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Marte contro Venere: Storie vere e altre complicazioni dall'Universo Rosi
Marte contro Venere: Storie vere e altre complicazioni dall'Universo Rosi
Marte contro Venere: Storie vere e altre complicazioni dall'Universo Rosi
E-book204 pagine3 ore

Marte contro Venere: Storie vere e altre complicazioni dall'Universo Rosi

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Info su questo ebook

Federica allarga il letto, Penelope è la donna di scorta, Gina è single per legittima difesa, Stefania soffre di maschiofilia, Angelina s’innamora di uno stronzo, Giulia è Giulia e basta, Ludovica è l’amante del prete, Elena sa già che le farà male ma le piace tanto, Francesca attende un bacio, Rosi affronta la crisi del suo matrimonio. Dieci donne raccontano in prima persona l’esperienza del loro desiderio, mettendo a nudo la propria anima. Dieci storie autobiografiche, vere, oneste.
Poi ci sono loro, gli uomini. Giulio, che apre gli occhi su quel letto; Gabriel, che le ama entrambe; Giorgio, che si dà un tanto al kilo; e Lucio, Cesare, il papà di Giulia (il papà e basta), James, Max, Paolo, Clark Kent.
Ognuno guarda la realtà secondo la propria visuale. La donna con l’occhio destro, l’uomo con l’occhio sinistro, o viceversa. Poco importa, quando si parla d’amore bisogna usare tutti e due gli occhi, perché una risposta universale non c’è. Perché di fronte a una serratura, ciò che interessa è solo riuscire a trovare la chiave che la apre.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2015
ISBN9788868992132
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    Anteprima del libro

    Marte contro Venere - Rosalba Corti

    1

    Fede: il letto allargato

    Mi chiamo Federica. Fede.

    Sono una quarantenne di provincia, quella provincia che ti si attacca e fatichi a scrollartela di dosso. Sono sempre stata legata alle tradizioni: sposata a vent’anni con il bravo ragazzo, diploma appeso al muro, il cane, il giardino e due bei bambini. Un maschio e una femmina. Un classico.

    Con gli anni è cresciuta in me l’illusione di aver capito tutto. Invece.

    Da sveglia sono una bugiarda, bravissima a nascondere i miei dubbi e le mie fragilità, le mie debolezze e i miei errori. Una campionessa. Li ho sempre fregati tutti. Mio marito, il mio cane, i miei figli. Mia madre, anche.

    Ora che sono qui, stesa sopra un letto con un drenaggio a destra e i punti che mi tirano, sono sola. Non ho più nessuno. Mi sono rimaste solo le mie bugie.

    Sono in ospedale da un tempo impreciso, dalla finestra della mia camera il cielo ricorrente di novembre ha diverse sfumature sul triste. Una poltroncina di velluto marrone all’angolo della stanza, un tavolino bianco.

    Gli alberi si stanno spogliando insofferenti al vento che soffia, i colori sono quelli di un autunno che stenta a non voler diventare inverno. Distratti. Violenti. Implacabili anche sulla mia pelle, come a voler rivelare i segni di un tempo che ha lasciato un marchio speciale.

    La porta si apre e si chiude e una donna esile mi chiede se ho dormito con un occhio solo. È l’infermiera che mi porta del tè, lo versa in un bicchiere di plastica, mi chiede: «Signora non ha una tazza sua?»

    Faccio no col capo. No, non ho una tazza mia, non ho più niente di mio, ho perso tutto ieri. Dopo l’operazione. Mentre, smaltendo l’anestesia, confessavo i miei peccati.

    Io che ho sempre avuto l’aria di una che tergiversa prima di uscire dall’ascensore, prima di scendere dalla macchina, prima di fare qualsiasi cosa, sono stata decisa come un pompiere.

    Eppure non era la prima volta che finivo dietro la lavagna. Quand’ero un’allieva così così, mi era già capitato che la maestra mi dicesse: «Fede, non hai fatto i compiti?», ma in quel caso trovavo sempre alibi e scuse per non confessare l’evidenza.

    Ora no. Mentre ero in stand-by con me stessa, ho fatto delle confidenze intime al mondo. E ho detto tutto. Ho rivelato tutta quella che sono. Senza fare sconti. D’altra parte, non era tempo di saldi.

    E così, mentre ero in preda a un mix di pentotal-cloroformio e barbiturici, tutto quello che ho detto mi ha fatto accomodare dalla parte sbagliata.

    E non ho più scuse. E non posso riparare.

