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E-book437 pagine7 ore

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Info su questo ebook

Perfetto per gli amanti di Angela Marsons e Robert Bryndza

Il primo sconvolgente caso dell’ispettore Luc Callanach

Tra le remote montagne delle Highlands, il corpo di Elaine Buxton sta bruciando. Tutto quello che rimarrà per identificare la donna, un brillante avvocato scozzese, sono i suoi denti e un frammento di vestiario. Intanto, nella stanza nascosta sul retro di una casa di Edimburgo, la vera Elaine Buxton urla nel buio. L’ispettore Luc Callanach ha appena messo piede nel suo nuovo ufficio e subito il caso di una donna scomparsa si trasforma in un’indagine per omicidio. Dopo aver lasciato una promettente carriera all’Interpol, Callanach è impaziente di mettersi alla prova con la sua nuova squadra. Ma l’indagine che lo aspetta è molto diversa da qualunque sfida abbia mai affrontato prima d’ora, perché l’assassino ha coperto le sue tracce con cura meticolosa. Quando un’altra donna di successo viene rapita, è chiaro che si tratta di una disperata corsa contro il tempo per impedire al gioco perverso di una mente criminale di mietere altre vittime.

Una serie da mezzo milione di copie
Tradotta in 10 Paesi

«Un esordio straordinario. La trama è avvincente, speriamo di poter leggere ancora le indagini dell’ispettore Callanach.»
The Herald

«Con i suoi incredibili colpi di scena in ogni capitolo, Resti perfetti terrà agganciati i lettori dall’inizio alla fine. Da leggere.»
Closer

«Senza dubbio uno dei migliori thriller polizieschi in circolazione.»
Woman’s Way Magazine

«Questo libro ha proprio fatto centro.»
Scotland Correspondent

Helen Fields
ha lavorato per anni come sceneggiatrice e la sua passione è guardare serie TV investigative. Ha pubblicato numerosi libri di successo, molti dei quali per bambini e adolescenti, ma la sua vera passione sono i thriller.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2019
ISBN9788822730930
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    Anteprima del libro

    Resti perfetti - Helen Fields

    Capitolo uno

    Preparò il corpo con una premura quasi paterna, allargandole le braccia e le gambe affinché l’aria circolasse liberamente. Lei era cinerea ma serena, le ciglia spiccavano sul grigiore del viso, le labbra smorte. La preferiva così rispetto a com’era la prima volta in cui si erano incontrati. La nudità era poco attraente, in quella posizione, ma necessaria. Non doveva restare nulla di lei. Nessun indizio del suo passato, nessun legame con la vita che stava abbandonando. Per molti aspetti, era una purificazione. Puntò il piede a metà dell’omero sinistro, con precisione chirurgica, e si abbandonò con tutto il peso sul braccio di lei, sentendo lo schianto delle ossa rotte vibrare dentro la gamba. Solo quando ritenne che la pira fosse perfetta, prese il borsello di seta dalla tasca dei pantaloni. Fece cadere i denti madreperlacei nella mano, li passò abilmente tra le dita e il palmo, apprezzando il contrasto fra le parti lisce e quelle aguzze, infine li lanciò nella sua bocca, come monetine in un pozzo, tenendone solo uno. Gli sembrò un peccato bruciare un lavoro così ben fatto, ma non poteva salvare nemmeno un pezzo di carne. Aveva immerso il corpo nell’accelerante per una notte – l’aveva marinato, come era solito dire, scherzando – nel caso qualcuno l’avesse trovato prima del previsto, anche se era improbabile, perché lui non era un dilettante.

    Come ultimo tocco prima di lasciare la casa di pietra, fece gocciolare a terra un frammento della sciarpa di seta insanguinata. Infine la seppellì sotto un sasso pesante. Il fruscio di un fiammifero acceso, lo stridio di vecchi cardini arrugginiti, il latrato delle fiamme che consumavano l’ossigeno, ed era fatta. Portò una mazza da baseball di metallo a una distanza ragionevole e la coprì con un mucchietto di pietre. L’aveva ripulita dalle impronte digitali, ma era rimasta una piccola macchia di sangue sul manico, invisibile a occhio nudo, destinata solo alla luce della lampada a ultravioletti. Un paio di metri più in là abbandonò l’ultimo dente, con qualche pezzo colloso di tessuto gengivale attaccato, poi calciò a terra per coprirlo con un velo di polvere. Poteva bastare.

