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Il Libro segreto di Jordan Viach: Romanzo storico ai tempi dei Catari
Il Libro segreto di Jordan Viach: Romanzo storico ai tempi dei Catari
Il Libro segreto di Jordan Viach: Romanzo storico ai tempi dei Catari
E-book675 pagine10 ore

Il Libro segreto di Jordan Viach: Romanzo storico ai tempi dei Catari

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Info su questo ebook

Nel xiii secolo, per annientare la Chiesa dei Catari e impossessarsi delle ricche e fertili terre occitane, il Papato e il Regno di Francia organizzano due crociate, due crociate in terre cristiane. Jordan Viach, un Siddharta medievale, protagonista de Il Libro Segreto, è testimone di questo periodo storico complesso e poco noto, come poco conosciuta è l’eresia dei Catari, gnostici cristiani che credevano nella reincarnazione, erano vegetariani, nonviolenti e aperti al sacerdozio femminile; un’eresia che aveva migliaia di adepti in tutta Europa.
Il Libro Segreto di Jordan Viach è un affascinante e preciso affresco storico, che potremo definire “catartico” e “iniziatico”, dove rituali sacri e battaglie, incontri e ritrovamenti, si alternano in una avvincente e toccante trama che coinvolge ed emoziona il lettore. Il Libro Segreto non è un romanzo fantasy, né un thriller, ma è un romanzo di contenuti, e come tale può essere anche definito un romanzo terapeutico.

Daniele Garella, affermato compositore, pianista e scrittore, è un eclettico artista fiorentino che all’amore per le Arti unisce una solida preparazione psicologica, spirituale ed esoterica. La sua musica, presente in più di sessanta compact disc, è distribuita e apprezzata in tutto il mondo; i suoi scritti hanno ricevuto riconoscimenti in vari Premi letterari. Apprezzato studioso di Storia dell’eresia catara, è stato socio del Centre d’Étude Cathares di Carcassonne.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2018
ISBN9788899462512
Il Libro segreto di Jordan Viach: Romanzo storico ai tempi dei Catari

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    Il Libro segreto di Jordan Viach - Daniele Garella

    Il Libro Segreto di Jordan Viach

    Daniele Garella

    Romanzo storico

    Al tempo dei Catari

    Stella Mattutina Edizioni

    Collana | Alto Ideale

    AI 02

    Titolo | Il libro segreto di Jordan Viach

    Autore | Daniele Garella

    ISBN | 9788899462512

    Copyright © Daniele Garella

    All Rights Reserved

    © 2018 Stella Mattutina Edizioni

    Nessuna parte di questa Opera può essere riprodotta

    senza il preventivo assenso dell’Autore e dell’Editore

    Stella Mattutina Edizioni®

    Via del Lago n. 26; 50018, Scandicci (Fi) - Italy

    tel./fax +39/055 769044; 340 2418469

    web: www.stellamattutinaedizioni.com

    e-mail: stellamattutinaedizioni@gmail.com

    Ai Catari di ieri, ai Catari di oggi, ai Catari di domani.

    A Guilhabert de Castres e a tutti coloro che si adoperano

    per portare Luce e Amore là dove regna l’ombra e il male.

    Daniele Garella

    Il Drago del male sarà legato solo quando gli esseri umani

    smetteranno di credere che l’odio, la violenza e le bombe

    siano necessarie per risolvere ogni problema.

    Solo l’Amore, la Saggezza e la Verità

    possono risolvere i problemi, solo la Dolcezza,

    la Bontà, la Fiducia e la Gioia sono capaci di legare il male.

    Omraam Mikhaël Aïvanhov

    Vi auguro di essere eretici.

    Eresia viene dal greco e vuol dire scelta.

    Eretico è la persona che sceglie e, in questo senso,

    è colui che, più della verità, ama la ricerca della verità.

    E allora io ve lo auguro di cuore questo coraggio dell’eresia.

    Vi auguro l’eresia dei fatti prima che delle parole,

    l’eresia che sta nell’etica prima che nei discorsi.

    Vi auguro l’eresia della coerenza, del coraggio,

    della gratuità, della responsabilità e dell’impegno.

    Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri.

    Chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è.

    Eretico è chi non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia, chi approfondisce, chi si mette in gioco in quello che fa.

    Eretico è chi si ribella al sonno delle coscienze,

    chi non si rassegna alle ingiustizie.