    E non ho svelato solo un tradimento. Ho raccontato di Leo e di Kay.

    Sei ore di peccati sciorinati in questo letto all’uomo che credeva di essere l’unico uomo della mia vita. Ho ammesso tutto quello che nessuno mi aveva mai chiesto di ammettere. Ho fatto la mia dichiarazione di moglie incapace di essere fedele, e ho rivelato il peggio di me, mentre ai suoi occhi il mio meglio se n’è andato via in un istante. Sciolto nel liquido che mi hanno iniettato. Per sempre e senza possibilità di appello.

    «Scusi infermiera, sa dirmi qualcosa, cosa sta blaterando?» ripeteva lui.

    «Sta smaltendo l’anestesia: delira, succede», ha risposto gentilmente ma leggermente imbarazzata la donna bianca e livida in volto.

    Ma io non deliravo.

    Mi sono seduta dalla parte sbagliata e ho cominciato a raccontare di quella volta che Leo mi ha messo la mano sulla coscia dentro la sua macchina, con quei sedili in pelle dove mi si appiccicava il sedere e il cruscotto in radica che gli ho lasciato pure il segno del tacco, con quella musica che ci girava intorno ad alto volume, e di come urlava le sue canzoni preferite, sopra le note di quella cantante alla moda, senza vergognarsi mai.

    E di come non m’imbarazzavo io, a stare lì, con la voglia di aprirmi a lui, e di come mi era piaciuto quell’uomo magro con il viso scavato e pieno di vitalità, di come ero pazza dei suoi baci, della sua lingua dentro le mie orecchie e di come il mio ansimare si fondeva con il suo.

    Ho raccontato tutto nei minimi dettagli, anche di come i vetri si appannavano dei nostri umori, dei nostri fiati, mentre con la mano li pulivamo per guardare le stelle. E di come non mi ero pentita, tornando a casa.

    Perché sentirsi il sogno di quell’uomo significava che ne era valsa la pena fermarsi lì, in un soffio, dentro quella macchina. A farsi segni, a perdere ogni senso del pudore. Come una ragazzina in camporella, felice per aver visto le stelle mentre facevo l’amore.

    E come, per una volta, non mi ero sentita un appoggio per qualcuno che poi poteva volare via.

    Continuando nella mia alterazione mentale, ricordavo dettagli rilevanti, come il fatto che ero contenta di tradire, anche se avevo più volte rinfacciato a Leo di cercarmi solo per fare sesso, o che quei tentativi di carezze che cercavo di dare a mio marito, colui che mi stava ascoltando, spesso si erano infranti prima che le mani potessero arrivare a destinazione. Perché in fondo non mi aveva mai voluto, ero solo lì, con lui, nonostante tutto. Comoda, nel nostro letto.

    Sotto l’effetto dei sonniferi mi sono sentita in rivolta, desiderosa di insorgere. Come se fossi stata tra le grinfie della santa inquisizione. Un Giordano Bruno in gonnella. Eppure, nessuno mi aveva messo alla gogna. E non mi sono sentita sciocca, defraudata dai ricordi o impoverita rivelando tutto.

    Mi sono sentita come una che voleva fare un rendiconto della propria vita. E senza repliche alcune, scaricare una carriola di bugie.

    E ancora, aggiungevo sorpresa alle rivelazioni, e dicevo di come avrei voluto imparare a convivere con i miei peccati e, all’occorrenza, saperne fare a meno.

    Ho confessato poi a mio marito tutta la mia inadeguatezza di moglie. Ho detto a lui che l’avevo sposato per tutto quello che non era.

    Non era cattivo né prepotente, non era maleducato né stupido, non era brutto né in carriera, non era sempre in blu con la cravatta regimental e due cellulari in tasca.

    Ma che non avevo preso in considerazione tutto il resto che non era: allegro, dolce, giocoso, non sapeva farmi ridere, ballare, godere.

    E gli ho detto che sentivo casa nostra casa di altri, che girovagavo come in un paese straniero senza conoscerne la lingua, che mi sentivo soffocata, che non mi ero mai inserita fra quelle suppellettili, fra quelle piante tropicali curate da lui. Spiegavo, con dovizia di particolari, che quando accoglievo le madri gli amichetti dei miei figli sentire tutte quelle storie mi faceva scendere il latte alle ginocchia, e allora cercavo di eclissarmi da quell’ambiente per me innaturale. Non sono mai stata brava a fare la madre. Figuriamoci la moglie.