    C’era un tratto di strada da percorrere a piedi, non molto lungo ma pericoloso al buio, in cui doveva procedere lentamente. La temperatura era sotto lo zero anche in collina. Il suo respiro annebbiava il nitido bagliore delle stelle. Pensò di averle dato una bella tomba. Era fortunata. Pochi lasciavano il mondo davanti a un così bel paesaggio. I Cairngorm cominciarono a scomparire nella nebbia, alle sue spalle. All’apparire dei primi raggi del sole, le loro sagome grigio-porpora si sarebbero stagliate contro il cielo, spoglie e rocciose, quasi un paesaggio lunare. Osservò dallo specchietto la vasta formazione montuosa immersa in un mare di basse colline. Non ci sarebbe tornato più, pensò. Un ultimo addio. Si era dimostrata una zona perfetta.

    Mancava più di un’ora di strada a Edimburgo e le previsioni dicevano che sarebbe piovuto, anche se non tanto forte da spegnere l’incendio. Al cadere della prima goccia, il calore sarebbe stato così intenso che solo una piena avrebbe potuto fermare la distruzione. La sua priorità era arrivare presto a casa, ma con prudenza. Non gli era rimasto molto da fare.

    La donna si era arresa più facilmente di quanto avesse immaginato. Al suo posto, lui avrebbe lottato fino all’ultimo, avrebbe fatto ricorso a ogni grammo di rabbia e bile per resistere. Lei l’aveva implorato, supplicato e infine si era messa a piagnucolare, a urlare. La vita valeva poco, perché la maggior parte della gente non ne apprezzava l’importanza. Ne era certo. Lui si spingeva sempre al limite delle proprie capacità, si sforzava di imparare sempre più, di superare nuovi traguardi. Ardeva per la sete di conoscenza come altri desideravano la ricchezza, ed era difficile trovare un suo pari. Per questo era stato costretto a uccidere. Se non l’avesse sacrificata, sarebbe stato circondato per sempre da donne incapaci di soddisfare il suo intelletto.

    Mentre guidava, ascoltava un CD di lingua straniera. Gli piaceva imparare una nuova lingua ogni anno. Era il turno dello spagnolo. Più facile di molte altre, ammise con un vago senso di colpa, ma aveva una quantità sfiancante di informazioni nella testa. Non ci si poteva aspettare che scegliesse qualcosa di più complesso mentre faceva così tanti viaggi e ricerche.

    «Non ho avuto molto tempo libero». Un coniglio sfrecciò dal ciglio della strada. Frenò bruscamente, non tanto perché volesse evitarlo, ma per la sorpresa del movimento nella sua visione periferica. «Dannazione!». Si era distratto e aveva parlato di nuovo da solo. Gli capitava soltanto quando era molto stanco. E stressato. Le discussioni l’avevano tenuto sveglio fino a tardi. Se qualcuno pensava che fosse facile convincere una donna intelligente a fare quello che era meglio per lei, era uno stupido. Era una sfida, persino per un uomo con le sue facoltà. Più lei era perspicace, più era difficile. Ma maggiore era la ricompensa, alla fine.

    Si fermò alla periferia di Edimburgo e bevve un caffè passabilmente caldo da un termos. Non poteva rischiare di entrare in un bar. Nonostante lo scarso interesse che probabilmente avrebbe suscitato (difficile che qualcuno si mettesse a fissare un uomo di mezza età, con la pancia e una inguardabile calvizie), sarebbe stato stupido farsi cogliere da una telecamera a circuito chiuso mentre tornava in città per quella strada.

    Il ronzio della voce in spagnolo continuò in sottofondo finché lui non spense la radio. Era stata una lunga giornata, perché non concedersi una pausa, per una volta? A casa l’attendeva una signora bisognosa di considerevoli cure e attenzioni. Per un po’ non sarebbe stata in grado di parlare bene, anzi, probabilmente le sarebbe servita un po’ di logoterapia. Ma era fortunata, perché lui era un insegnante dotato in molti campi. Sarebbe stato suo piacere e privilegio aiutarla.

    Capitolo due

    L’ispettore Luc Callanach si chiese quando avrebbero finito di fare battutine, e non avevano nemmeno incominciato. Era il suo secondo giorno al dipartimento investigativo per reati gravi della polizia di Edimburgo e si trovava in un deprimente edificio grigio che non avrebbe potuto somigliare di meno a un centro di indagine penale all’avanguardia. Il precedente era stato un primo giorno di lavoro abbastanza semplice, fatto solo di briefing e riunioni con i superiori, troppo politicamente corretti per azzardare qualche battuta sul suo accento o la sua nazionalità. I suoi sottoposti non sarebbero stati altrettanto gentili. Sembrava improbabile che la polizia di Scozia avesse mai dovuto accogliere un detective mezzo francese e mezzo scozzese.

