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La profondità di un'anima
La profondità di un'anima
La profondità di un'anima
E-book188 pagine2 ore

La profondità di un'anima

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Info su questo ebook

La storia che segue si svolge in un non luogo e in un non tempo, perché nel suo sviluppo traccia una parabola universale. Racconta un percorso fatto di ricerca e spiritualità, che ispirato dall’ambizione di comprendere si spinge fin oltre la vita, e arriva a dare un senso alla morte.
Ma quella che segue è anche una storia vera, personale, di crescita ed emancipazione. È la storia di una figlia, di una moglie, di una madre. Di una donna che ha subito, ha sofferto, e ha poi deciso di lottare. Una donna chiamata ad affrontare il dolore più grande, da cui è riuscita però a trarre la forza per ripartire, per rinascere. 

Donatella Cenci è nata in un piccolo paese delle Marche, Montefano. È una donna ironica, allegra, romantica e molto sensibile, che nonostante le avversità incontrate lungo il cammino ha ancora una gran voglia di vivere. La vita l’ha delusa, ma lei si aspetta ancora molto da essa. Ha il sole dentro e fuori l’anima. Ama ballare, e attraverso le note della vita aspetta il composito più grande, quando l’amore la renderà degna di essere nata e niente e nessuno potrà più fermarla.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2019
ISBN9788855087346
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    Anteprima del libro

    La profondità di un'anima - Donatella Cenci

    Donatella Cenci

    La profondità di un’anima

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica novembre 2019

    ISBN 978-88-5508-734-6

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    A te che sei la luce del mio immenso vivere.

    Prefazione

    La storia che segue si svolge in un non luogo e in un non tempo, perché nel suo sviluppo traccia una parabola universale. Racconta un percorso fatto di ricerca e spiritualità, che ispirato dall’ambizione di comprendere si spinge fin oltre la vita, e arriva a dare un senso alla morte.

    Ma quella che segue è anche una storia vera, personale, di crescita ed emancipazione. È la storia di una figlia, di una moglie, di una madre. Di una donna che ha subito, ha sofferto, e ha poi deciso di lottare. Una donna chiamata ad affrontare il dolore più grande, da cui è riuscita però a trarre la forza per ripartire, per rinascere.

    È la storia di Donatella, che nel suo cammino di vita conosce il rifiuto, il distacco, l’illusione, ma nonostante tutto continua a cercare. Cosa? L’amore, l’espressione più pura del sentire, la più autentica emanazione dell’essenza divina.

    Proprio inseguendo l’amore Donatella si spinge fin oltre i luoghi abituali della conoscenza, arriva a stabilire un ponte con l’Aldilà, e diviene lei stessa elemento di tramite con il mondo celeste. La sua mano e la sua voce diventano portatrici di messaggi divini, per donare al mondo le chiavi con cui spalancare le porte dell’esistenza.

    Non occorre la meta

    se non si è ancora imparato a camminare.

    1.

    Immersa tra quattro pareti bianche, sotto una coperta bianca, una bimbetta di quattro anni è seduta nel suo letto, mentre con lo sguardo è fuori da quella stanza. È sera, anche se non fa ancora buio, quando d’improvviso oltre la finestra la bambina vede un tribale. È questo il mio primo ricordo.

    La parola tribale in realtà è arrivata solo più tardi, quando mi hanno spiegato che quel simbolo probabilmente rappresentava il mio spirito guida, venuto da me per indirizzare la mia conoscenza al mondo spirituale non visibile agli occhi. A quell’età invece non sapevo cosa fosse, ma l’immagine ce l’ho ancora chiara davanti agli occhi. Quel simbolo era come attaccato a un palo e dondolava ritmicamente davanti alla finestra. Per me.

    Lo ricordo benissimo, ma soprattutto ricordo che non avvertii alcuna paura. L’unica sensazione che provavo era sorpresa, con un tocco di meraviglia e curiosità. Erano queste le corde sonanti della mia anima, prima che il mondo intervenisse a plasmarmi.

    Quella bimbetta aveva una voglia di vita indescrivibile. Amava giocare, amava sorridere, amava parlare. Adorava esibirsi e dare sfoggio di sé. Era una bimba socievole, interessata, espansiva. Tutti si divertivano a darle corda, a godere del suo sorriso, ma durò poco.