    Chi non pensa che la povertà sia una fatalità.

    Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza.

    Chi crede che solo nel noi, l’io possa trovare una realizzazione.

    Eretico è chi ha il coraggio di avere più coraggio.

    Don Luigi Ciotti

    Le ragioni di un romanzo

    Nota dell’Autore

    Nel 1995 fui invitato da amici francesi a trascorrere una vacanza nella loro casa in Linguadoca. Al piacere dell’amicizia potei unire la visita di antichi borghi e chiese romaniche dove da tempo desideravo recarmi. Un fatto però non avevo messo in programma: a ogni meta raggiunta, sensazioni particolari, intense e positive, mi spingevano ad andare oltre, verso nuovi e ignoti percorsi. Così, senza comprenderne il motivo, mi trovai a esplorare le campagne di Carcassona, di Moissac, di Agen, di San Bertrand de Comminges; viaggiavo come in attesa di una rivelazione. Infine, a vacanza ormai terminata, decisi, forse perché stanco del continuo peregrinare, di concedermi una pausa di riflessione. Notai, nella biblioteca dei miei ospiti, un volume dal titolo Histoire du Languedoc , e me ne andai lungo le rive alberate della Garonna per abbandonarmi alla più rilassante delle letture. Così almeno credevo.

    Quel libro, invece, sin dalle sue prime pagine mi spinse, con irrefrenabile necessità, ad indagare sul perché una civiltà raffinata e ispirata come quella Occitana del xii e del xiii secolo, a quei tempi la più evoluta di tutta l’Europa, fosse stata annientata con incredibile ferocia. Volevo inoltre capire come mai i promotori di tale sterminio fossero stati il Papato e il Regno di Francia, cui da sempre – così almeno ci è stato insegnato – si attribuiscono alti valori morali, etici e politici. Certo, l’Occitania medievale era una terra fertile, ricca e quindi appetibile, ed è vero che in quella terra cristiani, ebrei e musulmani convivevano in pace, e questo poteva, per taluni, essere considerato un piano del Maligno. E vi abitavano delle donne che, nonostante fossero le discendenti di Eva, ossia della grande peccatrice, godevano degli stessi diritti degli uomini: studiavano, scrivevano poesie, partecipavano persino a dibattiti politici e, se ripudiate, potevano evitare il convento e abitare, invece, in case gestite da sole donne. Anche la nascita in Linguadoca dei primi Liberi Comuni poteva, in epoca feudale, infastidire alcuni centri di potere; inoltre, in quella raffinata società, i trovatori cantavano amori adulterini mentre, i nobili cavalieri, protagonisti di tali canti, non pagavano più la decima al clero locale.

    Tutto questo però non poteva essere sufficiente per scatenare una sanguinosa guerra durata quasi quaranta anni – per la precisione, due crociate in terre cristiane – con centinaia di migliaia di vittime. Doveva esistere un’ulteriore ragione, ben più grave, per far sì che la Linguadoca si meritasse di essere messa a ferro e fuoco come fosse divenuta una nuova Sodoma. La risposta che cercavo giunse al terzo capitolo del libro: Le Cathar . E rimasi sorpreso che tale parola non richiamasse alla mia mente che incerte definizioni, come La crociata degli Albigesi, o la Crociata contro gli Albigesi . Anzi, più mi sforzavo di ricordare, più sentivo che tali informazioni mi erano state come occultate da chi aveva edificato la storia della cultura cui appartengo e che, guarda caso, per molti aspetti è stata composta e modellata dalla Chiesa di Roma e dal Regno di Francia, fedeli alleati sin dai tempi di Carlo Magno.

    Così, mi addentrai, anzi divorai questo terzo capitolo e, nei giorni seguenti, rientrato a Firenze, iniziai la ricerca di testi specifici sull’argomento. Per nulla sorpreso, constatai la pressoché totale assenza di materiale in lingua italiana e decisi quindi di associarmi al Centre National d’Étude Cathares di Carcassona, grazie al quale ho potuto reperire una notevole quantità di libri e di saggi di eresiologia medievale; per tre anni mi dedicai così allo studio della storia della Linguadoca e del catarismo. Fu solo allora che, soddisfatta la mia sete di conoscenza, avvertii con forza il desiderio di restituire agli altri ciò che avevo letto e compreso, proprio attraverso la forma del romanzo. Desideravo raccontare la storia della terra occitana e del suo popolo, desideravo rendere giustizia – una giustizia solo storica, a questo punto – a coloro che barbaramente erano stati uccisi – spade, tortura, roghi – perché consapevoli del valore della Libertà (libertà intellettuale, religiosa, esistenziale). Desideravo principalmente far tornare alla luce il credo e lo stile di vita puro e veramente cristiano di coloro che aderirono al movimento cataro, dato che la storia delle società umane, edificata sempre dai più forti e per questo, molto spesso, dai più iniqui, anche in questo caso narrava di uno sterminio e di un tentativo di occultarne il ricordo.