    Doveva incontrare la squadra e fare un discorso di presentazione, spiegare come intendesse operare e quali fossero le sue aspettative riguardo agli uomini e alle donne al suo comando. Gli sarebbe bastato apparire per scavarsi la fossa: il tipico europeo con i capelli scuri scarmigliati, occhi castani, pelle olivastra e naso aquilino. Appena avesse aperto bocca, sarebbe stato peggio. Guardò l’orologio, conscio che stavano aguzzando l’ingegno collettivo. Farli aspettare non avrebbe migliorato le cose; non che gli importasse particolarmente di quello che pensavano di lui, ma cercava di facilitarsi la vita quando poteva.

    «Silenzio. Cominciamo», disse, scrivendo il proprio nome sulla lavagna e ignorando le occhiate incredule. «Mi sono trasferito dalla Francia da poco e ci metteremo un po’ a capire i rispettivi accenti, quindi parlate piano e in modo chiaro».

    Seguì il silenzio, finché qualcuno in fondo alla stanza disse: «Non ci posso credere, cazzo», ma c’erano troppe persone per capire chi avesse parlato. Una voce chiaramente femminile lo zittì all’istante. Callanach si strofinò la fronte e frenò il desiderio di guardare l’orologio mentre si preparava a sopportare le inevitabili domande.

    «Mi scusi, ispettore, ma Callanach non è un nome scozzese? È solo che non ci aspettavamo una persona dall’aspetto così… europeo».

    «Sono nato in Scozia e sono cresciuto bilingue. Non vi serve sapere altro».

    «Bi-che? È una cosa legale, da queste parti?», gridò una donna bionda, per far ridere i colleghi.

    Callanach la osservò mentre guardava gli altri, in attesa della loro reazione, e capì che stava cercando di fare colpo, di integrarsi nel gruppo. Attese imperturbabile e annoiato che smettessero di ridere.

    «Mi aspetto aggiornamenti regolari sui casi. Una gestione ferrea della catena di comando. Le indagini ne risentono se qualcuno non passa agli altri le sue informazioni. Un grado più alto non è una scusa per dare la colpa ai sottoposti e l’inesperienza non giustifica l’inettitudine. Venite da me per discutere sia i progressi che i problemi. Se volete lamentarvi, chiamate la mamma. Abbiamo tre casi aperti al momento, su cui vi sono stati già assegnati dei compiti. Domande?»

    «È vero che ha lavorato nell’Interpol, signore?», domandò un agente investigativo. Callanach ipotizzò che non avesse più di venticinque anni, pieno di curiosità ed entusiasmo, come era stato lui alla sua età. Sembrava passata una vita.

    «Sì, è corretto», disse. «Come si chiama, agente?»

    «Tripp», rispose lui.

    «Bene, Tripp, conosce la differenza tra collaborare alle indagini su un omicidio internazionale con l’Interpol e condurne una in Scozia?»

    «No, signore», rispose Tripp, guardandosi nervosamente intorno, come se avesse paura che quella domanda fosse l’inizio di una verifica a sorpresa.

    «Non c’è nessuna differenza. Ci sono un cadavere, parenti in lutto, più domande che risposte e pressioni dai piani alti per risolvere il caso nel minor tempo possibile con costi minimi. Malgrado i limiti dei tagli al bilancio, non perdonerò la sciatteria. La posta in gioco è troppo alta per permettere che l’insoddisfazione per la retribuzione degli straordinari influenzi lo sforzo che siete disposti a fare». Fece una pausa per guardarsi intorno, fissando ciascuno negli occhi perché il discorso fosse chiaro. «Tripp», disse alla fine. «Prenda un collega e venite nel mio ufficio».

    Callanach uscì senza saluti né convenevoli. Senza dubbio Tripp stava già subendo le conseguenze della scelta ricaduta su di lui e la squadra si stava lamentando del nuovo ispettore, deprecando l’incapacità della polizia scozzese di promuovere i propri membri. La polizia era uguale in tutto il mondo. Solo il caffè cambiava davvero da un posto all’altro. Non si stupì affatto quando scoprì che lì faceva schifo.

    La parola più adatta a descrivere il suo ufficio era funzionale. Doveva aspettare un’altra promozione prima di poter parlare di vera e propria comodità. Tuttavia era tranquillo e luminoso, con due telefoni, come se potesse dividersi a metà e rispondere a due chiamate contemporaneamente. A terra c’era un paio di scatole di beni personali che aspettavano di essere trasferiti nei cassetti o sugli scaffali. Non che ci fosse qualcosa di vitale, là dentro. Era andato in Scozia per ripartire da zero. Il suo Paese natale gli era sembrato il posto più logico in cui mettere nuove radici, nonché uno dei pochi in cui poteva presentare domanda per un posto in polizia essendo titolare di passaporto.

    Tripp bussò alla porta, seguito da una giovane donna.

    «È pronto a riceverci, signore?», domandò.

    Callanach gli fece segno di entrare. «E lei?»

