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Il profumo segreto dei fiori
Il profumo segreto dei fiori
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E-book249 pagine3 ore

Il profumo segreto dei fiori

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Info su questo ebook

«Una piccola gemma che vi terrà incollati fino all'ultima pagina.»
Susan Duncan

È l’aprile del 1956 quando Iris Turner, una giovane donna inglese, arriva nel sud della Francia per lavorare come segretaria al servizio di Hammond Brooke. Hammond è un uomo ombroso che sta lentamente perdendo la vista e ha bisogno di qualcuno che ordini e cataloghi i suoi documenti. Accolta con distacco dagli altri aristocratici che vivono nella stessa villa sulla Costa Azzurra di Hammond, Iris cerca in tutti i modi di guadagnare la fiducia del suo datore di lavoro. Soprattutto quando, alle prese con quelle vecchie carte, Iris scopre che il misterioso signor Brooke è stato un tempo un famoso profumiere e che, tra i documenti di cui la ragazza deve occuparsi, ci sono anche le sue preziose ricette, di cui è gelosissimo. Una volta iniziata all’affascinante mondo delle essenze, Iris si trova però invischiata in una fitta rete di intrighi. Non passa molto tempo, infatti, prima che capisca che qualcuno, molto vicino a Hammond, vorrebbe mettere le mani proprio sui suoi segreti…

Un viaggio nel tempo immersi nelle essenze della Francia provenzale

«Un romanzo davvero molto piacevole. Ambientato nella Francia del secondo dopoguerra, Hampson ha creato un mondo vivido e dei personaggi vivaci tra i quali spicca la graziosa Iris, che racconta la storia con brio, osservazioni taglienti e humour.» 

«Delizioso! Una meravigliosa lettura per fuggire in un altro mondo e in un’altra epoca.» 

«Durante una serena domenica ho riso e pianto: cosa si può chiedere di meglio da un libro?»
Amanda Hampson
È cresciuta in Nuova Zelanda e ha sempre desiderato diventare una scrittrice. A vent’anni si è trasferita a Londra, dove si è innamorata della letteratura e della cultura inglese. Attualmente vive in Australia. Ha già scritto due romanzi e due libri di saggistica.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788822712899
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    Anteprima del libro

    Il profumo segreto dei fiori - Amanda Hampson

    Capitolo 1

    Parigi, aprile 1956

    Il mio primo giorno in Francia! Lo dovevo sapere che i francesi guidavano sul lato sbagliato della strada, eppure rimasi di stucco: se sopravvissi al mio primo giorno oltremanica, fu per mera fortuna. Parigi poteva essere romantica a braccetto del proprio amato, ma per una donna sola e disorientata era un incubo terrificante. Il mio francese scolastico si rivelò vano: mi pareva di essere circondata da persone che si esprimevano usando formule chimiche o equazioni algebriche.

    Durante la traversata della Manica fino a Calais, scandita da un’avvilente acquerugiola grigia, mi ero sentita frastornata: ero nervosa, e provavo una sorta di fascinazione, mista a orrore, per la mia scelta ardita. Quando scesi dal treno alla stazione Gare du Nord di Parigi, la mia angoscia mutò in un crescente terrore cieco. Mi erano state date istruzioni precise su come raggiungere l’albergo prenotato a mio nome: non era distante dalla stazione, come avevo verificato dopo aver studiato ossessivamente la mappa della città per buona parte del viaggio.

    Appena sbucata fuori dalla stazione, fui preda di un agguato: una mendicante iniziò a tendere la mano sudicia verso di me, farfugliando come una disperata. Le avrei dato volentieri qualcosa: avevo una manciata di franchi francesi per le circostanze accidentali (sebbene mi fosse stato inculcato che bisognava render conto di ogni centesimo), ma non osai allungare la mano verso la borsetta temendo che l’accattona me la potesse rubare. E così, abbandonando ogni parvenza di dignità, schivai la poveraccia e mi allontanai a passo spedito, con la valigia stretta al petto. Che benedizione! La mappa della città era marchiata a fuoco nella mia mente: la prova che, a volte, l’ansia può risultare utile.