    Persino la loro lingua – il provenzale medievale, la Langue d’Oc – in seguito a tali crociate divenne una lingua morta, malgrado fosse un idioma talmente compiuto e perfetto da essere stato studiato e amato da illustri personaggi quali, ad esempio, Dante Alighieri e Francesco Petrarca.

    Così è nata la storia di Jordan Viach – un bambino, un giovane, un uomo – che per circa quattro anni del mio tempo ho osservato camminare nelle strade della sua terra insieme a principi e cavalieri, ricchi mercanti e assassini, prostitute e religiosi delle più disparate fedi (cattolici, valdesi, catari, gioachimiti, ebrei cabalisti, musulmani, i primi domenicani e francescani, i primi inquisitori) e, naturalmente, alla gente comune. E di Jordan Viach ho riportato l’evoluzione interiore e la raggiunta comprensione della vita, narrata attraverso le immani tragedie del suo tempo storico, attraverso le esperienze della sua personale esistenza, attraverso il coraggio e le speranze sue e del suo popolo. Non è mai, comunque, la violenza o la sofferenza a divenire protagonista del romanzo, semmai il confronto con questa, vista dal protagonista come opportunità di crescita e di elevazione interiore.

    Il Libro Segreto di Jordan Viach è quindi un romanzo dove storia, religione, esoterismo, sono uniti e legati da un incalzante procedere degli eventi, dove l’intreccio narrativo è stato concepito in modo tale che il lettore possa, attraverso gli eventi stessi, percorrere una via catartica. Per questo Il Libro Segreto di Jordan Viach può anche essere definito un romanzo terapeutico.

    Il Libro Segreto di Jordan Viach è composto da due parti: la prima, dal titolo Jordan Viach il cataro, dove si narra della vita in Linguadoca [¹] dal 1202 al 1217, come anche degli anni giovanili di Jordan Viach, e la seconda parte, A Montségur , in cui è narrata la storia della Linguadoca dal 1218 al 1244, e dove si racconta il vissuto di Jordan negli anni della sua maturità.

    Il Libro Segreto di Jordan Viach viene ora pubblicato nella sua prima edizione integrale: la prima parte, Jordan Viach il Cataro, qui in una nuova versione, ha avuto già quattro edizioni di successo, con le Case editrici Il Punto d’Incontro e in seguito Hachette Italia. La seconda parte, A Montségur, è qui pubblicata per la prima volta.

    immagine 1

    Jordan Viach il Cataro

    immagine 2

    1

    Perpignano, agosto 1202

    «Continuano a provocarci!», esclamò Guy Debrel.

    «Ma noi resteremo uniti, come sempre!», intervenne Raimon Blais a conclusione dell’assemblea dei mercanti di Perpignano convenuti nel palazzo di Philippe Viach.

    «Dunque, mi pare di comprendere che non accetteremo i nuovi prestiti a usura richiesti dai banchieri ebrei di Narbona», affermò Siscard Acaia.

    «Nessun altro chiede la parola?», domandò Philippe Viach, sudato e rosso in volto, pronto per consegnare a Simon Marsau il documento che tutti avrebbero presto firmato.

    Nel frattempo le consorti dei mercanti si trovavano nel giardino del palazzo, in attesa che Coussa Viach, assistita da tre domestici, servisse un tè speziato di Alessandria.

    Era una giornata ventosa e il cielo terso pareva specchiarsi sopra l’erba smeraldo del prato, mentre le lussuose stoffe di Damasco, indossate dalla maggior parte delle invitate, scintillavano come tasselli di un mosaico esposto ai raggi del sole. I tavoli sotto il pergolato, apparecchiati con tovaglie di lino dai ricami pregiati e imbanditi sontuosamente con rami di alloro, frutta matura e fiori sgargianti, trasmettevano un’infinita varietà di suggestioni.