    «Agente investigativo Salter. Lieta di conoscerla, signore», disse la ragazza, guardandosi le scarpe ancora prima di finire di presentarsi. La prevedibilità del suo imbarazzo era irritante. Callanach soffriva del raro flagello di essere attraente al punto di distrarre chi lo guardava, con una faccia che poteva bloccare il traffico (era successo). Pochi capivano che era più un fardello che una benedizione, al giorno d’oggi.

    «Salter, mi illustri le procedure cominciando dal primo rapporto sul crimine e metta in ordine le prove fino alla preparazione del processo. Tripp, voglio appunti comprensibili sulle procedure adottate, i dossier, il lavoro svolto. Sono stato chiaro?»

    «Sissignore, nessun problema». Tripp sembrava contento di rendersi utile. Il massimo che riuscì a emettere Salter fu un mormorio sconfortato che Callanach prese per un sì.

    «Potete lasciarci soli, agenti?», chiese qualcuno dietro di loro. In piedi sulla soglia c’era un’ispettrice in alta uniforme.

    Salter e Tripp si dileguarono, mentre la donna entrò e chiuse la porta con un calcio.

    «Sono l’ispettrice Turner, Ava, visto che abbiamo lo stesso grado». Gli rivolse un bel sorriso: al contrario di Salter, non aveva nessun problema a guardarlo negli occhi. Era magra e alta circa un metro e sessantacinque. Aveva capelli castani e ricci tenuti a bada da una coda di cavallo. Non era bellissima, almeno non secondo i moderni canoni delle pubblicità, ma definirla carina sarebbe stato un insulto. Aveva i lineamenti delicati, gli occhi grigi e distanti.

    «Callanach», rispose lui. «Dalla tua espressione si direbbe che sei a conoscenza di qualcosa che io non so. Vuoi condividerla o devo tirare a indovinare?».

    Ava Turner ignorò il tono sprezzante e rispose impassibile. «Be’, ho sentito uno degli agenti chiedere perché ci abbiano mandato un modello di intimo maschile invece di un vero poliziotto».

    «Ho ben chiara la situazione».

    «Immagino che tu ci sia abituato. Se può risollevarti il morale, la maggior parte di loro tollererà il tuo accento francese più del mio».

    «Inglese?», domandò lui, cambiando la posizione di uno schedario.

    «Scozzese purosangue, ma i miei genitori mi mandarono in un collegio inglese dall’età di sette anni, da cui il mio accento. Grazie a loro sono benaccetta come la peste. Non preoccuparti. Se gli piacessi a questo stadio, saresti condannato al fallimento. Presumo che tu sia arrivato con la pelle dura, è quello che ci vuole. Fammi un fischio se hai qualche problema, troverai i miei numeri sul foglio dei contatti sulla scrivania. Ora è meglio che vada a cambiarmi. Sono appena tornata da una cerimonia di premiazione in città e non sopporto di stare in uniforme. Ti è capitata una buona squadra, solo non farti prendere troppo per il culo».

    «Non ho intenzione di farmi prendere per il culo da nessuno», rispose lui, afferrando uno dei telefoni e controllando il segnale di linea libera. Quando alzò di nuovo lo sguardo, si accorse di aver parlato a una stanza vuota, con la porta aperta. Si accasciò sulla sedia dietro la scrivania. Prese il cellulare, salvò alcuni dei numeri più importanti dal foglio dei contatti e stava pensando se non fosse il caso di svuotare una delle sue scatole, quando entrò Tripp.

    «Scusi se la disturbo, signore, ma abbiamo appena ricevuto una chiamata da un agente a Braemar. Hanno trovato un cadavere e chiedono di parlare con qualcuno».

    «In che parte della città si trova Braemar?»

    «Non è in città, è sui monti Cairngorm, signore».

    «Per l’amor di Dio, Tripp, la smetta di dire signore alla fine di ogni frase e mi spieghi com’è possibile che si tratti di un caso della città di Edimburgo».

    «Sospettano sia il corpo di una donna scomparsa da qui un paio di settimane fa, un avvocato di nome Elaine Buxton. Hanno trovato un pezzo di stoffa corrispondente alla sciarpa che indossava l’ultima volta che è stata vista».

    «Questo è tutto? Nessun altro collegamento?»

    «È bruciato tutto, signore. Volevo dire, mi scusi. A Braemar hanno pensato che ci avrebbe fatto piacere essere coinvolti fin dall’inizio».

    «D’accordo, agente. Raccolga tutto quello che abbiamo su Elaine Buxton e poi telefoni a Braemar. Voglio informazioni dettagliate sulla mia scrivania tra quindici minuti. Se la donna è scomparsa a Edimburgo, siamo già due settimane in ritardo rispetto all’assassino».

