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Quella lunga, fresca e intensa primavera
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E-book262 pagine3 ore

Quella lunga, fresca e intensa primavera

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Info su questo ebook

Quella lunga, fresca e intensa primavera, ovvero la prima vera indagine dell'Investigatore privato Arno Farina.

Brevi e precisi momenti raccontati da Diego Nardi con maestria, colorati da riferimenti particolari.Ci si può solo augurare che le indagini dell'Investigatore continuino.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2013
ISBN9788868554118
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    Anteprima del libro

    Quella lunga, fresca e intensa primavera - Diego Nardi

    Farina)

    IL FATTO

    Arrivai di corsa a quell’indirizzo dei quartieri alti su in collina, avevo corso come un pazzo passando una volta sola con il verde, compiendo alcuni sorpassi da ritiro della patente e parcheggiando la mia 2 CV in malo modo. Me ne accorsi perché un tizio impegnato a correre per dimagrire, mi guardò in cagnesco, bisbigliando qualcosa sottovoce. Riuscii a percepire solo: «... ma vaff...».

      La collina, o meglio le colline, iniziano proprio a due passi dal centro storico e si snodano per una ventina di chilometri; le ultime propaggini di questi colli muoiono poi nella bassa, verso sud. Tra pendii e piccole valli sorgono paeselli e contrade, coltivazioni, un piccolo lago e poche case: nessun condominio.

      È proprio vero che chi prima arriva meglio alloggia e qualche secolo fa, i preti, colonizzarono per primi. A un tiro di schioppo dalla Basilica Palladiana, cuore di Vicenza, si percorrono in salita i Portici che simboleggiano con centocinquanta arcate, divise a gruppi di dieci con ognuna un piccolo ripiano a mo' di cappella, i quindici misteri e le Ave Maria del Rosario. Alla fine di questo lungo porticato sorge il Santuario dedicato alla Madonna, eretto a seguito di alcune apparizioni della Vergine.

      Ben si adatta questa zona a essere meta di differenti tipi di persone, ognuna con le proprie idee e convinzioni. Dai pellegrini domenicali, ai ciclisti, dagli amanti del running agli innamorati, dai possessori di cani a chi scambia i muri per un block notes. Naturalmente in quel contesto non poteva mancare il bar Al Pellegrino, luogo di ristoro e di guadagni dove, tra l'altro, si gusta una ottima cioccolata coi savoiardi. Ma a proposito di writers, una decina di anni fa, prima del restauro, qualcuno aveva ornato la parete di una arcata con la seguente didascalia in rima: se di Marisa... (cognome), ti piace la spiga (sinonimo), tira una riga (rima).

      Mi incuriosì molto quella faccenda e dopo una manciata di minuti di righe ne avevo contate duecentocinquantasette. Quella scritta non era certo in tema con la sacralità del luogo e il poeta non si era sicuramente attardato per recitare il rosario. In ogni caso, dal numero di righe che decorava quella parete, si capiva che Marisa doveva essere proprio una sventola di gran classe e per giunta, con la spiga d'oro.

      Nel corso dei secoli, subito dopo il Clero e poco prima dei poveri pellegrini, salirono la collina i nobili della città: i nobili di nascita, gli aspiranti nobili e infine i ricchi, che pur non fregiandosi di blasonati titoli, avevano fatto i soldi con il lavoro nelle botteghe e nelle fabbriche. Nel tempo costruirono le loro lussuose dimore nelle pieghe più nascoste di queste verdi colline, dove l'occhio umano fa fatica a mettere a fuoco. Campi da calcetto tra ulivi e mandorli, piscine dalle azzurre acque all'ombra di piangenti salici, e campi da tennis nelle radure dei boschi.

      Ero stato chiamato di gran fretta da un certo signor Taglini del quale non avevo mai sentito parlare prima in vita mia. Questo, come direbbero i pellerossa, mi riempiva il cuore di gioia e lo faceva volare alto come un falco, perché mai nessuno mi aveva messo così fretta e offerto parecchi bigliettoni da cento per iniziare un lavoro.