    Ma non era il tè di Alessandria, né l’assemblea dei mercanti di Perpignano il principale motivo della presenza di così tanti ospiti nel palazzo di Philippe e di Coussa: presto si sarebbe svolto un eccellente convito che avrebbe avuto inizio all’arrivo delle più illustri conoscenze dei Viach, come l’abate di Fontfroide, il vescovo di Albi, i visconti di Castelbò e di Verfeil e, naturalmente, il noto mercante Arnaud Viach, fratello maggiore di Philippe. Costoro sarebbero giunti al tramonto, onde evitare i fastidi spesso provocati nei meriggi estivi dalle strade sempre più polverose.

    A palazzo Viach non si sarebbe celebrato un matrimonio, una nascita e neppure un’elezione ecclesiastica; si festeggiava invece una partenza per le terre d’Oriente, nella speranza di buoni guadagni, con l’augurio di un ritorno privo di imprevisti.

    Il commercio chiamava Philippe Viach e la sua famiglia a un nuovo e lungo viaggio e nello sguardo di Coussa, che continuamente indugiava in cerca dei fiori del luogo, degli oggetti della casa, delle persone a lei care, non era difficile scorgere quanto fosse penoso quell’addio, seppur momentaneo. La intristiva, in modo particolare, doversi separare dal piccolo Jordan, nipote prediletto, nonché suo figlio adottivo ormai da otto anni, ossia da quando i genitori di lui scomparvero misteriosamente.

    Di Goran Viach, padre di Jordan e fratello minore di Philippe, Coussa conservava solo pochi ricordi, ma tutti indelebili, come quello legato al giorno del proprio matrimonio, il sedici settembre del 1183.

    In quella occasione Goran si era presentato intonando una canso con voce vellutata, accompagnandosi al salterio con grande maestria. Dopo aver allietato gli ospiti, aveva preso una scatola in avorio e si era inchinato davanti alla nuova cognata: «Se vorrai aprirla, Coussa, vi troverai il mio regalo per le tue nozze. Sono felice di accoglierti nella nostra famiglia». E restando con lo sguardo rivolto a terra attese che lei potesse apprezzare il dono. Tra le lunghe dita delicate, poi sul palmo della mano, cominciò a scorrere una collana di corallo che sorreggeva nel suo centro un medaglione con una colomba di madreperla incastonata.

    Vi fu un lungo applauso quando Coussa la mostrò agli invitati. Si trattava di un oggetto assai inusuale, acquistato da Goran nei pressi di Corinto e che si adattava perfettamente alla carnagione olivastra della donna. Le disse che era appartenuto alla sacerdotessa del tempio di Dragovitza e non aggiunse altro, ma Coussa ben intese che suo cognato parlava il linguaggio del cuore.

    Quei giorni, però, erano lontani e solo nei lineamenti e nelle espressioni del volto del piccolo Jordan, Coussa poteva rintracciare i modi gentili di Goran e ricordare quel suo misterioso modo di esistere che né Philippe, né Arnaud, anch’essi Viach, possedevano, ma che sarebbe stato possibile rintracciare in Beringuer Viach, loro padre, uomo straordinario ed estroso; costui, pur appartenendo a una nobile casata, da secoli stabilitasi nella regione pirenaica, aveva abbandonato la proprie contrade per il desiderio di conoscere il mondo.

    Una scelta non rara tra giovani senza terra, tra figli naturali oppure cadetti, ma decisamente inusuale tra possidenti terrieri. Beringuer avrebbe potuto vivere del ricavato delle proprietà feudali, beneficiare del suo dignitoso castello e di tre fattorie; invece aveva preferito vendere ogni bene ai signori Russel de Lauria per iniziare una professione poco rispettabile come quella del commercio e assai perigliosa poiché esercitata nelle terre d’Oriente. «Io scelgo la libertà», affermava con orgoglio cavalcando lo spirito dei tempi nuovi; e così ugualmente affermava sua moglie, Mira du Tor de Vila, che l’aveva accompagnato su quella impervia strada, rivelatasi, sin dal primo viaggio, economicamente assai vantaggiosa.