    Fuggivo, andavo a cercare gratificazione altrove. Cercavo aria di vita. E con Leo mi ero sentita subito disinibita e pronta.

    Leo faceva l’assicuratore ma sotto mentite spoglie. In realtà era una canaglia, avrebbe potuto benissimo pilotare un aereo, sempre tra le nuvole. Con lui ho preso quota subito.

    Mi ero dovuta recare nel suo ufficio per una firma. Io che mi muovevo benissimo online, ero stata costretta ad andare da lui perché mi avevano incendiato il motorino.

    Dapprima l’ho anche odiato. Sto stronzo, non ha nemmeno voglia di alzare il culo dalla sedia, ho pensato.

    Poi, mentre accavallavo le gambe seduta alla sua scrivania, ho provato la voglia di averlo dentro. Un caldo inspiegabile mi saliva su per il collo, sentivo i miei seni chiamare aiuto. Con uno sguardo, mi aveva fatto ritrovare la femminilità. In quel preciso istante non ero più una mucca che girava per casa col tiralatte, ma una donna che poteva ritrovare l’energia vitale di uno slancio.

    E ho osato. Ho provato a cercare in lui tutto quello che non era mio marito.

    Non ha chiesto nulla di me, e questo mi piaceva, con lui mi veniva la voglia di mandare sangue al corpo e al cuore, e basta. Mentre con Giulio, il mio legittimo consorte, ho sempre aspettato qualcosa che non è mai arrivato. Spedivo messaggi a valanga senza avere mai indietro una risposta, sempre troppo preso, troppo assente, troppo impegnato in qualcos’altro che non ero io.

    Il sesso con Leo non era solo l’entusiasmo della novità, era giocoso, e provavo un piacere così intenso da impazzire di gioia mentre il mio corpo accoglieva il suo. Sentire il suo godimento era poesia per me, la sua carica erotica mi faceva pensare che potesse esserci il paradiso dietro l’angolo, da qualche parte, sopra una scrivania. Comunicavamo col sesso, non ci siamo mai posti obiettivi futuri, fatti voli pindarici, scambiati promesse o garanzie. Ci bastava bastarci.

    Ci siamo nascosti dietro a un portone, una volta. Lui ha cominciato a slacciarsi la cerniera dei pantaloni, io, in previsione di una sua sorpresa, non mi ero messa gli slip. In un attimo mi fu dentro, eccitata e senza la volontà di resistergli.

    In lui vedevo immagini di noi chiare e veloci. Senza perdere tempo una volta abbiamo fatto l’amore dentro una cantina di un amico comune, eravamo scesi per scegliere il vino, e lì tra il profumo del mosto e l’umidità della ghiaia a terra, ho goduto come non mai. Il mio bacino assecondava i suoi movimenti aggressivi e la sua carica erotica mi procurava piaceri a raffica.

    Il tempo con lui sembrava fatto di un’altra sostanza, gli istanti rari mai troppi. Accoglievo l’estasi e, quando finiva, mi sentivo tutta ammaccata e aspettavo con ansia l’incontro successivo. Due incoscienti.

    Difficile trovare una testa come la sua. Ho trovato in lui la stessa nostalgia che ho per il mare.

    Quando ci vedevamo, sentivo tremare la terra sotto i piedi perché indovinava i miei desideri prima ancora che li esprimessi nella testa, uno scambio di doni il nostro, esaltante e appagante. E cosa succedeva dopo era solo un’estensione del mio desiderio per lui, fuori di testa quando era dentro di me, curvo a percuotermi, e il suo glande che toccava il punto più profondo del mio piacere. E poi il nulla.

    Quello che potevano essere due persone nate per fare l’amore insieme noi lo eravamo, anche se solo a tratti, a intermittenza. Perché era solo così che poteva prosperare la nostra storia, secondo lui. E questo per evitare che la magia se ne andasse a quel paese, dentro i contesti normali dell’abitudine. Ma la mia impazienza ha rovinato tutto.

    Io non sopportavo la sua resistenza a starmi distante per giorni e mi chiedevo: come fa a starmi lontana? E quest’amore a puntate, o come lo si voglia chiamare, io l’ho buttato via per le mie sollecitazioni, per la mia ossessività.

    Così si è innamorato di una che è salita sul sellino della sua bicicletta e non c’è scesa più. Non si è innamorato di me. Tutto qui.