    Capitolo tre

    Callanach posò il telefono. Si sentiva sfinito e decise che dipendeva dallo sforzo di decodificare l’accento scozzese. Aveva solo un vago ricordo di suo padre e, benché sua madre avesse insistito che imparasse a parlare l’inglese bene quanto il francese, lui non si era preparato a un’immersione totale. Il sergente di Braemar era riuscito a mescolare la cadenza cantilenante con una buona dose di espressioni colloquiali. Callanach sospettò che parlasse così in gran parte a suo beneficio e, dopo un paio di frasi, smise di chiedergli il significato di quello che non capiva. Tripp avrebbe dovuto lavorare doppio come interprete. Nel frattempo, accettò di consultarsi su un caso che tecnicamente era fuori dalla sua giurisdizione. Non gli avrebbe fatto guadagnare le simpatie di nessuno, visto che sarebbe costato denaro e forza lavoro che si potevano risparmiare, ma sembrava proprio che il corpo ritrovato sulle montagne fosse della donna scomparsa a Edimburgo.

    Vide Salter passare davanti al suo ufficio e si affacciò alla porta.

    «Qual è il caso più vicino alla soluzione tra quelli che abbiamo in ballo?», le chiese.

    «L’omicidio di Brownlow, signore. Il colpevole è stato arrestato, stiamo solo preparando i documenti per il procuratore. L’udienza preliminare è la prossima settimana».

    «Bene. Venga in sala riunioni tra dieci minuti insieme a Tripp e a un paio di agenti che hanno lavorato al caso Brownlow. Organizzi lei l’incontro. Quanto sono lontani i Cairngorm?».

    L’occhiata che gli lanciò Salter bastò come risposta. Doveva preparare un borsone per la notte.

    Fu un briefing molto teso. La squadra che aveva prelevato dal caso Brownlow ovviamente non era contenta delle due ore di viaggio che l’aspettava, né di mettere mano a una nuova serie di scartoffie quando doveva ancora finirne una. Gli agenti investigativi Tripp, Barnes e Salter erano capeggiati dal sergente Lively. Questi lo scrutava come se fosse appena strisciato fuori da una fogna. Callanach lo ignorò e dopo aver fornito le spiegazioni su quello che stavano facendo il più in fretta possibile, passò la parola all’agente inviato per aggiornarli sulle indagini relative alla persona scomparsa.

    «Elaine Margaret Buxton, trentanove anni, divorziata, senza figli, lavorava come avvocato commerciale per una delle più grandi aziende della città. È scomparsa da sedici giorni. L’ultimo avvistamento confermato risale a venerdì sera, quando è uscita dalla palestra per tornare a casa. Sua madre ha denunciato la scomparsa la sera successiva, dopo che la figlia non si era presentata a pranzo e non era raggiungibile né al telefono di casa né al cellulare. La macchina era in garage, non mancano vestiti né valigie, il passaporto è ancora lì. Era insolito che non avesse controllato le email sabato mattina. Le sue chiavi di casa sono state rinvenute nell’atrio condominiale. La descrivono come una persona molto organizzata, quasi una maniaca del lavoro, non ha preso un solo giorno di malattia negli ultimi due anni».

    «Qualche fidanzato o sospettato più probabile?», domandò l’agente Barnes.

    «L’ex marito, Ryan Buxton, lavora all’estero e ha un alibi di ferro. Non frequentava altri uomini, almeno a quanto sappiamo. Tutti quelli con cui abbiamo parlato hanno confermato che era completamente ossessionata dal lavoro. Era sempre in ufficio o a casa, oppure a un corso in palestra. Non avevamo indizi, prima di questo».

    «Perché la polizia di Braemar è così convinta che si tratti della nostra donna scomparsa?», domandò Callanach.

    «L’ultima persona che ha visto la signora Buxton aveva una sua foto sul cellulare. Si era fermata al bar della palestra per festeggiare il compleanno di un’amica. Abbiamo diffuso la foto ed elencato i vestiti in dettaglio. Ecco come hanno trovato la corrispondenza».

    «Qualcuno ha già avvisato la famiglia?», domandò Tripp.

    Callanach gli rispose subito: «No, e sarà meglio tenere la bocca chiusa finché non avremo visto il corpo e la scena del crimine con i nostri occhi. Servirà anche una prova del DNA prima di confermare il collegamento».

    «Il caso di persona scomparsa sarà pure nostro, ma non quello di omicidio. A che serve andare in capo al mondo quando non abbiamo neanche un’identificazione certa?», chiese il sergente Lively. «Come se non avessimo già i nostri casi di cui occuparci e non ci fossero già lì degli ispettori in grado di lavorare senza l’intervento di qualche ex pezzo grosso dell’Interpol».

