Efesini
Di Marti Gruter
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La dinamica del racconto si dipana seguendo le fantasiose vicende di cui è protagonista Tichico, ragazzo di Efeso discepolo devoto ed entusiasta. Viaggi, personaggi e aneddoti vari, spingono a simpatizzare per questo giovane, fino a condividerne l’amore per l’Apostolo. Fino ad immaginare che cosa c’è dietro le ardite architetture teologico letterarie, spesso davvero misteriose, di un uomo che ha dimostrato con la propria vita l’onnipotenza di Dio. Un lottatore instancabile, arguto, generoso in un mondo che a ben vedere, non è affatto diverso da quello di oggi.
Attraverso una vera e propria “intervista” fatta di domande che tutti noi avremmo voluto porgli, il discepolo offre un excursus sulla religiosità intensa e feconda del Cristianesimo nascente, che costringe al confronto con l’indifferenza benestante dei nostri tempi ed esorta a non accomodarsi aspettando l’esito di un destino preconfezionato, ma ad alzarsi e correre verso l’autodeterminazione del pensiero, che è libertà vera.
Il racconto si chiude con l’esegesi della famosa Lettera agli Efesini, il cui autore molti studiosi assicurano non essere San Paolo, ma piuttosto un qualche discepolo, sulla scorta di appunti vergati e affidatigli dall’Apostolo stesso, e nel ricordo indelebile di predicazioni ascoltate di persona. Malgrado la sua approssimazione dottrinale, quest’ultimo affettuoso impulso è dedicato alla divulgazione immediata e chissà, a stimolare la curiosità e il desiderio di approfondire.
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Efesini - Marti Gruter
GRUTER
PREMESSA DELL'AUTORE e SINOSSI
La figura di Paolo di Tarso è piuttosto controversa per i credenti e per i non credenti. Entrambi gli rimproverano di essere antipatico e spesso incomprensibile. Pochi lo amano davvero e tra questi, sorprendentemente, Martin Lutero. Ecco dunque, l’opportunità di rimediare a una situazione sbilanciata e l’idea di togliere Paolo di Tarso dall'isolamento nelle mani degli specialisti, per riproporlo, non tanto come il più grande teologo del Cristianesimo, quanto piuttosto nella sua sconosciuta umanità. Un proposito non sospinto da evidenze storiche oggettive, ma dall'immaginazione, nella piena consapevolezza che la mia ammirazione è tanto arbitraria e soggettiva, almeno quanto la diffusa ripulsa.
La dinamica del racconto si dipana seguendo le fantasiose vicende di cui è protagonista Tichico, ragazzo di Efeso discepolo devoto ed entusiasta. Viaggi, personaggi e aneddoti vari, spingono a simpatizzare per questo giovane, fino a condividerne l’amore per l’Apostolo. Fino ad immaginare che cosa c’è dietro le ardite architetture teologico letterarie, spesso davvero misteriose, di un uomo che ha dimostrato con la propria vita l’onnipotenza di Dio. Un lottatore instancabile, arguto, generoso in un mondo che a ben vedere, non è affatto diverso da quello di oggi.
Attraverso una vera e propria intervista
fatta di domande che tutti noi avremmo voluto porgli, il discepolo offre un excursus sulla religiosità intensa e feconda del Cristianesimo nascente, che costringe al confronto con l’indifferenza benestante dei nostri tempi ed esorta a non accomodarsi aspettando l’esito di un destino preconfezionato, ma ad alzarsi e correre verso l’autodeterminazione del pensiero, che è libertà vera.
Il racconto si chiude con l’esegesi della famosa Lettera agli Efesini, il cui autore molti studiosi assicurano non essere San Paolo, ma piuttosto un qualche discepolo, sulla scorta di appunti vergati e affidatigli dall'Apostolo stesso, e nel ricordo indelebile di predicazioni ascoltate di persona. Malgrado la sua approssimazione dottrinale, quest’ultimo affettuoso impulso è dedicato alla divulgazione immediata e chissà, a stimolare la curiosità e il desiderio di approfondire.