    E in quel momento, al sicuro nella mia minuscola camera d’albergo, Parigi brulicava di vita tutt’intorno a me, ma ero troppo agitata per avventurarmi fuori. Cosa mi aveva mai spinto a pensare di poter fare una cosa del genere? Per fortuna, mi ero preparata dei panini e un thermos pieno di tè per il viaggio: sarebbe stata la mia cena quella sera.

    Parigi era già un ricordo sfocato. Lasciai l’albergo nella luce abbozzata dell’alba con il taxi che sferragliava sulle strade di acciottolato e sbandava per i vicoli stretti: temetti di perdermi nelle viscere della città, senza mai più riemergere. Arrischiai un debole tentativo con il tassista, ma non parve gradire la mia pronuncia di Gare de Lyon, perché mi ringhiò in risposta: «Garrrrrderrrrleeoon!». A ripensarci, forse gli dissi guerre, che significa guerra – ne ero piuttosto sicura – e non stazione dei treni: fu il mio primo incidente diplomatico.

    E adesso ero di nuovo sul treno: dal finestrino sfilavano paesaggi rurali, pianeggianti, che rievocavano le contee di casa, ed era un gradito conforto. Era un viaggio lungo da Parigi a Cannes, ma avevo con me l’ultimo libro della signorina Christie, nel caso mi fossi annoiata. Avevo sperato di riempire il mio thermos di tè caldo in albergo, ma si era rivelata un’impresa che andava al di là delle mie capacità linguistiche. In effetti, avevamo imparato una sola frase utile durante le lezioni di francese della signora Barker? Essere in grado di ordinare il tè doveva essere una priorità assoluta, così almeno mi aspettavo.

    All’inizio pensai di avere lo scompartimento di prima classe tutto per me, e ciò sarebbe stato perfetto perché la notte precedente non avevo quasi chiuso occhio. Ma, non appena il treno si fu allontanato dalla stazione, arrivò trafelato un altro passeggero, giovane e bello: si precipitò nel sedile all’angolo, accanto al finestrino. Trasudava decadenza, un odore antico e piacevole, ed era vestito come i poeti romantici: una giacca di velluto verde smeraldo sopra un’ampia camicia bianca. Non aveva bagaglio con sé. Si calò il cappello sugli occhi e in un battibaleno si addormentò.

    A quel punto comparve un gentiluomo più anziano: ci impiegò un tempo spropositato a sistemare la valigia nel ripiano portabagagli; poi si levò il soprabito e il cappello con uguale lentezza e infine si accomodò di fronte a me. L’angusto spazio fu subito pervaso dalla zaffata acre delle sigarette francesi, un tanfo camuffato da una stucchevole eau de cologne. Lo sconosciuto provò a scambiare qualche convenevole con me e così fui costretta a scusarmi, spiegandogli che ero inglese. Dunque lo ignorai e aggiornai il mio diario, ma persino mentre scrivevo continuò a guardarmi con un sorriso allusivo, come se mi trovasse in qualche modo divertente. Dietro quel sorriso percepivo un uomo rovinato, con un cuore marcio e oscuro, come quello che si nascondeva nel petto di tanti uomini di quei giorni: individui che avevano sopportato l’orrore non di una sola guerra, bensì di due. La sofferenza aveva svuotato il loro intimo, spolpandolo di ogni traccia di tenerezza. Com’era successo a mio padre, ricettacolo di una furia crepitante, pronta a esplodere in un soffio.