    «Se si tratta di Elaine Buxton, è stata rapita a Edimburgo, dunque ci sono buone possibilità che sia stata uccisa qui. Non intendo perdere l’opportunità di ispezionare la scena del crimine perché lei non vuole scomodarsi a prendere la macchina. Per quanto riguarda il lavoro in sospeso sul caso Brownlow, imparate a fare più cose contemporaneamente». Callanach afferrò i suoi appunti dal tavolo. «Ci aspetta un lungo viaggio. Datevi una mossa».

    Tornato nel suo ufficio, gettò spazzolino, impermeabile e stivali in un borsone. Rifletté se non fosse meglio partire senza il sergente Lively, invece di sopportare il suo muso lungo nei due giorni successivi, poi cambiò idea. Meglio averci a che fare che dargliela vinta. I membri della sua squadra dovevano imparare fin dall’inizio che non tollerava la pigrizia e l’insubordinazione. Checché ne pensassero. Per almeno sei mesi avrebbero criticato ogni sua decisione, giusta o sbagliata che fosse, finché non avessero trovato un bersaglio più interessante.

    Capitolo quattro

    Si incontrarono con gli agenti del posto in una piccola stazione rurale di Braemar e raggiunsero le montagne a bordo di un quattro per quattro. Per avvicinarsi alla scena del crimine era necessario percorrere qualche tratto fuori strada e il tempo stava peggiorando. Ci volle un’altra ora per arrivare lì. La temperatura era calata drasticamente quando Callanach vide le luci e le tende della squadra investigativa. L’unica fortuna, grazie alla peculiarità del posto, era che non c’era traccia dei giornalisti.

    «Chi l’ha trovato?», domandò all’autista.

    «Una coppia di escursionisti ha visto le fiamme da una cima lontana, ma ha dovuto camminare per quindici minuti prima di riuscire a prendere la linea per telefonare. Quando i vigili del fuoco sono riusciti a localizzarla, la casa era già distrutta dal fuoco. Temo che non sia rimasto molto da vedere».

    Callanach tirò fuori la macchina fotografica. Faceva sempre le foto personalmente sulla scena del crimine. Più tardi, quelle immagini avrebbero ricoperto le pareti del suo ufficio.

    Il cottage, più un rifugio che un vero e proprio albergo, veniva lasciato aperto per gli escursionisti sorpresi da un temporale o bisognosi di riposo e consisteva di una sola stanza, con la parete di fondo scavata nella roccia. Callanach sospettava che l’edificio originario avesse almeno duecento anni. Il tetto era completamente andato, crollato a causa dell’incendio, rendendo più laborioso il lavoro della scientifica. Persino le grosse lastre di pietra del battiscopa si erano spostate a causa del calore intenso. Callanach scrutò l’orizzonte. Non era un posto in cui si capitava per caso. Chiunque vi avesse portato la donna, l’aveva scelto attentamente, assicurandosi che non si trovasse vicino ai sentieri più battuti, e dopo almeno un sopralluogo.

    «Dov’è il corpo?», chiese.

    «Hanno già raccolto le ossa, ma ne hanno contrassegnato la posizione».

    «Solo le ossa? Non ci sono altri resti?»

    «Temo di no. I tessuti molli sono stati completamente inceneriti. Non sappiamo quanto sia durato l’incendio, di preciso, ma di sicuro ore».

    Raggiunsero la porta del rifugio, ben illuminato dai proiettori portatili, e osservarono due agenti della scientifica che si muovevano con cautela tra i detriti polverosi. Era un posto triste per morire. Qualcuno gli posò una mano sulla spalla, impedendo alla sua immaginazione di entrare nei dettagli.

    «Ispettore Callanach? Sono Jonty Spurr, uno dei patologi di Aberdeenshire. Temo che qui non sia rimasto molto per voi».

    Callanach scosse la testa. «Mi hanno riferito che avete rinvenuto un capo di vestiario. Come è sopravvissuto quando tutto il resto è finito in cenere?»

    «Non è un indumento completo, solo il brandello di una sciarpa, ma la fantasia abbastanza peculiare ha permesso a uno dei nostri agenti di riconoscerlo come appartenente alla vostra persona scomparsa. È rimasto impigliato sotto un sasso e la mancanza di ossigeno l’ha protetto. L’abbiamo già inviato al laboratorio per le analisi. Pare che ci fosse un po’ di sangue».

    Callanach corrugò la fronte. «È tutto quel che avete? Dev’esserci qualcos’altro».

    «Sono le uniche carte che abbiamo, ispettore. Il fuoco è il peggior nemico di una scena del crimine. Di solito un accelerante può essere identificato abbastanza in fretta. Purtroppo, il terreno torboso in questa parte dei Cairngorm ha letteralmente gettato benzina sul fuoco. Senza, sono sicuro che l’incendio non sarebbe stato così lungo e intenso. Le ossa sono molto danneggiate».