    Taglini mi disse che dovevo indagare su qualcosa che per telefono non voleva e non poteva parlarne. Un’indagine, pensai dentro di me, chissà che tipo di lavoro sarà. E cominciai così a far lavorare la mia mente pensando all’incarico che di lì a poco avrei assunto, e mi chiedevo se avrei dovuto pedinare il solito coniuge fedifrago mentre andava a trovare la sua amante, oppure scoprire se un tizio, nottetempo, andava a spasso in cerca di regine non sapendo che tra le domestiche mura qualcuno sospettava.

      «Chissà...» esclamai a voce alta «che questo caso mi dia un po' di soddisfazione, che sia un po' complicato, che ci sia del movimento... pure qualche morto... un caso che possa far vedere la mia vera forza, le mie capacità.»

      Del resto sono un investigatore privato: presidente, direttore e funzionario unico della B.B.E. Investigations. Sono quasi un detective come quelli dei film americani degli anni trenta e quaranta, che indossano sempre il vestito con la camicia bianca e il cappello sulle ventitré, l’eterna sigaretta sulle labbra e bevono litri di whisky senza mai sbronzarsi più del dovuto.

      Investigatori del calibro di Philip Marlowe e Sam Spade, che sul grande schermo furono superbamente interpretati da Humphrey Bogart. Hanno un fegato forgiato in fonderia e quando decidono di avere una donna entrano nel primo night e rimorchiano una rossa da far venire i capelli bianchi al più incallito dei playboy. Quei detective che non usano mai la pistola e al college erano campioni di football o basket, quelli che come minimo sono alti un metro e ottantacinque, non soffrono di emicrania e vivono in ufficio radendosi una volta alla settimana; quelli che non hanno nulla a che fare con me insomma, ma solo perché sono astemio, ho la barba e non porto il cappello sulle ventitré.

      Il signor Taglini mi aveva telefonato dicendo che dovevo correre subito a casa sua prima che arrivasse la polizia, mi avrebbe spiegato tutto per filo e per segno a quattrocchi. La polizia significa l’ispettore Maselli Ciro da Castellammare di Stabbia con due b come lui tiene a sottolineare con suo accento meridionale. Gran bravo ragazzo, il Maselli, ma quelli come me non li ama ma li sopporta proprio.

      L’estate scorsa avevo un caso per le mani: un tizio, che tra l’altro mi stava pure antipatico, mi aveva fatto pedinare la moglie perché temeva che uscisse con un altro uomo. In una notte chiara e fresca, dopo lunghi appostamenti e meticolose indagini, verso le tre del mattino qualcuno bussò alla mia porta.

      Chi sarà mai a quest’ora della notte? pensai. «Chi è?» chiesi.

      Qualche attimo di assoluto silenzio e poi qualcuno a squarciagola gridò

      «Sono quello che ti spezzerà le ossa una per una.»

      Era il marito geloso dell’allegra signora che se n’era andata in Messico con un giovanotto di Treviso e io, con le mie meticolose indagini e lunghi appostamenti, non me ne ero accorto per niente: anzi mi ero ripromesso che il giorno seguente avrei chiamato il presunto coniuge tradito per dirgli di dormire sonni tranquilli perché sua moglie, per tre pomeriggi alla settimana, andava all’istituto per gli anziani a fare volontariato e alla sera tornava tranquilla al focolare.

      Peccato che l’istituto per anziani confinava con la stazione e la signora, lemme lemme, usciva da una porta secondaria, incontrava il giovanotto e se ne andavano insieme a consumare un’ora d’amore in qualche alberghetto triste di periferia; mentre io passavo da fesso.

    La porta cadde pesantemente e mi colpì su entrambi i piedi e io lanciai un grido: il marito tradito e imbufalito con me, avanzò minaccioso come un fiume in piena e mi sferrò un pugno diritto in faccia che mi fece cadere sulla porta già scardinata e poco dopo vidi i falchi volare in alto nell’azzurro del cielo, vedevo sentivo il mio nome: detective, detective… a quagliò, ué quagliò, iamme svegliate bell’e mamma tua, à Marlowee!.

      Era Ciro che mi aveva salvato dalle grinfie del marito geloso e tradito e che mi offriva un letto a casa sua.