    Il commercio aveva entusiasmato anche i loro tre figli che, una volta cresciuti, si erano messi in proprio, stabilendo le loro sedi in tre differenti città: Philippe nella florida Perpignano, Goran nell’orgogliosa Besièrs e Arnaud nella vitale Narbona. Tre luoghi politicamente e socialmente confacenti alle esigenze delle loro differenti scelte di vita. A Perpignano, città da pochi mesi detentrice di una propria Carta comunale, Philippe aveva avuto modo di interagire con le strutture organizzative messe a disposizione dai reali d’Aragona, aprendosi, seppur con prudenza, al commercio con il Sud musulmano. A Narbona Arnaud aveva potuto tessere vantaggiosi accordi con la potente Chiesa cattolica e con l’incalzante attività dei banchieri ebrei. A Besièrs Goran aveva costruito la sua ricchezza unendosi a intraprendenti cittadini che, al di là delle loro differenti provenienze sociali, si erano associati in nome di un benessere comunitario.

    Ma adesso che nella città di Besièrs di Goran Viach restava ben poco – un palazzo in rovina e un umido, maleodorante magazzino – a Coussa non rimaneva altro che ricordare il breve periodo in cui furono amici, rammaricandosi di aver perduto anche Ebla, sua moglie, nonché madre di Jordan, una donna che pareva essere nata per fare il bene degli altri.

    Ebla, delicata e sorridente, avvolta in uno scialle bianco disposto sempre con grazia sulle spalle, portava meravigliose fibbie d’argento con cui legava i suoi capelli castani e gli abiti di lana. A Besièrs era conosciuta con il nome di Biancospino, o più semplicemente «la benefattrice dei poveri e dei malati», che infatti accudiva anche sino alla morte. Ovunque vi fosse necessità di un conforto, di un consiglio, di un aiuto, il suo era il primo nome a riecheggiare nelle strade: «Biancospino, chiedetelo a Biancospino!». E lei, con passo svelto e leggero, soccorreva i bisognosi, entrando e uscendo dalle loro vite sempre in punta di piedi.

    Ancor prima che iniziasse il nuovo secolo, Goran ed Ebla si erano resi liberi da ogni attività commerciale: «Per noi è giunto il tempo di dedicarsi alle ricchezze dell’anima», amavano affermare. E la sera, nella propria dimora, ospitavano gente straniera e accoglievano gli Amici di Dio e i conoscenti del luogo per dialogare sul significato del Dio di Luce e del dio delle Tenebre. Di giorno, invece, si spostavano a piedi nei villaggi vicini, col Vangelo di Giovanni appeso alla veste, disposti a divulgare gli Insegnamenti dell’Apostolo con perizia e intelligenza. Da molti erano accolti con amore, da alcuni venerati come messaggeri divini, da altri temuti e osteggiati, come nel caso di Gabriele Rualte, priore a Besièrs, che più volte li aveva denunciati alle locali autorità ecclesiastiche.

    Distanti per scelte esistenziali da Philippe e da Arnaud Viach, Ebla e Goran trovarono in Coussa una sincera ammirazione che si sarebbe concretizzata in un legame ben più coinvolgente se, una volta raggiunta la città di Soissons, avessero fatto ritorno alla loro dimora.

    Forse erano partiti per allacciare nuovi contatti con i predicatori della Champagne, forse ad attenderli lungo la strada per Auxerre vi era padre Guillaume, arcidiacono di Nevers, da molti in sospetto di eresia. Qualcuno disse che erano stati derubati e poi assassinati da balordi vicino Troyes. Altri sospettarono che il rogo di Reims si fosse alimentato anche dei loro corpi. A nessuno comunque era nota la verità e nessuno riuscì a sapere dove fossero stati uccisi, o se mai lo fossero stati.

    A quel tempo Jordan era un bambino di soli tre anni; adesso invece ne aveva compiuti undici: età comunque non adatta per intraprendere un viaggio nelle terre d’Oriente. Per tale motivo, a Coussa non restava che affidarlo al cognato Arnaud, un uomo poco comprensivo e che per scarsa cultura e limitata sensibilità d’animo, s’interessava solo alle donne e al danaro.

    Arnaud Viach non era certo la persona che, se avesse potuto, Coussa avrebbe scelto per occuparsi dell’educazione del nipote, dato che non lo riteneva un uomo onesto, né integro moralmente.

    «Ma è pur sempre mio fratello, com’è fratello del padre di Jordan! – così, più volte, Philippe le aveva ricordato – A Narbona non c’è un solo mercante che non gli porti rispetto».

    «Onorano il suo denaro e le sue influenti amicizie!».

