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Eudocia: L’ultima legittima erede al trono dell’Impero Romano
Eudocia: L’ultima legittima erede al trono dell’Impero Romano
Eudocia: L’ultima legittima erede al trono dell’Impero Romano
E-book114 pagine1 ora

Eudocia: L’ultima legittima erede al trono dell’Impero Romano

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Mille sono le figure che hanno plasmato la storia dell’Impero Romano, la più grande potenza del mondo antico. Ma non tutte sono state portate dalla narrazione storica con una evidenza adeguata al loro fascino. Tra esse si può senza dubbio annoverare Eudocia, donna colta, sensibile e indipendente, figlia dell’imperatore Valentiniano iii e dell’augusta Licinia Eudossia.
Nel tempo turbolento in cui la gloria di Roma conosceva il proprio declino sotto i colpi delle popolazioni barbariche, Eudocia, che riuniva in sé le discendenze dinastiche sia dell’impero d’Oriente che dell’impero d’Occidente, incarnò un alto valore di dignità e di ingegno. Quando l’esercizio del potere era prerogativa strettamente maschile, ella restò salda nella propria femminile raffinatezza di sentimento e mai abdicò alla propria libertà di spirito.
Se infatti la nobiltà del suo sangue, per lei più una maledizione che una grazia, la espose alle mire di uomini insensibili e assetati di potere, seppe sempre dimostrarsi un esempio di integrità e di fedeltà alle proprie convinzioni. I conquistatori poterono arrivare al trono di Augusto, ma non a quello del suo cuore.
Mescolando narrazione storica e suggestione letteraria, Clemente La Marca ripercorre gli anni che portarono alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente attraverso i ritratti dei personaggi che intorno a Eudocia ruotarono. Ma la vicenda dell’imperatrice è anche lo spunto brillante per una più ampia e profonda riflessione sulle radici del potere e sulle conseguenze contemporanee di un suo improprio uso.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2020
ISBN9788832927030
Eudocia: L’ultima legittima erede al trono dell’Impero Romano

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    Anteprima del libro

    Eudocia - Clemente La Marca

    Appendice

    Introduzione

    Fin da quando studiavo la storia a scuola, ho sempre fatto il tifo per i Romani. Da ragazzino delle elementari, mi esaltavo per le loro vittorie militari, mi stupivo per i loro grandi conseguimenti politici, e mi deprimevo per le pagine più tristi della loro parabola.

    Questo entusiasmo, che oserei quasi definire patriottico e che non è affatto venuto meno quando sono diventato adulto, non mi ha mai fatto accettare con serenità la caduta dell’impero. Tuttora nella mia mente ci sono una data che echeggia in maniera sinistra, il quattro settembre 476, un nome esecrabile, Odoacre, e il ricordo repellente di alcuni popoli barbari, Ostrogoti e Vandali, impressi nella mia testa come selvaggi invasori.

    Ognuna di queste parole produce in me un’assonanza di acredine, di livore, di disgusto. Ma dovendomi in qualche modo fare una ragione di fatti storici irrimediabili, ho trovato opportuno scrivere questo libro per spiegare le vere cause della caduta dell’Impero Romano.

    In questa vicenda spiccano coinvolgenti figure femminili che si inseriscono nella vita dell’imperatore Valentiniano III, l’ultimo imperatore dinastico romano, e la struggente storia d’amore di sua figlia Eudocia.

    Ma questo excursus storico, interpretato in una chiave più moderna, non rimane fine a se stesso: dal fare tesoro del passato, infatti, emergono riflessioni sull’applicazione del potere, e considerazioni su quali siano le reali proposte affinché essa sia, per il bene di tutti, trasparente, e preservi l’uguaglianza e i diritti di ogni individuo.

    Clemente La Marca

    1

    Elia Eudocia, suocera di Valentiniano, e Pulcheria, zia di Valentiniano

    Alla mia carissima Atenaide, ordino che vengano assegnate cento monete d’oro. Per cavarsela nella vita le basterà la sua bellezza, superiore a quella di ogni altra donna.

    Ma come, non è possibile! Non ci credo, voi non potete farmi questo!

    È proprio così, invece. Tu non hai bisogno di ingenti somme di denaro, né di beni materiali. La tua dote è insita nella tua persona. Con la tua bellezza, la tua intelligenza e la tua eloquenza, non avrai rivali. Ovunque sarai ammirata e stimata. Accetta quindi di buon grado la tua eredità come è stata stabilita da nostro padre, e vedrai che la tua vita sarà ondante, e come le onde del mare ti innalzerai sempre di più raggiungendo mete bramate e ambite.

    Da qualche parte nella periferia di Atene, nell’anno 418, dopo tre giorni di lutto venne letto il testamento del filosofo sofista Leonzio. Di fronte al notaio, erano presenti i tre figli del filosofo: il primogenito Valerio, il secondogenito Gessio e la diciassettenne Atenaide.

    I dubbi dell’esitante quanto attraente fanciulla erano tutt’altro che infondati, perché suo padre, appunto, era stato un filosofo sofista e in quanto tale aveva dato la giusta importanza al denaro: come gli altri della sua scuola, era stato un maestro di virtù che si era fatto pagare per i propri insegnamenti, riscuotendo successo soprattutto presso i ceti altolocati.

    La figura del sofista, cioè colui che si guadagnava da vivere vendendo il proprio sapere, si poneva come precursore dell’educatore.

