore. Oggi posso definire mio padre un uomo ingabbiato tra l’amore di una donna e quello di una figlia, una situazione, immagino, alquanto difficile da gestire. Non posso giudicare le sue scelte, ma mi permetto di valutare la sua posizione come padre; il suo dovere nei miei confronti era quello di proteggermi, di aiutarmi a crescere nell’amore e nella serenità. Penso che tutto ciò che ho visto di sbagliato nelle persone che mi circondavano allora coincide con quello che, senza volerlo, ho permesso di fare alle persone che sono entrate nella mia vita successivamente, tanto da perderne il controllo. Tante emozioni negative accumulate nel tempo che riemergono in determinate situazioni. È come aprire una porta e…

    È triste pensare di non ricordare un momento bello della tua adolescenza. Oggi che sono una donna e che sono madre mi rendo conto di quanto sia importante per un bambino vivere in un ambiente confortevole e soprattutto circondato da persone che lo amano. Penso che tutto quello che ho provato, che ho visto, sia dentro di me come un male incurabile, simile a qualcosa che resta incubato nel profondo, ma che ogni tanto può emergere di nuovo. Lo senti battere dentro i tuoi respiri, ti dà quel senso di dolore, di sofferenza, che tanto avresti voluto dimenticare, ma ormai fa parte di te, e quando le situazioni lungo il tuo cammino sono tali da dischiudere quei ricordi che ormai sono radicati nell’anima, ti rendi conto che essi ti accompagneranno per sempre, fino all’ultimo respiro, perché ciò che ti è mancato, ciò che ti hanno tolto nessuno te lo ridarà. Allora devi imparare a conviverci, devi accettare quel dolore, quei ricordi, perché solo così potrai affrontarli a testa alta, potrai avere la forza e la consapevolezza che non è stata colpa tua, e che le persone che ti hanno cresciuto, facendoti vivere quelle situazioni, avevano dei problemi a loro volta molto profondi.

    Quando a un bambino viene a mancare l’amore, la sicurezza, i sentimenti così fondamentali per la sua crescita, inevitabilmente si ritroverà un giorno a cercarli fuori, talvolta da persone che non comprendono, o che hanno bisogno anche loro di quello che a te manca, e quindi ti ritrovi a soffrire ancor di più, perché cerchi disperatamente amore, sicurezza, tranquillità. Ed è questo ciò che è successo a me.

    Ero piccola, ero solo una bambina. Mi è stato tolto ciò che mi spettava di diritto, ciò che necessitavo di avere per crescere sicura e tranquilla. L’egoismo e l’irresponsabilità, e molto probabilmente l’ignoranza di quelle persone che si presumevano adulte, senza esserlo, hanno dato alla luce una vita che non sono stati capaci di crescere come avrebbero dovuto. Ed eccomi allora: un risultato disperato. Per quanto possa aver dato loro problemi, ne ho dati principalmente a me stessa, distruggendomi giorno dopo giorno. Ma non sono qui oggi per giustificarmi o per giudicare i miei genitori, perché ormai ciò che è stato, è stato. Il tempo è passato e la vita fino a un certo punto si è consumata nel modo peggiore. Quello che ti è mancato ti mancherà per sempre, e certi ricordi rimarranno delle ferite per sempre. Ma la vita continua…

    II

    Non mi stanco di ripercorrere quello che è stata la mia infanzia. Beh, di sicuro non è un lavoro facile. Devo concentrarmi, perché è un’impresa che richiede coraggio e umiltà, ripercorrere tutto quel marasma di emozioni che mi hanno attraversato, direi travolta, lasciandomi in balia delle onde.

    Fino a che vivevo in casa con mio padre e la sua compagna, Berenice, la mia matrigna, penso di essere stata una bambina tranquilla, silenziosa, per lo meno in apparenza, perché dentro di me in realtà c’era già una rivoluzione. Man mano che crescevo iniziavo a diventare più ribelle, a sfogare e difendere me stessa da tutta l’ingiustizia che mi circondava. In fin dei conti, ero una bambina, quindi non avevo colpe, e iniziavo a rispondere alla matrigna, a mio padre, fino a quando non cominciai ad uscire. Ero ormai più grandicella, avevo circa quattordici anni, e allora fuori cercavo quell’amore che nell’ambito famigliare non avevo mai avuto, ma senza avere la benché minima idea di cosa fosse quel sentimento tanto desiderato, perché l’amore fino ad allora non c’era stato, nessuno me l’aveva insegnato. Lo cercavo fuori, nelle amicizie, nelle simpatie per un ragazzino. Fuori ero così, una persona socievole, solare; invece, quando rincasavo tornavo ribelle, costretta nelle maglie dei problemi di sempre, come se avessi due identità distinte: fuori una ragazzina spensierata, dentro un’adulta incompresa. Sono cresciuta troppo in fretta? Non direi, non mi sentivo affatto matura, anzi. Però, ho vissuto sin troppo presto i dolori laceranti dell’abbandono e della precarietà… in sostanza, il dolore.