      «Vedi caro Bogart» mi disse passandomi la borsa del ghiaccio e pigliandomi così in giro. «Tu non puoi pensare di fare l'investigatore privato per tutta la vita: hai studiato, sei intelligente, sei perito industriale con indirizzo meccanico e hai dato pure qualche esame all’università: Bogart era forse un perito industriale? A suo tempo dovevi arruolati nella Polizia caro mio: noi ti avremmo dato la divisa con la pistola e il distintivo; poi via con la volante a rincorrere i mariuoli. Fermi tutti Polizia, mani in alto o ti faccio passare la voglia di sorridere. Se poi ti fossi applicato nel tuo lavoro con dedizione...» continuò Ciro allungandomi una tazza di camomilla «spirito di sacrificio e tanta voglia di far bene, avresti potuto diventare pure ispettore e anche commissario. Ma ormai è troppo tardi paisà! Quaglio’ qui non siamo a Los Angeles; e smettila una buona volta con questa storia dei detective americani. Questa è una piccola città ancora tanto bigotta dove la gente non è abituata ai P.I.; credono tu stia parlano di qualche perito industriale iscritto all’albo. Qui sono abituati ad andare alla santa messa la domenica, le paste e a pranzo dalla mamma. Qui non ci sono i grandi omicidi, i misteri da risolvere... al massimo puoi indagare su qualche scippo o arrestare un travestito. Lascia perdere fratello, dai retta a me.»

      Forse il buon Ciro aveva ragione ma, come dice quella vecchia canzone, per fare certe cose ci vuole orecchio e io per le cose che avrebbe voluto farmi fare l’ispettore, l’orecchio non l’avevo, e non l’avrò mai.

      Lo ringraziai e me ne ritornai a casa con la coda tra le gambe: avevo pure una forte emicrania che avrebbe ammazzato un bue e le parole del poliziotto che mi ronzavano ancora dentro la testa. In fin dei conti Ciro mi voleva bene, cercava sempre di darmi dei buoni consigli, era un uomo del sud e aveva un cuore grande come una casa ma io non gli davo molta corda.

      Non davo corda a lui come non ne davo al vecchio Biagio. Anche lui mi voleva bene e ha fatto molto per me cercando di tirare fuori il meglio dal sottoscritto; ma ero io che non ce la mettevo tutta e lui s’incazzava come una bestia e mi gonfiava come un pallone. Dopo tanti anni, caro Biagio, devo ammettere che avevi ragione pure tu.

    Biagio era mio padre e probabilmente ora sta passeggiando con le sue bellissime scarpe bicolori dalle parti di San Pietro o giù di lì.

      Se ne andò troppo presto, il vecchio Biagio, lasciando solo me e tutto il resto della famiglia. Portava un nome un po' bizzarro per essere nato a cavallo degli anni Venti in una zona, il Veneto, dove tutti si chiamavano Antonio, Giuseppe, Giovanni, Primo e via di questo passo. Probabilmente i suoi ne avevano piene le scatole di tutti questi nomi belli e importanti e decisero così per un nome con un taglio un po’ più originale.

      Come dicevo, il vecchio Biagio portava sempre delle scarpe bicolori: ne aveva due paia di colori diversi. Per l’inverno usava quelle bianche e blu e durante la bella stagione sfoggiava quelle bianche e marroni. Quando lo vedevo vestito per bene rimanevo sempre a bocca aperta e ogni volta lo squadravo da capo a piedi e gli dicevo quanto fosse bello. Indossava spesso, con il bicolore bianco e marrone, un paio di pantaloni di cotone beige e una camicia con le punte del collo lunghe color azzurro chiaro. Nel taschino l’immancabile pacchetto verde di esportazioni senza filtro, quelle col veliero, e una penna stilografica nera con le bordature dorate. I calzini erano rigorosamente marroni così come la cinta dei pantaloni. Si aiutava a camminare col bastone e portava sempre un cappello di panno chiaro e i suoi favolosi occhiali della guerra.

      Non so se sia vera o meno la storia di come si procurò quei bellissimi occhiali da sole, ma a me fa piacere credere alla sua versione originale.

      Il vecchio Biagio, e come lui altri tantissimi quasi ventenni, fu chiamato a servire la Patria in armi. Vista la sua notevole stazza per la media dell’epoca, lui era poco più di un metro e ottanta in altezza per ottanta chilogrammi di peso, di sana e robusta costituzione, fu spedito a fare il militar soldato con gli Alpini e i muli, contro il Baffone, nelle sterminate steppe comuniste.