PROPLOGO
Dopo aver perso la maggior parte del tempo a preoccuparmi di cibo, malattie e freddo, solo ora, finalmente, l’unico desiderio è percepire il Senso di ogni cosa e dedicargli tutto il mio essere. Non ho testimoniato eroicamente la mia fede e tanto meno ho subito violenze e atrocità come è successo a molti fratelli ed io, Tichico di Efeso, voglio offrire almeno questo racconto, quale segno del mio passaggio nella vita terrena.
CAPITOLO PRIMO: l’impatto.
Quando Paolo se ne andò da Efeso, avevo solo diciassette anni. Allora, la mia famiglia era numerosa e tutto sommato benestante. Mamma aveva dei parenti che possedevano vaste terre coltivate a settentrione ed il nonno aveva fatto in modo che non ci mancasse un sostentamento adeguato. La nostra casa era a ridosso della rocca e proveniva invece dalla famiglia di papà. Era trasandata ma abbastanza grande per sei ragazzini, i genitori e due domestiche. Dopo il fallimento della sua tessitura, papà aveva rimediato la cattedra di geometria, proprio nel ginnasio dove io frequentavo l’ultimo anno.
Da qualche tempo, la mia scuola era diventata il punto più importante e chiacchierato della città. Due anni prima, Tiranno, proprietario dell’edificio e venerando preside, aveva sorprendentemente ospitato un gruppo di straccioni ebrei provenienti da Corinto. C’era chi insinuava che il vecchio si fosse ormai rimbambito, lasciandosi incantare a dispetto del suo stile di vita severo e riservato. Altri sostenevano che la simpatia per quella gente rivelasse la struggente nostalgia per la sua compagna ebrea di Tarso, Devora, morta prematuramente tanti anni prima.
Sta di fatto che il gruppo non solo dormiva nella scuola, ma nei pomeriggi senza lezioni e fino a tarda sera, gestiva un centro permanente di pubbliche conversazioni, per raccontare la storia e gli insegnamenti di un certo loro straordinario sacerdote.
Di solito, passeggiavo con gli amici intorno alla scuola nei pomeriggi assolati e noiosi. Più di una volta eravamo entrati per curiosità, badando bene a non farci coinvolgere in quelle fantastiche narrazioni. Avevamo visto nascere il fenomeno ed anche per noi cresceva l’interesse, non foss’altro per la sfilata di personalità che venivano ad ascoltare la vulcanica oratoria di Paolo, capo del gruppo.
Parlava senza stancarsi e senza stancare. La sua voce profonda e virile si udiva anche da lontano e lo sguardo penetrante, ornato da gesti misurati ed eleganti, catturava l’attenzione di uomini e donne, giovani ed anziani, ricchi e poveri. Il suo entusiasmo senza incertezze era contagioso, il calore umano irresistibile. Ricordo ancora l’espressione assorta della gente, quando usciva dal cortile alla fine delle conferenze. La bocca chiusa in un sorriso impercettibile e gli occhi bassi, quasi a trattenere e prolungare la sensazione di vuoti colmati e di oscurità finalmente illuminate.
Oltre che un passatempo, per noi ragazzi passare discretamente tra il pubblico, offrendo cedrata fresca d’estate e vino caldo speziato d’inverno, era diventato un affare. Senza essere sollecitata ed anche senza assaggiare le bevande, la gente lasciava offerte fin troppo consistenti.
L’idea era stata nostra ma ci eravamo subito resi conto che gli incassi erano sproporzionati. Fu così che una sera ci trovammo in tre davanti a Paolo e ad un certo Tito, con il nostro sacchetto di monete. Intimiditi ma consapevoli di fare la cosa più giusta, riferimmo le nostre intenzioni.
Bastò un lampo nello sguardo di Paolo per provocarmi un tuffo al cuore e probabilmente arrossii.