    Leonzio era stato un ammiratore di Aristippo, prima che egli incontrasse Socrate e si unisse a lui. A questo proposito si racconta un aneddoto: protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno. Questi, contestando il prezzo troppo alto della retta annuale, avrebbe detto al sapiente: Mille dracme? Ma io con mille dracme ci compro uno schiavo, e Aristippo avrebbe risposto: E tu compralo questo schiavo, così ne avrai due in casa, quello e tuo figlio.

    Un padre simile non avrebbe mai diseredato la sua unica figlia, a cui aveva dedicato tutte le sue attenzioni e rivolto tutti i suoi insegnamenti.

    Il testamento, infatti, era solo in apparenza olografo; in realtà, osservato scrupolosamente da occhi più esperti, sarebbe senza dubbio risultato non scritto interamente dal pugno del testatore.

    La perdita di una persona cara è un momento doloroso nella vita di ciascuno, ma spesso questo dolore non impedisce di colpire anche i propri famigliari più stretti con mendaci dichiarazioni, ed ecco che, oggi come allora, assistiamo pure alla comparsa di testamenti di dubbia provenienza.

    Purtroppo per l’avvenente Atenaide, anche di fronte alle sue rimostranze il giudice dette ragione ai fratelli: troppo intenso e radicato era il loro potere locale, e i documenti ben presentati. A questo punto, tutto faceva credere che sarebbero stati loro quelli destinati a impossessarsi dell’immensa fortuna di Leonzio, e che nell’orizzonte della ragazza non sarebbe potuto esistere altro che la triste rassegnazione.

    Ma il destino, si sa, ha molta più fantasia di noi. E Atenaide non era solo bella, ma anche intelligente, colta, saggia, e soprattutto era una donna, e quindi affatto incline alla resa.

    Atenaide aveva una zia, la sorella del defunto padre, che viveva a Costantinopoli alla corte dell’imperatore Teodosio II. Se era vero che nel limitato contesto politico di Atene i suoi fratelli erano difficilmente attaccabili, la città faceva pur sempre parte del più grande Impero Romano d’Oriente, governato da relazioni assai più forti di quelle esistenti localmente in un territorio di provincia. Coraggiosamente, allora, la leggiadra fanciulla decise di recarsi da quella zia per avere da lei conforto e appoggio. Insieme avrebbero chiesto giustizia all’imperatore.

    Per la precisione, la zia era quella che possiamo definire una dama di corte alle dipendenze di Pulcheria, sorella maggiore di Teodosio II: fra loro esisteva un rapporto stretto e genuino.

    Teodosio II era figlio dell’imperatore Arcadio e di Elia Eudossia. Arcadio morì nel 408, e a Teodosio sarebbe toccato succedergli quando era solo un bambino, dal momento che aveva appena sette anni. Dal momento che ciò non era possibile, a Teodosio fu affidato un tutore, Antioco, e la reggenza imperiale fu data in mano a Artemio. Fu nel 414 che Pulcheria, proclamata augusta, ovvero fregiata del titolo di imperatrice, reclamò il proprio potere: allontanò Artemio, assumendosi personalmente le responsabilità del governo, e liquidò Antioco, affermando che da allora in poi lei stessa si sarebbe occupata dell’educazione del fratello e della sua preparazione alla salita al soglio imperiale. Prese questi incarichi con estrema serietà. Nel 416, Teodosio II raggiunse i quindici anni di età e fu dichiarato maggiorenne; tuttavia Pulcheria non gli cedette il potere, ma mantenne ancora per parecchio tempo le redini del governo, lasciando al più che il fratello la affiancasse per poter maturare delle esperienze importanti.

    Si impegnò con grande attenzione a rendere Teodosio il migliore dei principi. Radunò alla corte imperiale i più bravi maestri dell’epoca, perché il fratello ricevesse da essi lezioni di ippica, di combattimento e di lettere; gli insegnò a essere raffinato nelle maniere, a muoversi con una postura sempre adeguata al suo rango e ad avere gesti e comportamenti eleganti e virili; a trattenere le espressioni troppo ilari e troppo contrite, e a non esibire in maniera eccessiva le emozioni; e poi ad assumere un aspetto mite o temibile in base alle differenti occasioni, e a indagare con gentilezza e con meticolosità i casi che continuamente gli sarebbero stati presentati.

    Ebbe cura che Teodosio imparasse a rispettare l’importanza del culto e pregasse spesso: lo istruì a frequentare con regolarità le funzioni religiose, e a elargire alle case di preghiera opportune sovvenzioni. Il contrasto agli eretici fu un suo pensiero costante, e si prodigò perché il fratello, una volta sul trono, si impegnasse su quella stessa strada con zelo.

    Pulcheria fu infatti una cristiana devota, e per il suo ascetismo decise di rinunciare perfino al matrimonio, nonostante fosse una donna non solo colta e potente, ma anche attraente, consacrando la sua verginità al Signore. Quando nel 450, alla morte di suo fratello, la ragione di stato la costrinse a desistere dal voto di nubilato, giacché si trovò in gioco la sopravvivenza stessa dell’impero, andò in sposa al tribuno Marciano, fu tuttavia irremovibile sul fatto che egli avrebbe dovuto assolutamente rispettare la sua verginità, cosa che in effetti accadde. Pulcheria morì tre anni dopo quel tormentato matrimonio. Ma la sua figura non fu dimenticata: sia la Chiesa cattolica, sia la Chiesa ortodossa, riconobbero nella sua condotta i tratti della santità e la canonizzarono.

    Immaginiamoci il momento in cui Pulcheria si trovò di fronte a Atenaide, che sommessamente le raccontò le

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