    La mia mamma, nel frattempo, aveva avuto altri quattro figli con il suo nuovo compagno. Erano tutti piccolini, nati in un arco di tempo molto breve; quindi, tra loro c’era poca differenza d’età. Siccome il suo uomo le alzava le mani, era riuscita a farsi coraggio e ad allontanarlo. Molte donne non ci riescono purtroppo, lei invece sì, ne è stata capace. E finalmente potei andare a vivere con lei. Ero contentissima! Il fatto è che la mia esperienza di vita con mia madre non è stata bella, tutt’altro…

    Decise di stabilirsi abusivamente in un appartamento non suo, all’interno di un condominio popolare. Ero solo una ragazzina, la mia gioia per aver ritrovato mia madre mi induceva a ignorare del tutto che quella dimora non ci appartenesse; ma a me non interessava il contesto, chiamiamolo così, l’importante era averla ritrovata e stare con lei. Ciò che di sbagliato c’era in quella scelta, non aveva alcuna importanza ai miei occhi.

    Avevo più o meno quindici anni quando sono andata a vivere con lei. Da quando ne avevo otto ero stata con mio padre; perciò, mi dovevo abituare a un nuovo stile di vita, nuove abitudini, nuovo contesto, è stato un repentino evolversi di avvenimenti, talmente tanto confuso, che faccio fatica a ricordare ogni minimo particolare. Si leva una fitta nebbia che offusca la mia mente, lasciando un grande senso di incertezza nel rievocare queste memorie. Eppure, il ricordo è ancora vivo, non posso perderlo…

    Durante gli anni precedenti, trascorsi a casa di mio padre, la mamma era con il suo nuovo compagno ed io, ogni tanto, andavo a trovarla. Sapevo che lui la picchiava, ero al corrente della situazione. L’aveva denunciato diverse volte, aveva combinato delle cose gravi, gravissime… c’erano stati degli episodi di stalking, lei lo mandava via e lui le recapitava telefonate anonime; se la trovava in giro la picchiava, lì in mezzo alla strada, tant’è vero che gli misero pure la polizia addosso, ma lui continuava a pedinarla, a minacciarla, come se nulla fosse. Fino a quando non l’hanno beccato una volta per tutte, e da quel momento si è allontanato definitivamente dalla sua abitazione.

    Pur essendo stata fino agli otto anni da lei, io quasi non me la ricordavo, era sempre assente; chi mi ricordavo, invece, era mia sorella maggiore, che ha dieci anni più di me, ero quasi sempre con lei. Desideravo più di ogni altra cosa al mondo ritrovarla, vivere con mia mamma, e forse anche lei lo voleva, ma arrancava, brancolava, smarrita in qualcosa di più grande di lei, che non sapeva neanche definire. Non capiva a cosa stesse andando incontro… assumersi la responsabilità di una ragazzina che non aveva cresciuto, e che si accingeva a diventare grande, troppo in fretta, senza delle solide basi caratteriali.

    Dunque, sono andata a vivere con lei, lo desideravo tanto, mi mancava, volevo stare con mia madre. Però quando sono arrivata lì le cose non sono andate come io speravo… è stato un disastro, l’inizio della mia autodistruzione, un periodo che purtroppo mi ha segnata definitivamente. In procinto di iniziare la prima superiore, avevo scelto l’istituto d’arte, ne ero entusiasta! Ricordo di essere andata a iscrivermi da sola, era una scuola che volevo proprio fare, da tempo. In casa c’erano i bambini ancora piccoli, parlo dei miei quattro fratelli. Presto, però, ce ne siamo andati, era diventato impossibile vivere lì. Una volta giunti nella nuova sistemazione, mi sono ritrovata in un contesto che definire disagiato è un eufemismo. A parte la casa, triste, molto triste, completamente vuota e trascurata, di sicuro non bella e confortevole, beh… anche il quartiere non era il massimo…

    I miei fratelli erano dei bambini pieni di energie, scalpitanti, e anche loro inevitabilmente subirono quella situazione disagevole. Quando andavo a scuola non riuscivo proprio a concentrarmi: in casa vivevo come un’accampata, nel caos più totale, conducevo una vita precaria, senza orari, né regole, senza niente insomma! Non era una famiglia la mia, era un disastro, un disastro totale.

    Poi c’era

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