    «Avete trovato tracce di pneumatici. Le avrà lasciate per forza».

    «Speriamo di sì, ma sono arrivati prima i vigili del fuoco e hanno devastato la scena. Non avevano idea di cosa ci fosse dentro. Domani torneremo con i cani e perlustreremo a fondo la zona, ma stasera rischiamo di non combinare niente: non c’è abbastanza luce».

    Callanach prese di nuovo la macchina fotografica e cominciò ad accumulare immagini del mucchio di detriti carbonizzati per terra.

    «È morta qui?»

    «Non posso dirlo per certo, ed essendo rimaste solo le ossa non posso nemmeno determinare una causa di morte, a meno che il cranio non mi suggerisca qualcosa. Gran parte delle ossa sono spezzate, la mascella è in frantumi. Ho l’impressione che tutto sia stato fatto per sbarazzarsi del corpo. L’assassino non voleva che restasse nulla, probabilmente sperava che non fosse identificabile», sottolineò il patologo, togliendosi i guanti di gomma e stiracchiando il collo.

    «Crede che sia stata uccisa da un’altra parte e poi portata qui?»

    «Il detective è lei. Spetta a lei scoprirlo. Se resta qui stanotte, domattina può venire in obitorio e vedere cosa abbiamo trovato».

    «Ci sarò», rispose Callanach, guardandosi intorno in cerca di Tripp. Lo sorprese a rubare un sorso di caffè dal termos del sergente Lively. «Tripp, interroghi gli escursionisti, segni la loro esatta posizione sulla mappa e l’ora in cui hanno avvistato l’incendio. Voglio sentire la chiamata che hanno fatto ai servizi di pronto intervento e dovrà recarsi nel punto in cui si trovavano per fotografare la visuale che avevano del cottage».

    Il sergente Lively lo interruppe. «Hanno già preso le dichiarazioni, quindi non capisco a che può servire».

    L’atteggiamento di chi faceva da troppo tempo quel mestiere era fastidioso, ma tutt’altro che insolito. Callanach soppresse il desiderio di rimproverarlo e si concentrò sulle questioni più urgenti da sbrigare.

    «Scoprire quante ore è durato l’incendio ci aiuterà a determinare il momento in cui l’assassino ha lasciato la scena. L’altezza e forse anche il colore delle fiamme quando gli escursionisti le hanno viste potrebbero contribuire a individuarlo, permettendoci di interrogare la gente del posto sui veicoli insoliti che hanno avvistato entro un determinato periodo di tempo».

    «Il capo è lei», borbottò Lively, senza curarsi di celare la mancanza di rispetto.

    «Dove passeremo la notte, signore?», domandò Tripp, pestando i piedi e ficcandosi le mani ancora più a fondo nelle tasche. Nonostante il suo solito entusiasmo, Tripp appariva chiaramente a disagio in mezzo alla natura selvaggia e al freddo gelido.

    «Chieda ai poliziotti del posto cosa c’è da queste parti. Ci sarà di sicuro un albergo a una distanza ragionevole. Dica a Salter che dovrà venire con me in obitorio domani mattina e voglio Barnes sulla scena finché non avrà raccolto una documentazione completa. Mandatemi un riscontro ogni due ore».

    «E se non fosse Elaine Buxton? Sarà stata una completa perdita di tempo».

    Callanach gelò Lively con lo sguardo. «Chiunque sia questa donna, sergente, è stata certamente assassinata e se possiamo contribuire alle indagini, soltanto un imbecille potrebbe considerarla una perdita di tempo. Quindi, a meno che non debba riferire qualcosa di attinente al lavoro, da questo momento in poi farà bene a tenere per sé le sue opinioni».

    Capitolo cinque

    Il telefono squillò. King osservò il numero prima di rispondere. Era un prefisso locale.

    «Dottor King», disse brusco.

    «Salve, sono Sheila Klein delle risorse umane. Mi hanno chiesto di chiamarla per sapere quando intende tornare. La politica dell’università richiede un certificato del medico curante per un permesso di malattia superiore a tre giorni consecutivi».

    Reginald King sospirò. Odiava le norme meschine e i regolamenti che lo incatenavano alla sua banale esistenza pubblica. La donna al telefono non avrebbe mai compreso che c’erano aspetti della sua vita che richiedevano più attenzione del suo lavoro sottopagato, sottovalutato e sotto le sue più misere aspettative.

    «Sono a conoscenza dei termini del mio contratto di assunzione».

    «Dunque, può dirci quando potremo vederla oppure quando potremo ricevere una conferma del suo medico?», domandò Sheila, abbassando la voce verso la fine della frase.

    King prese una chiave dalla tasca, gemendo. «Mi serve qualche altro giorno», disse. «Magari una settimana. Il virus è arrivato ai polmoni e ha scatenato la mia asma».