    «Coussa…! Invece di criticarlo, ricorda che ci ha presentato l’arcivescovo Sinibaldo e il visconte De Beinat! Tu sai quanto costoro siano importanti per le nostre finanze!».

    «Ciò non toglie che Arnaud, con il suo modo di essere, con i suoi atteggiamenti...».

    Philippe la guardò con affetto; capiva perfettamente le perplessità della compagna e le prese la mano annuendo.

    «Forse... per Jordan ci sarebbe...», Coussa si provò nuovamente.

    «Mi spiace, ma non possiamo portarlo con noi».

    «Allora cerchiamo una persona più adatta; Jordan è così sensibile!».

    «Tu sai, Coussa, quanto alle consuetudini sociali non sia dato sottrarsi: togliere ad Arnaud il diritto e il dovere di crescere Jordan sarebbe oltraggioso per lui e diffamante per la nostra famiglia. Quali spiegazioni daremmo alla gente?».

    «Eppure, ne sono certa, nessuno se ne meraviglierebbe», dichiarò contrariata.

    «Ti prego, non insistere», replicò Philippe.

    Così, quando il ricevimento ebbe inizio, a Coussa Viach non rimase che osservare impotente il comportamento di suo cognato Arnaud, che in nulla smentiva i pettegolezzi più volte diffusi sulla sua persona: appena giunto a palazzo, ancor prima di salutare parenti e amici, si era diretto in cerca di Clara, la giovane e piacente domestica di Coussa e in seguito, a cena iniziata, aveva incoraggiato a gran voce la moglie Brixa, nobildonna scialba e bigotta, a rendere noto l’elenco dei loro possedimenti terrieri, come anche il racconto del recente acquisto di una lastra tombale nei posti d’onore del convento di Fontfroide.

    Proprio dal convento di Fontfroide, precisò Arnaud Viach una volta dispostosi a colloquiare con Coussa, sarebbe arrivato padre Cathala come educatore di Jordan, un uomo di cultura e di «alta statura morale», raccomandatogli dal vescovo di Maguelone.

    «Dunque, avrà un maestro che si prenderà cura della sua anima e lo seguirà negli studi!», esclamò Coussa sorpresa.

    «Suvvia, dolce cognata, credevi forse che lo avrei affidato a uno dei miei servi?». Con un sorriso convincente Arnaud le appoggiò magnanimo la mano sulla spalla.

    «Con padre Cathala che vigilerà su Jordan potrò partire un poco più serena». Sorrise soddisfatta, e poi intravide Pierre che correva nel giardino: Pierre Viach, il suo secondogenito, questa volta si sarebbe messo in viaggio con lei e anche tale fatto rese il suo animo più lieve. Pierre, infatti, raggiunti i tredici anni, era pronto per la vita di mare, come lo era Raimon, il primogenito, baldanzoso diciassettenne che ormai, come sosteneva Philippe con orgoglio, si era fatto «tutto d’un pezzo». Philippe Viach, uomo di scarsa cultura e di modi sbrigativi, era comunque un mercante onesto e intelligente, che aveva saputo crescere Pierre e Raimon forti nei muscoli e nell’ingegno, educandoli a mostrare con fierezza quella facilità comunicativa che a nessun Viach era mai mancata. Philippe, inoltre, a differenza del fratello Arnaud, non viveva per il solo piacere del sesso e del denaro e sposando Coussa, donna straniera nativa di Smirne, aveva mostrato ai suoi concittadini di essere un uomo libero, tollerante e sicuro delle proprie scelte.

    L’ultimo ospite era infine arrivato. La servitù accese ulteriori torce nel giardino e gli invitati, seduti al posto loro assegnato, si disposero con trepidazione ad ascoltare la prima canso di Cadenet, detto anche Baguas, «bagascia», come qualcuno l’aveva malignamente soprannominato. Il trovatore, folle girovago, cantore di fama e incredibile esecutore, si era presentato a palazzo Viach in abito viola e calzari blu oltremare, portando sulla testa una corona di fragranti roselline bianche. Cadenet sapeva raccontare storie che immediatamente creavano il buon umore e cantare poesie che rapivano gli animi delle donne come degli uomini.

    Assai mi piace la lunga notte e oscura

    al tempo d’inverno perché più tempo dura

    e non per il freddo tralascio d’esser

    sempre guardiano leale agli amanti

    così che l’amante si senta tranquillo

    poiché io l’avverto gridando

    quando vedo l’alba arrivare...