    Caro, il mio defunto padre… per quanto potesse essere difficile e insopportabile, sapeva anche essere brillante e intelligente. Si rivelava un’ottima compagnia, se si trovava nella giusta disposizione d’animo. Leggeva tanto, e con voracità; e aveva una conoscenza profonda delle cose. All’inizio, e soprattutto quando ci ritrovammo da soli nelle fauci della guerra, trascorremmo tante serate piacevoli insieme, davanti al camino acceso. L’alcol gli addolciva il carattere e allora mi parlava di politica, storia, letteratura e filosofia… Negli ultimi anni della sua vita conversammo di così tante cose. L’unico argomento tabù era mia madre. Ma non volevo più pensare a mio padre. Se quella folle avventura in Francia mi avesse permesso anche solo di liberarmi dall’imponente ombra paterna, sarebbe già stata in sé una cosa meravigliosa.

    Mi era stato detto di aspettare nell’atrio del Carlton Hotel di Cannes, dove sarebbe venuto a prendermi l’autista del mio datore di lavoro. Tuttavia, quando arrivai e mi accorsi di quanto fosse grandioso quell’albergo, in maniera quasi inconcepibile, decisi di attendere fuori sul marciapiede, appollaiata sulla mia valigia. Me ne pentii all’istante: ero troppo appariscente con il mio cappotto di tweed ormai logoro, e temetti così di essere scambiata per una rifugiata di un impoverito Paese dell’Europa orientale. A peggiorare la situazione, dalla baia soffiava un vento salmastro e feroce, perciò alla fine mi dovetti accomodare su una poltrona nell’atrio. Probabilmente avevo un’aria alquanto importante mentre scribacchiavo sul mio taccuino.

    Il mio viaggio in treno aveva poi preso una piega interessante. Dopo circa un’ora, il passeggero giovane e affascinante si era svegliato e mi aveva chiesto che ora fosse. Dovevo assolutamente smettere di sussultare quando la gente si rivolgeva a me in francese. Mi trovavo in Francia, perciò era inevitabile. Quando il tizio scoprì che ero inglese, s’incuriosì e mi tempestò di domande. Il signore più anziano, quel tipaccio sgradevole, era così infastidito dalle nostre chiacchiere che manifestò platealmente il desiderio di spostarsi verso lidi più tranquilli.

    Quel giovane, che si chiamava Alexander, veniva da Londra, proprio come me: era stato a Parigi per una festa e ora stava rientrando a casa sua, a Cannes. Non avevo l’abitudine di conversare con gli sconosciuti, ma c’era qualcosa di gentile in quell’individuo: una profondità che andava ben oltre la sua giovane età; e nonostante la baldanza da bohémien, scorsi un’insolita vulnerabilità in lui. Rimase incredibilmente impressionato quando gli raccontai che mi ero licenziata dopo ben diciassette anni di lavoro nell’amministrazione pubblica per accettare un incarico a breve termine nel Sud della Francia. Gli avevo fatto quella confidenza, spinta dal mio bisogno di onestà: non ero affatto una di quelle donne indipendenti e intrepide che accettano le sfide e cercano l’avventura. Quando si trattava di agire, inevitabilmente tendevo a rimandare e mi dilungavo a elencare gli ostacoli. La risata di Alexander era frizzante e contagiosa: mi incoraggiò a condividere altre osservazioni ironiche su me stessa, quasi a volermi sminuire; eppure mi sentii piuttosto brillante.

    Parlammo per tutto il tragitto fino a Cannes, e sebbene non mi avesse rivelato molto di sé, mi ritrovai a chiacchierare con lui come se fossimo vecchi amici. Era curioso di sapere cosa mi avesse spinto a prendere la decisione affrettata di lasciare il mio lavoro in cambio di quella piccola gita, come la definì lui, e gli spiegai che era stato a causa di Colleen e della mia amata gatta, Mitzi.

    Colleen era la mia più cara amica in ufficio. C’erano tante cose che mi piacevano di lei, tra queste il fatto che profumasse di generosità e gentilezza: lo trovavo molto confortante, come il profumo delle focaccine calde e delle lenzuola di cotonina. Colleen aveva uno sfrenato senso dell’umorismo, tipicamente irlandese: era in grado di strappare una risata persino alla bisbetica signora Mickelson, l’addetta alla preparazione del tè nel nostro reparto, che ci infliggeva il suo intruglio amaro e i suoi biscotti mollicci due volte al giorno.