    «Oh, cielo, sembra terribile. Sa che abbiamo una politica della porta aperta. Chiami pure se crede di aver bisogno di qualche altro giorno di permesso. Sono certa che il dipartimento sarà comprensivo».

    La rettrice del dipartimento di Filosofia non sarebbe stata comprensiva, pensò King. Era una donna ignorante e, al pari degli altri della sua specie, non lo apprezzava. Non lo trovava interessante solo perché era un amministratore e non un accademico, perché le sue qualifiche venivano da un’università che lei aveva deciso di non riconoscere, perché non aveva fatto carriera grazie ai rapporti sociali e alla creazione di nuovi contatti. Be’, il dipartimento di Filosofia poteva pagargli lo stipendio mentre si prendeva un po’ di tempo per se stesso. La professoressa Natasha Forge, la più giovane rettrice di dipartimento dell’università di Edimburgo, senza dubbio non si sarebbe nemmeno accorta della sua assenza.

    King staccò la spina del telefono. Scese i dodici gradini fino alla cantina, accese la luce del sottoscala e fece scorrere un pannello di legno nel muro per scoprire un buco della serratura. Aprì la porta nascosta ed entrò, salì altri dodici gradini, paralleli alla prima scalinata ma nascosti dietro uno strato di intonaco, mattoni e materiale fonoassorbente. Sul retro della casa c’era uno spazio segreto, senza finestre, silenzioso, dove il tempo sembrava fermarsi. Era un luogo di bellezza. Si congratulò con se stesso per la grazia con cui l’aveva allestito, con colori pastello dal potere rilassante, musica classica in filodiffusione e stampe d’arte alle pareti. Nessuno avrebbe potuto immaginare l’esistenza di quello spazio, a meno che non avesse ispezionato la casa dentro e fuori. Era la sua isola. Recitò dei versi di John Donne mentre prendeva la chiave per l’ultima porta. Il sommo poeta aveva ragione. Non poteva essere un uomo completo, se restava solo. Per questo aveva concesso a una persona fortunata la possibilità di accompagnarlo nel suo viaggio. Appena aprì la porta, la donna sul letto cominciò a gridare.

    Elaine Buxton, di recente presunta morta, le ossa attribuite al suo cadavere già esposte su un tavolo per l’autopsia, filamenti di DNA sotto forma di codice turbinanti nel cyberspazio per la registrazione formale del suo decesso, urlò fino a perdere la voce.

    «Le gengive stanno guarendo», disse King. Le parlò con dolcezza. Era motivo d’orgoglio per lui non perdere mai la pazienza, nemmeno quando lei urlava a perdifiato. Ma non era stato così con l’altra donna. Quando l’aveva catturata, lei l’aveva graffiato, morso e preso a calci così forte che l’inguine gli aveva fatto un male d’inferno per una settimana. Per lei non era stato necessario un trattamento delicato. Non era al suo livello.

    «Peh favohe, ’asciami andahe», gemette Elaine, ricominciando a piangere. Questo lo irritò, come avrebbe infastidito qualsiasi altro uomo, ma per un po’ doveva avere pazienza. Finché lei non avrebbe imparato ad apprezzarlo.

    «Tra una settimana la tua bocca sarà guarita abbastanza da mettere la dentiera, poi inizieremo la logoterapia. Non sarà facile, ma sei una donna intelligente. Ti serve un’altra puntura di antibiotici e dovrai prendere ancora gli steroidi. Per favore, non ti opporre, sto solo cercando di accelerare il processo di guarigione».

    Elaine cominciò a tremare, anche se il movimento non ebbe il minimo impatto sulle cavigliere di metallo e le manette legate al letto da corte catene. King estrasse due siringhe. La toccava con rispetto e non le avrebbe mai fatto del male, se non fosse stato necessario. Lei non lo capiva ancora e ovviamente credeva di poter ricevere da un momento all’altro lo stesso trattamento della donna che lui aveva usato per depistare le indagini. Purtroppo aveva dovuto ucciderla davanti a lei, ma faceva parte del processo educativo. Elaine doveva capire che poteva essere severo. A ogni allievo bisognava mostrare il bastone e offrire la carota. Sapere che l’insegnante non avrebbe tollerato una mancanza di rispetto era un potente incentivo.

    Strofinò il braccio di Elaine con la mano pallida e morbida. Lei rabbrividì al contatto ma non gli chiese di smettere. Forse stava già imparando, pensò. L’aveva scelta per questo. Per mesi l’aveva osservata, in attesa, consumando i giorni e le notti nell’ombra. L’aveva studiata. Uno studio attento e svolto con il massimo impegno – non la brutta imitazione che le università accettavano al giorno d’oggi – aveva dato i suoi

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