I piccoli occhi scuri e incavati ci passarono in rassegna, incuranti dell’imbarazzante silenzio seguito a quel rendiconto sbrigativo.
Da vicino era diverso, più basso e se possibile, più affascinante: la pelle liscia e pulita, gli zigomi alti e ossuti, la fronte senza limiti e quel naso sporgente ma sottile.
La barba si aprì in un largo rassicurante sorriso e rivolto al giovanotto che gli stava accanto disse con voce calda:
Guarda Tito, questi ragazzi… sono un segno della Grazia del Signore nostro Gesù Cristo…
E a noi, che allora non sapevamo a chi mai si riferisse:
Come vi chiamate, meravigliosi giovani di Efeso?
Tito si occupò più tardi dei dettagli dell’accordo e ci riconobbe un premio più che soddisfacente per la raccolta, a patto di mantenere pulite le latrine dietro l’edificio.
A pensarci adesso, non era affatto strano che Paolo facesse breccia nei cuori efesini, colti e generalmente ben pasciuti. Il terreno era fertile, non certo per miseria materiale, ma per quella altrettanto insopportabile dello spirito, quando è disorientato dal benessere. Artemide era ridotta a una questione commerciale. I suoi stessi connotati, originariamente legati alla fertilità ed in genere all'amore carnale, erano diventati un richiamo per frotte di pellegrini voluttuosi, il superbo tempio, un ricordino cesellato in oro da comprare sulle bancarelle del centro. L’intera città cresceva e si sviluppava sulle vane fondamenta di un raffinato edonismo, capriccioso e nostalgico.
Sembrava che Paolo leggesse tutto questo nei cuori, offrendo ad ognuno ciò di cui aveva bisogno. All'anziano e al malato regalava il conforto della fede nella vita ultraterrena, cui conveniva prepararsi con cura e per tempo. Sostituiva all'angoscia del padre di famiglia, la speranza nella divina e provvidenziale misericordia. Alle mamme affidava l’amore da dispensare a piene mani, senza paure e senza compromessi. Ai giovani prospettava un futuro glorioso, anche se lontano dai raccapriccianti campi di battaglia dell'esercito imperiale romano.
In pochi mesi, la città era entrata profondamente in crisi. Di un gruppo di amici, di una famiglia o di una qualunque aggregazione, capitava che qualcuno si accostasse, spinto inizialmente da un proprio personalissimo impulso. Naturalmente, si trattava di persone curiose, ma anche sensibili e proprio per questo, poco inclini all'ottusa conservazione. Quando poi a casa, sul lavoro oppure in piazza, un neofita azzardava qualche considerazione appresa da Paolo, allora si scatenavano i litigi. Tra lo sconcerto dei figli, il marito veniva zittito dalla moglie, da tempo in ansia per le assenze ed i comportamenti bizzarri del coniuge. Oppure, una mamma si prendeva qualche sonoro e umiliante ceffone quando le nuove devozioni osavano prescindere dall'autorità maschile costituita. I commilitoni si spazientivano per le melense quanto incomprensibili lagne di chi, ossessionato dai giudei, trascurava le proprie incombenze nella guarnigione. Capitava persino che i figli fossero brutalmente puniti se sorpresi a mormorare anche solo per gioco, le assurde litanie cristiane.
Privi com'erano di particolari carismi, i contagiati dalla febbre cristiana facevano il vuoto intorno a sé. La maggior parte risultava pedante oltre ogni limite, ma di altri si diceva addirittura che portassero sfortuna.
Quando però alcune personalità in vista della cultura e dello spettacolo cominciarono a parlare pubblicamente del Crocefisso, di monoteismo
, redenzione
e profezie messianiche
, il livello delle polemiche si alzò pericolosamente, rincuorando i neofiti a scapito degli oppositori, che si accorgevano di perdere terreno.
In questa fase, la mia famiglia non era stata intaccata. Mio padre era troppo preso dal culto di sé per preoccuparsi di quello che stava