    Di quell’età ricordo solo questo. Non mia mamma che mi abbracciava e mi baciava, non l’amore dei miei cari o episodi che ci ritraggono tutti insieme a ridere attorno a un tavolo, come si usa in una famiglia. Solo quest’episodio, poi la mia mente vola al primo giorno di scuola, a una bambina timida che lì proprio non voleva starci. Si sentiva abbandonata in quell’aula, e anche fuori luogo, perché fino a quell’età non aveva avuto attorno a sé nessun bambino con cui giocare, e tutti quelli che ora le sedevano accanto ai suoi occhi erano solo estranei.

    Dei miei primi anni non conservo molti ricordi felici. Ciò che avverto quando provo a tornare indietro con la memoria è un profondo senso di insicurezza e timore, e a farmi paura era innanzitutto la morte.

    La prima volta che partecipai a un funerale fui obbligata dalla maestra, e io la odiai. Era deceduta la sorella e tutti noi alunni, insieme alle famiglie, dovemmo andare a farle visita in camera ardente.

    Di quel primo funerale ricordo soprattutto l’imposizione. Avevo subito comunicato ai miei genitori che non volevo andarci. Nonostante non sapessi cosa mi attendeva, sentivo già che non faceva per me. Loro però non se ne curarono. C’erano tutti quel giorno, e non potevo di certo fare la parte della piccolina che si ribella alle regole. Io però mi sentivo morire, ero pervasa dalla paura già prima di entrare.

    La prima cosa che vidi fu la bara, fredda. E ricordo il freddo che sentivo addosso, l’impulso di tirarmi indietro. Poiché ero la più piccolina mi spinsero invece in prima fila, e mi ritrovai davanti agli occhi il volto di questa donna, coperto da un velo, e il suo corpo immobile, anziano e magrissimo. Più di ogni altra cosa ricordo però l’odore assordante dei gigli, che sembrava volermi pervadere. Poi più nulla, non la messa, né cosa successe dopo. Fu come se da quel momento in poi io mi sia allontanata, con la mente e con il corpo, per rifugiarmi altrove. Mi distaccai da me, completamente.

    Fu quel giorno che nacque il mio rifiuto totale per i funerali. E anche per questo grande fiore, il giglio, un fiore bellissimo ma di cui non sono più riuscita a sopportare il profumo. Quel momento violò la mia gioia di vivere, soffocò il mio sorriso di bambina. Rappresentò un atto di violenza che ha poi segnato tutta la mia infanzia.

    Con esso prese vita anche la mia paura notturna. Ogni volta che mi addormentavo, continuavo a vedere l’immagine di quell’anziana signora, stesa su quel letto. Sentivo le voci, non riuscivo a trovare pace, e iniziai a voler dormire con la luce accesa. Persi totalmente la mia serenità.

    La paura cominciò a penalizzarmi in tutto, soprattutto perché non fu riconosciuta dai miei genitori. Non riuscirono mai a capire quanto fosse intimo e profondo il timore che sentivo. Non è che mi deridessero, ma tendevano continuamente a sminuire ciò che provavo.

    Oggi capisco che lo fecero in modo inconsapevole, perché non erano pronti o preparati a vedere tanto in profondità. Pensavano fosse il modo migliore per esorcizzare il dolore, ma in realtà non arrivarono mai a comprendere la mia sensibilità. Ero una bambina molto emotiva, e il loro modo di avere famiglia, come si usava una volta, non mi concesse la possibilità di esprimermi.

    Allo stesso modo non mi sono mai sentita veramente amata, non come avrei voluto. Non posso dire che i miei genitori non mi abbiano voluto bene, ma non sono stati in grado di darmi l’affetto che ricercavo.

    Quel tipo di amore l’ho invece avuto da mio nonno, il nonno paterno. Lui era quello che mi coccolava quando me ne stavo nella solitudine, che mi abbracciava e mi prendeva sulle ginocchia quando mi vedeva triste. Da lui ricevevo i baci, gli abbracci, quel tipo di vicinanza fisica che a me mancava. Già allora sapevo di averne bisogno.