    Di venerdì, io e Colleen pranzavamo sempre insieme, soltanto noi due. Che piovesse, grandinasse o splendesse il sole, ci affrettavamo verso il Lyons’ Corner House sullo Strand e ci assicuravamo due posti a sedere prima che giungesse trafelata la folla all’ora di pranzo. Colleen mi prendeva immancabilmente in giro perché ordinavo sempre lo stesso piatto, prosciutto grigliato, ma andava bene così; in quel modo potevo limitarmi a cenare con pane imburrato e una teiera fumante. Lungo il tragitto, Colleen comprava sempre l’ultima copia di «The Lady» (si stava impegnando a diventare più raffinata) e mi leggeva ad alta voce gli annunci personali, in particolare le inserzioni riguardanti gentiluomini che cercavano segretarie o governanti con lo scopo del matrimonio, se idonee. A quelle segretarie e governanti veniva invariabilmente richiesto di essere attraenti, raffinate, riservate; e a volte anche di essere in possesso di mezzi. Si preferivano le donne più giovani, indipendentemente dall’età dei gentiluomini. Ogni tanto si avanzavano richieste specifiche, come un determinato peso o una passione obbligatoria per i bambini, i cani o la caccia. Gli inserzionisti più sfibrati dalla ricerca aggiungevano il monito: Niente donne frivole e superficiali.

    Colleen mi pressava sempre a iniziare una corrispondenza con qualsiasi gentiluomo ritenesse adatto a me, ma invero la mia unica dote era di non essere per niente frivola e superficiale, ahimè. Mi ero chiesta a volte quali fossero invece le mie di esigenze: di sicuro, non nutrivo aspettative riguardo all’aspetto fisico. Mi sarei accontentata di un uomo tenero, gentile e abbastanza interessante; non m’importava se era un po’ corpulento o se aveva le orecchie a sventola. Tuttavia, avevo tracciato un limite: niente gobba o ginocchio valgo. Una buona postura era importante per me. Una persona attenta e affettuosa, ma nell’intimità. Non mi sarebbe affatto piaciuto essere palpeggiata in pubblico. E doveva essere dotato di senso dell’umorismo…

    Ma dov’ero rimasta? Ritorniamo alla giornata in questione. L’attenzione di Colleen fu attirata da un annuncio in particolare:

    Si richiede una stenodattilografa per un committente di lingua inglese nel Sud della Francia. Si forniscono vitto e alloggio con pensione completa, salario commensurato all’esperienza. Incarico per 3-4 mesi.

    La mia amica alzò lo sguardo dal giornale, con il viso raggiante di entusiasmo. «Iris! È proprio quello che fa per te. Il Sud della Francia!». Strappò l’inserzione, sventolandola per aria, e me la porse.

    «Per me è impossibile star via così a lungo», le feci notare.

    Non mi stava ascoltando, ma mi illustrava i dettagli. «Per candidarti, devi scrivere a un avvocato di Belgravia. Allora, cosa ne dici?»

    «Stai cercando di sbarazzarti di me?», la stuzzicai.

    Mi afferrò le mani, stringendole nelle sue. «Iris, lavori nell’amministrazione pubblica da diciassette anni! Hai donato la tua giovinezza a quel lavoro. Hai trentacinque anni adesso! Sei giunta a metà della tua vita. Non sopporto di vederti ammuffire in quell’orribile mausoleo per il resto della tua vita, senza aver mai fatto niente… niente di impulsivo o oltraggioso, intendo. Senza mai aver vissuto degnamente».

    «Colleen, io vivo degnamente. Sono molto contenta della mia vita». (Non era proprio vero). «Inoltre, come farei con Mitzi?»

    «Oh», rispose lei con tono sprezzante. «Ovvio, la devozione nei confronti della tua gatta è di sicuro una valida ragione per non imbarcarsi in nessun genere di avventura». La devozione, mi fece notare, non era una caratteristica felina. Mitzi era pragmatica, come qualsiasi altro gatto. «Starà benissimo con la signora, come-cavolo-si-chiama, della porta accanto. Se ci pensi, Iris, capirai che è solo una scusa. E piuttosto inconsistente, devi ammettere».