    È finito tutto un pomeriggio di sole, sotto una coltre di neve sul mio cuore, che mortificava i sensi e ogni possibile spiegazione con il suo gelo. Ero davanti a lui, a distanza di sicurezza di una coltellata, ma mi sono sentita la lama infilata nel cuore, e lui lì, con quelle sue pause sofferte e quella piega mai vista prima all’angolo della bocca, a dirmi: mi sono innamorato di una…

    E dopo basta.

    Per sapere cosa, chi, perché? A che serviva?

    In fondo cos’è questa se non la colonna sonora di ogni donna?

    E lì non ho pensato a cosa si prova quando si precede a un fallimento, a cosa avrei potuto fare per evitare il crollo. Ho pensato a che occhi aveva incontrato, e perché mai si era innamorato dei suoi e non dei miei.

    E che ero nella merda. Perché se quell’uomo aveva il potere di decidere il mio umore, ero nella merda. Lo sbaglio l’avevo fatto io, spacciando uno che mi poteva provocare orgasmi a raffica nell’unica ragione per svegliarmi alla mattina.

    Ma cos’era, cos’era quell’uomo su di me, solo io lo posso sapere.

    Mi circolava nelle vene insieme al sangue, mi occupava il cervello come un unico, inconcepibile pensiero, m’invadeva anima e organi tutti. Non c’era via d’uscita con lui. E sono stata male come può stare male una donna innamorata. Delusa, spaccata a metà, amputata.

    In una pigra giornata di maggio, si è consumata una scena che poteva sembrare dipinta. Le sue mani magre dietro la nuca, lui seduto di fronte a me a raccontarmi con gli occhi la meraviglia del suo nuovo amore. La differenza tra un amore mediocre e un amore grande sta tutto nel tono della voce, nel tremore di una mano e negli occhi accesi di chi lo racconta. Voleva nascondermi le nuvole, ma non c’è riuscito. Troppo l’entusiasmo.

    E io lì, interrotta.

    È sempre così. Se hai cuore, sarà il tuo corpo a pagare. Ma la mia mente, il mio cuore, la mia anima e il mio corpo sono indivisibili, uniti. Lo sono sempre stati per me, legati fra loro con un nodo da marinaio, la gassa d’amante, appunto.

    E non si capisce perché non avrei dovuto affrontare questa sfera subliminale del delirio lancinante anch’io. Quindi, vai col dolore. Forte, tanto forte, quello che mi spettava, quello che ti fa precipitare.

    Pensavo di essere il suo portafortuna, invece. Che ne potevano sapere gli altri di come mi scoppiava nel cuore, quell’uomo?

    Le cose cambiano, inevitabilmente. E lo sapevo. Si sa. Lo sanno tutti che certi amori non durano, solo che fa un po’ meno paura fingere che non sia così. Fa meno paura andare avanti lo stesso, trascinandosi dietro ogni cosa, anche un po’ alla rinfusa. E fa meno paura che tutto resti, che niente finisca. Ma è finita.

    Avrei dovuto saperlo nel momento stesso che non aveva notato il colore dei miei occhi, ma solo il mio sedere buono per farlo godere, che non era adatto a me, che non mi dovevo accontentare.

    Eppure me lo aveva detto: «Non innamorarti di me, siamo solo un uomo e una donna dentro a una stanza.» Più chiaro di così.

    E allora auguri amore, buona fortuna.

    Mesi dopo ancora ero lì con la testa. Rivedevo la scena: se almeno si fosse girato, avrei potuto lasciare i ricordi appiccati lì, sui miei occhi. Invece. Accarezzandomi mi aveva tradita. Bravo.

    Mi aveva visto con un libro in mano. Mi aveva visto piangere per la fine di un film. Del nostro film. Lasciandomi lì, inerme, a spiegare al pubblico che non si poteva avere un altro finale, o un finale aperto.

    Aveva visto tutto di me. E adesso, se lo incontravo per caso, pensava di cavarsela con un scusa non ti avevo visto? No, lui mi ha visto bene, mi ha visto più di tutti. Come ha fatto a dimenticare? I miei occhi, la mia vita? Eppure l’ha fatto.

    Mai fidarsi di chi ti fa il cuore a coriandoli e poi ti promette di esserci sempre, per te.

    Mi volevo ritagliare un posto tutto mio, un angolino tranquillo per riordinare i pensieri e recuperare le forze, ma le faccende di casa non me l’hanno permesso, e ho soffocato le lacrime, le ho mandate giù fino a strozzarmi, perché non volevo finisse così presto.

    Non sapevo nemmeno di averle tutte quelle lacrime e l’imbrogliona che c’è in me ha fatto di tutto per nascondere anche quelle.

    Innamorata

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