    Piangeva come un bambino il primo giorno di scuola giù alla stazione e con lui anche i miei nonni e zia Linda. L’unica che non piangeva era mia madre, tutta raccolta nel suo vestitino da donna grande a pois bianchi e rossi. La notte precedente aveva consumato tutta la riserva di lacrime, sciupato il suo dolce aspetto di diciottenne.

      Tra una lacrima e l’altra Biagio sfornava uno strano sorriso che lo faceva sembrare mezzo deficiente; la sera prima era andato con altri due o tre coscritti a festeggiare la chiamata alle armi. Avevano esagerato di brutto con il vino: si erano scolato all’incirca una quindicina di bottiglie di vinello dei colli e qualche bottiglia di grappa di Bassano. Mio nonno l’aveva trovato alle cinque del mattino, sulla strada dell’aeroporto, che dalla città portava al paese. Era seduto sotto il ponte sulla riva del fiume che l’aveva visto fin da bambino nuotare e fare lo stupido divertendosi con gli amici. Ora voleva già disertare e si sarebbe lasciato trasportare dalla corrente, via, lontano dalla guerra e da tutti quanti. Fu subito richiamato alle proprie responsabilità dal vocione assordante nel silenzio della campagna di suo padre: «È colpa del vino e della grappa che hai bevuto in abbondanza stanotte.» Proruppe mio nonno in dialetto arricchendo la frase con qualche aggettivo non troppo gentile all’indirizzo di qualche santo e dei suoi superiori.

      «È stato Bepi che mi ha fatto bere perché ha detto che non torneremo mica da laggiù» rispose Biagio cominciando a vomitare.

      Mio nonno cercò di sdrammatizzare e mentre gli reggeva la testa, disse che Bepi era un gran mona e che era anche scarso in geografia «perché,» continuò «se si va in Abissinia si dice laggiù, e se invece si va in Russia, allora si dice lassù!!»

      Per Biagio lassù o laggiù era uguale: doveva andare via ma non voleva partire. La scena non doveva essere certo delle più idilliache visto che Biagio vomitava e piangeva, piangeva e vomitava; mio nonno gli immerse la testa nell’acqua, vicino ai resti della cena della sera prima, e lo riportò a casa per prepararsi alla partenza.

      Non era ancora del tutto sobrio alla stazione ed era per questo motivo che alternava pianti esagerati a sorrisi senza senso. Altri commilitoni ridevano baldanzosi, facevano gli spacconi lanciando frasi minacciose all’indirizzo dei comunisti e del loro capo e inneggiando al Duce, mentre lui frignava e rideva come mai gli era capitato in vita sua.

      Passarono interminabili mesi in compagnia del freddo e della neve, a guerreggiare con un nemico che era nato nel gelo della steppa, a combattere la solitudine, a mangiare carne di mulo. Biagio aveva visto alcuni compagni diventare statue di ghiaccio, adornando tristemente quel deserto bianco così lontano e così ostile. Dopo avere riportato a casa la pelle pagando il prezzo di qualche dito mezzo congelato, venne subito dirottato verso sud perché gli americani erano sbarcati in Sicilia e sulle spiagge del Lazio e stavano risalendo il Bel Paese con la velocità della luce mettendo in fuga tedeschi e fascisti.

      Un bel giorno le carte in tavola cambiarono; i nemici erano diventati amici, gli amici erano diventati nemici e non si capiva più una bella mazza. Fu così che Biagio e compagnia si trovarono prima prigionieri e poi alleati degli americani, e per un po’ di tempo rimasero in loro compagnia. Erano tutti belli, gli americani, nelle loro divise col nome scritto nel taschino, gli anfibi e i pacchetti di sigarette infilate nella fascia dell’elmetto.

      Anche Biagio avrebbe voluto infilare il pacchetto di esportazioni nella fascia dell’elmetto, lasciando la cinghietta slacciata come gli attori dei film americani, ma non poteva. Era prigioniero, senza l'elmetto e una gran voglia del suo paese, della sua gente e soprattutto della sua morosa.

      Aveva fatto poi un po' d’amicizia con un boscaiolo, sergente americano dell’Oregon che aveva i quattro nonni originari dell’Abruzzo. Guidava la Jeep, il giovanotto, e Biagio si era innamorato di quei bellissimi occhiali da sole che l’esercito d’oltre oceano aveva in dotazione. Conoscendolo posso immaginare quanto deve aver rotto le scatole per averli. Mi immagino pure che cosa può aver blaterato durante le lunghe contrattazioni in anglo-veneto o in anglo-abruzzese.