    Non avrei mai fatto qualcosa del genere di mia spontanea volontà, ma quando Colleen si rese conto di non potermi convincere, né costringere, ad accettare, colsi un barlume di sprezzante rassegnazione nei suoi occhi, la stessa espressione delusa e contrariata che avevo intravisto di recente nello sguardo di mio fratello, Alan. E provai quegli stessi brividi, come se mi osservassi con distacco, senza un briciolo di empatia. Alan ormai si era rassegnato con me, ma perdere il rispetto e l’affetto di Colleen sarebbe stato intollerabile. E se ciò non fosse stato abbastanza a spronarmi, una settimana più tardi la mia piccola cara Mitzi morì, portandosi via la mia ultima remora.

    Mitzi era un’amica, mi faceva compagnia: lei era la mia famiglia. Una sera, durante l’ennesima incursione aerea dei tedeschi su Londra, incapace di reggere un’altra notte a dormire pigiati come sardine nella stazione di Balham, mi ero accovacciata nella credenza sotto le scale assieme a Mitzi. Quella stessa notte fu sganciata una bomba proprio sulla stazione e uccise tutte le persone che avevano cercato rifugio là dentro. L’unica volta che vidi mio padre piangere fu quando rincasò dal turno alla Milizia territoriale e ci trovò vive. In quel momento mi sentii scagionata per non aver fatto sopprimere Mitzi all’inizio della guerra, quando il governo convinse i cittadini ad abbattere decine di migliaia di animali domestici perché non erano ammessi nei rifugi antiaerei pubblici. Io decisi di sfidare la sorte: così io le salvai la vita, e Mitzi salvò la mia. La sera del bombardamento non sarei mai rimasta in casa da sola. Eravamo dunque indissolubilmente legate, e presi la sua morte come un segno.

    Ma non fu solo questo. Al lavoro si verificò un incidente che mi offrì uno spunto di riflessione.

    Un giorno, durante la pausa pranzo, alcune ragazze del nostro reparto si recarono da King’s Head per festeggiare il fidanzamento di Shirley. Mi invitarono, ma soltanto perché ci andavano tutte le altre. Non che io non fossi gradita o benvenuta: spesso venivo semplicemente ignorata. Shirley era l’opposto. Nell’ufficio era considerata l’ape regina, e non fu di certo una sorpresa che si fosse fidanzata. Quando arrivò nel nostro reparto all’inizio, come molti dei miei colleghi ne fui avvinta: volevamo tutti esserle amici e bearci della sua radiosità. Ma non ero destinata a farlo.

    Quel pomeriggio nel pub, Shirley era andata al bancone per offrirci il primo giro di bevute, e noi ragazze – in tutto sei – ci stavamo accomodando nella saletta. Irene si offrì di prendere i nostri cappotti. Io ero infreddolita, perciò me lo tenni addosso e mi spostai più volte lungo il divanetto semicircolare per permettere alle altre colleghe di sedersi dopo aver finito di ammucchiare i cappotti su Irene. Mi godevo quell’atmosfera calorosa e conviviale, rallegrata dalle risate, ma a causa del trambusto con i cappotti, ero rimasta solo io sul divanetto imbottito quando ritornò Shirley con il vassoio pieno di bevande. Mi vide, da sola dall’altra parte del tavolo, e mormorò: «Oh, sono estremamente desolata…». Poi fece per girarsi verso il divanetto vuoto, quello più vicino al fuoco.

    Non sapevo cosa dire. Seguì un lungo momento di imbarazzo prima che Colleen si rendesse conto dell’errore di Shirley e le sussurrasse il mio nome all’orecchio. Shirley era mortificata e non smetteva di scusarsi. «Iris! Sono così dispiaciuta. Sono mezza cieca senza gli occhiali, sai», scherzò. «Con la luce alle tue spalle…».