    Se mi svegliavo di notte per la paura, e capitava spesso, lui mi rassicurava. Quando i miei genitori non sentivano le mie urla, era lui ad accogliermi nel suo letto. E quello era il momento più bello, perché in quel letto io finalmente avvertivo il calore.

    Solitamente era mio padre che si alzava, veniva da me e lasciava che occupassi il suo posto nel lettone, perché potessi riaddormentarmi vicino a mia mamma, ma a lei questo non piaceva, e inconsciamente me lo faceva pesare: le stavo rubando il letto coniugale. Non pensava che lo capissi, ma io invece lo sentivo. Sentivo che per lei ero un peso. Una persona matura, se intuisce di essere di troppo, si fa da parte, ma la me piccolina proprio non ci riusciva. La paura era troppo grande.

    Per tutta la vita mi sono portata dentro la sensazione di non essere voluta, di non essere accettata. Sono cresciuta sentendo di non appartenere a questo mondo, di venire costantemente rifiutata: dai miei genitori, dai compagni di classe, dagli insegnanti.

    Questo ha causato in me dei gravi segni, che mi sono portata dentro per tanti anni, che hanno tessuto le fila della donna che sono diventata. Finché, drammaticamente, i nodi non si sono sciolti all’improvviso.

    Solo allora sono giunta a riconoscere il senso di ogni passo compiuto, di ogni paura che mi ha segnato, di ogni peso che mi ero portata dentro. Solo allora ho raggiunto la comprensione. E ai miei occhi si è offerto un quadro nuovo, finalmente completo, della vita.

    2.

    La mia mente ha selezionato con cura i momenti da custodire, e mentre ricordo con nitidezza ogni attimo felice, di quelli brutti mi porto dentro solo le sensazioni. Del periodo della scuola ad esempio conservo pochissime immagini, mentre il sentimento che ancora avverto forte dentro di me quando ripenso a quegli anni è sicuramente quello del rifiuto.

    Tra i banchi di scuola non riuscivo proprio a sentirmi a mio agio. Mi piacevano le poesie e il recitare, le adoravo, ma non amavo la storia, non amavo la geografia, non amavo studiare. E infatti incontrai molte difficoltà. I miei genitori provarono anche a mandarmi a ripetizioni, ma lo studio sembrava andare contro la mia natura. E così ogni giorno non facevo che aspettare che arrivasse il momento della ricreazione.

    Adoravo invece la recita natalizia, era l’unica iniziativa a cui mi dedicavo con entusiasmo. La maestra diceva sempre: «Non capisco perché questa bambina impara le poesie, anche così lunghe, in dieci minuti, e non riesce invece a dirmi neanche una frase di storia».

    Neanche i temi mi riuscivano bene, le uniche cose che raccontavo, in realtà, non esistevano. Non scrivevo di momenti vissuti in casa, con la famiglia. Io andavo oltre, fantasticavo.

    Avevo un buon linguaggio, questo lo ammetteva anche la maestra, ma non riuscivo a sviluppare gli argomenti che mi venivano assegnati. E lo stesso valeva anche per tutte le altre materie. Sembrava quasi che ciò che ero chiamata a imparare fosse incompatibile con la mia indole, e così è stato fino alla quinta elementare.

    Quando avevo dodici anni la mia famiglia cambiò casa per trasferirsi in una nuova zona, così all’inizio della scuola media mi ritrovai in classe con tutti ragazzi che non conoscevo. Ero chiamata a riformare il cerchio delle amicizie, che per me significava innanzitutto riuscire a farmi accettare. Impresa ancor più difficile di prima, perché ora che eravamo più grandi ci eravamo fatti anche più cattivi.

    Mi sentivo diversa, da tutti. Chi ero io? Io ero quella ragazzina timida e introversa che non aveva nulla da offrire. Non c’era niente di nuovo o interessante che potessi portare a un gruppo. Ero bruttina, e anche un po’ sciatta. Non mi piacevo, e ovviamente non piacevo agli altri.