      Un paio di occhiali da sole, che qualche decennio più tardi sarebbero costati dei bei soldoni, in cambio di un cappello d’alpino della Julia con la lunga penna nera.

    L'OMICIDIO

    Suonai il campanello e dopo qualche secondo il cancello automatico si aprì; entrai in un vasto giardino. Dietro un cespuglio di ortensie notai un omino piccolino con un paio di occhiali dalle spesse lenti assorto a curare i fiori. Indossava un’abbondante tuta verde e marrone ed ebbi l’impressione che mi stesse guardando con attenzione. Tirai dritto per la mia strada..

    Dopo qualche passo mi fermai per chiedergli che cosa volesse ma non feci in tempo a pronunciare una sola parola che malamente scivolai con un piede dentro la vasca dei pesci rossi sollevando uno spruzzo d’acqua.

      L’omino, gentilmente, venne ad aiutarmi. Disse che mi stava osservando da quando ero entrato perché avevo preso a spron battuto la direzione della vasca. La cosa mi fece molto arrabbiare perché mi stavo comportando come un attore delle comiche degli anni trenta. Speravo solamente che il Taglini non si fosse accorto di nulla. Niente affatto: udii una voce altera che rivolgendosi a me diceva: «Venga signor detective, prenda la porta alla sua sinistra.»

      Un altro falco volava alto nel cielo: mi aveva chiamato signor detective. Quello mi piglia in giro, mormorai tra me e fra poco mi manda a quel paese con bel un calcio nel sedere.

    Entrai in casa, era molto grande e sobriamente arredata. «Accidenti» dissi ad alta voce, il mio appartamento poteva stare dentro il tinello avanzando ancora un po' di spazio. Al pianterreno c’era una grande entrata con mobilio in stile e molti quadri alle pareti, al centro della stanza pendeva dal soffitto un lampadario in vetro colorato di Murano. Salii qualche lucido scalino in legno in un assoluto silenzio interrotto solo dal rumore di una della mie scarpe inzuppata.

    I pochi gradini mi avevano portato all'interno di un'altra grande sala: mi fermai proprio sopra un bellissimo tappeto persiano. Sembravo un cane con la pozzanghera di pipì vicino.

      Taglini mi venne incontro guardandomi di traverso e mi fece cenno di seguirlo nell’altra stanza.

      Il mio cliente era un tipo sui sessantacinque, tarchiato e con un’espressione vispa e furba. Indossava un paio di pantaloni grigi di flanella e un maglione blu marine, camicia bianca e foulard intonato al collo. Camminava sorretto da un bastone e aveva l’aria di un ricco nobile dai modi aristocratici d’un tempo. Lo stavo seguendo cercando di carpire utili informazioni da tutto ciò che mi circondava, quando il mio sguardo si bloccò sulle forme di una bellissima creatura.

      Non avevo mai visto una donna così bella, era abbastanza giovane, intorno ai trenta, capelli castani che morivano sulle spalle e occhi verdi come l’acqua della Costa Smeralda. Vestiva in modo elegante con un tailleur azzurro, calze chiare e mocassini. Lei mi guardò piangendo, squadrandomi da capo a piedi e abbozzando una smorfia a metà strada tra lo stupore e la pena; forse era per la scarpa destra completamente bagnata. In ogni caso era stupenda ed io, entrato in catalessi, sembravo rincoglionito.

      Più passava il tempo e più mi sembrava di essere sul set di un vecchio film con la sceneggiatura già scritta: arrivare in quella casa prima della Polizia, il giardiniere un po' misterioso, una femmina stupenda; mancava solo il cadavere. La mia voglia di sapere venne subito esaudita quando Taglini mi fece entrare in uno studio-biblioteca.

      E lì...

      Riverso su una poltrona c’era un uomo, ad occhio e croce sulla settantina, con un foro di proiettile sulla tempia destra. Aveva addosso una giacca da camera in tessuto scozzese con tenui toni di verde e blu. «Ma è morto» esordii con voce che sembrava quella di una quattordicenne, impaurita perché il compagno di banco si è pronunciato e l’ha invitata al cinema.

      «Non l’avrei chiamata altrimenti»

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