    «Capisco», replicai. «Ti prego, non fartene un cruccio». Tutte quelle scuse attirarono ancora di più l’attenzione su un momento che altrimenti sarebbe passato inosservato. Un conto era venire soltanto ignorati, un altro essere contemporaneamente al centro dell’attenzione.

    Colleen si sedette accanto a me, ridendo. «Cara la mia vecchia Iris, sei un camaleonte. È il tuo dono. Ti ha scambiato per un pezzo dell’arredamento». Tutte le ragazze scoppiarono a ridere. Mi sforzai di sorridere e di unirmi alla gioiosa confusione. In quel momento mi resi conto che anche in ufficio ero un pezzo del mobilio. Come un mobile ormai fuori moda, ma ancora utile, venivo requisita dagli altri reparti e poi restituita quando non servivo più a nessuno. Mi ricordavo ancora di un tempo in cui avevo sperato molto di più. Fu l’ultimo barlume di quell’antica speranza a farmi cogliere al volo l’opportunità. E così ero in viaggio verso la Riviera francese.

    Durante il tragitto in treno, l’atmosfera nella nostra carrozza era allietata dall’entusiasmo di Alexander per la mia avventura, e il mio umore si risollevò mentre il paesaggio mutò notevolmente in meglio: ora mi ricordava quelle cartoline illustrate della Riviera francese. Il paesaggio, prima denso di pianure, sfumò in foreste ondeggianti. Alla nostra destra, il mare brillava alla luce del sole. Gli alberi erano pini dalle forme contorte e talvolta, invece, esili e puntuti, intervallati a ville decorate con stucco color crema e tetti di terracotta. Alla nostra sinistra, si potevano ammirare scogliere e scarpate rocciose.

    Raccontai ad Alexander del mio colloquio con l’avvocato del mio committente, il signor Hubert. Quando mi aveva offerto il lavoro, si era lasciato sfuggire un commento leggermente inquietante: si trattava di una situazione un po’ strana, e quindi era più adatta a qualcuno che avesse la mia maturità. Quella frase catturò l’immaginazione di Alexander e così passò l’ultimo tratto del viaggio a fare speculazioni su tutti i possibili, stravaganti scenari. Quel giorno le sue congetture mi avevano divertito, ma a ripensarci in quel momento, in attesa dell’autista, non mi sembravano più così buffe.

    Quando ci eravamo salutati alla stazione di Cannes, Alexander mi aveva baciato su entrambe le guance, e poi mi aveva anche abbracciato calorosamente. «I francesi disdegnano gli abbracci, a meno che non si tratti di un cane o di un bambino», mi spiegò. «Quindi dovrà farsi bastare questo abbraccio finché non ci rincontreremo, mia cara». Evidentemente immaginava che provenissi da un posto dove la gente di solito si abbracciava con trasporto. Mi lasciò il suo numero di telefono e mi fece promettere di comunicargli presto mie notizie. Mi chiese anche di rivelargli, una volta che l’avessi scoperto, quale sarebbe stata la mia situazione un po’ strana.

    E infine attendevo l’autista, nell’atrio del Carlton, in preda all’agitazione. Da quel vantaggioso punto di osservazione, potevo ammirare il portico scintillante di luci e le automobili lussuose che accostavano all’ingresso dell’albergo. Era piuttosto divertente osservare gli uscieri che si precipitavano fuori ad aprire le portiere delle auto come se i veicoli avessero preso fuoco o gli occupanti stessero per partorire, mentre la gente che sbucava da quelle vetture se la prendeva comoda per entrare in albergo, passeggiando senza alcuna fretta. Era difficile immaginarsi la ragione di tutto quel panico, se non giungendo alla conclusione più ovvia: i privilegiati non dovevano mai aspettare nessuno. Figuriamoci un portiere d’albergo.

    Ero quasi sopraffatta dalla fatica quando infine l’autista, un tipo magro e muscoloso simile a un fantino, entrò

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