    Da parte di tutti i miei nuovi compagni di classe avvertii subito una chiusura netta, inequivocabile, che non mi aspettavo. Tentai di inserirmi nel loro mondo, ma era come se non parlassi la stessa lingua. Cercavo di integrarmi, ma non venivo proprio considerata.

    Noi poi abitavamo in campagna, e questo di certo non aiutò. La mia casa distava quasi due chilometri dalla fermata dell’autobus. I miei genitori uscivano molto presto la mattina per andare a lavorare e non potevano accompagnarmi, così ogni giorno, con il freddo e la cartella sulle spalle, salivo sulla bicicletta quando era ancora buio e andavo da sola. Credo che il gelo entrato in me in quegli anni non mi abbia poi più abbandonato.

    Quella distanza mi pesava tantissimo, era più di quanto riuscissi a sopportare, infatti non facevo che lamentarmi con i miei genitori. Perché dovevo sempre andare in bici con il freddo, mentre le altre ragazzine avevano l’autobus che passava sotto casa?

    Alla timidezza si unirono quindi le difficoltà oggettive, perché se i miei compagni si organizzavano per vedersi nel pomeriggio, io invece non potevo, abitavo troppo distante.

    La mia era una casa sempre vuota di amici, e io non venivo mai invitata da loro.

    Alle medie continuò anche il mio pessimo rapporto con lo studio. Ero una somarona. Riuscivo a cavarmela in tutto ciò che richiedeva un’applicazione pratica, ma quando si trattava di teoria la mia mente smetteva di rispondere. Studiavo più di tutti, potevo passare ore sui libri, ma non arrivavo mai ad assimilare nulla, perché mentre io tentavo di imparare la mia mente prendeva e se ne andava da un’altra parte.

    Le difficoltà nell’apprendere incisero anche sui rapporti sociali, perché i miei amici, che amici non erano, mi prendevano continuamente in giro, e la loro reazione non faceva che rendermi ancora più lenta, ma ciò che mi penalizzò maggiormente fu il ritardo nello sviluppo fisico.

    Io non crescevo, il mio corpo sembrava non volerne sapere di maturare. Ero ancora una bambina, e così rimasi fino a quasi diciotto anni: una ragazzina che non faceva che scrutare se stessa, che aspettava con ansia di veder spuntare il seno e quelle forme di donna che ammirava invece in tutte le altre compagne. Non c’era nulla in lei che manifestasse un sentore di femminilità, e anche nel vestire faticava a trovare una propria identità.

    Ho sempre dovuto fare i conti con la visione della vita imposta dai miei genitori, e questo valeva anche per l’abbigliamento. Mi costringevano a indossare i pantaloni, che io odiavo e con cui non sono mai riuscita a sentirmi a mio agio. A me piacevano le gonne, io sognavo i vestiti ampi che si indossano nei giorni di festa, ma come poteva quella fantasticheria sposarsi con la mia realtà? Ogni giorno dovevo andare a scuola in bicicletta e mia madre mi faceva infagottare in pantaloni larghi e totalmente informi. Era così freddo che spesso lasciavo sotto anche il pigiama. Poi una volta arrivata a scuola mi ritrovavo a fare i conti con le altre ragazzine, più femminili, più carine, più curate, e questo non faceva che accrescere il mio disagio.

    Sentivo che l’immagine di me che restituivo agli altri non mi rappresentava assolutamente. Non ero io, ma non avevo la forza per manifestarmi in modo differente, e il mio corpo anonimo non aiutava. Mi sentivo a disagio già prima di entrare a scuola, come avrei potuto trovare la forza per affrontare tutto il resto?

    I maschietti si lanciavano in apprezzamenti su tutte le altre ragazze, mentre a me non riservavano neanche uno sguardo, se non per prendermi in giro.

    Quando ero in terza media un compagno iniziò a infastidirmi proprio su una delle mie fobie. Io odio le lucertole, non le sopporto, e così è stato fin da quando ho memoria. Lui, prendendomi in giro per il mio non-corpo femminile, per la mia stupidità, per il mio ritardo in tutto, prese l’abitudine di attaccare una lucertola su una canna da pesca e farmela poi scorrere sulla schiena. Io scappavo, urlavo, ma più mi dimenavo più lui continuava per dispetto. Allora correvo a

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