    ...intanto Raimon Viach, poco interessato a Cadenet, ma in sintonia con il soggetto cantato dal trovatore, si era deciso, con le sue giovani mani nodose, a esplorare il delizioso corpo di Ermessende. Riparati dai sedili in pietra, protetti da una fila di piante d’alloro, i due innamorati consumavano in una notte di addii la loro acerba passione. Si toccavano con malizia, si baciavano con trasporto, sembravano dirsi: «Resta, amore, non partire», oppure «vieni, amore, vieni via con me».

    Affacciatosi dalla stanza più alta del palazzo, anche Jordan si trovò, seppur col solo sguardo, a condividere quell’incontro, dato che il corpo nudo del cugino, come quello della sua giovane amante, erano sbucati fuori, inconsapevolmente, dalla siepe al confine del giardino. Ma ancor di più venne attratto dall’insieme di tutte le vite umane che, sotto ai suoi occhi, parevano muoversi prive di volontà, come in balìa di un buffo sortilegio. E sorrise seguendo i movimenti delle braccia degli invitati che sembravano oscillare come fiaccole mosse dal vento e ancor di più si divertì nel seguire il ritmo delle loro teste mai ferme, in contrappunto alle loro bocche prima aperte, poi chiuse, poi di nuovo aperte e così via senza sosta alcuna. Infine sentì il bisogno di intervenire lui stesso per rendere quella festa ancora più speciale: ritenne che nulla sarebbe stato più straordinario del far cambiare, all’improvviso, il colore dei capelli a tutti gli invitati. Socchiuse gli occhi in cerca della parola magica adatta per tale incantamento, pensò al colore viola che presto sarebbe apparso ovunque e contò fino a cinque, ma fu questione di un attimo e colto da una grande stanchezza, precipitò nel più rassicurante dei sonni. Si vide divenuto ragazzo, mentre mostrava agli invitati braccia e gambe robuste come quelle del cugino Raimon. Era seduto, con nobile portamento, sul destriero dello zio Philippe e stava intonando una canso davanti a una giuria di cavalieri dalla quale era stato premiato miglior trovatore di Provenza. «Sono felice! Di nient’altro ho bisogno per viver bene nel mondo!», disse a chi lo stava ascoltando.

    Jordan continuò a dormire fino a quando l’ululare di un cane lo svegliò nel pieno della notte, a convito ormai concluso. Accese una candela e in silenzio si diresse al piano terra, per le strette scale di pietra. Nel salone, ancora illuminato da un gran numero di torce, intravide lo zio Philippe, in piedi, al lato destro del tavolo di noce e subito dopo udì la voce grossa e tonante dello zio Arnaud, al quale Coussa chiedeva inutilmente di parlare in modo sommesso.

    «Sta’ tranquilla, amabile cognata, come già ti avevo esposto nessuno sarà migliore di padre Cathala per insegnare a Jordan il latino, l’aritmetica, la santa religione», asserì Arnaud gustando l’ennesimo bicchiere di vino.

    «Ma se non tornassimo presto, se questo viaggio durasse a lungo o, se com’è accaduto a Ebla e Goran, non dovessimo più... capisci? Che ne sarà di nostro nipote?».

    Arnaud preferì non replicare, portò invece, con un gesto teatrale, la mano sinistra alla bocca e si asciugò le labbra. Poi, con aria di stupore, lentamente, si voltò verso il fratello: «Ditemi, non vorrete mica farvi impalare dai saraceni?».

    Ma la risata dei fratelli Viach agitò ancor di più l’animo di Coussa.

    «Sta’ tranquillo, Arnaud, – e Philippe si preoccupò di sorridere alla consorte – i numerosi porti cristiani sorti da tempo sulla rotta di Alessandria ci proteggeranno da qualsiasi minaccia».

    «Dunque, alla vostra salute!», replicò il mercante di Narbona, trangugiando l’ennesimo calice di vino.

    «Ti prego, Arnaud, ti ho posto una domanda e ancora non mi hai risposto», disse Coussa cercando nuovamente di evidenziare le sue necessità.

    «Oh, scusa se non l’ho fatto! Però... in effetti... non ricordo... di cosa parlavamo?».

    «Di Jordan, di nostro nipote... se non dovessimo tornare...».

    Fu allora che, anticipando la risposta del fratello, Philippe tirò fuori da un cassetto una piccola scatola d’argento, avvolta in un panno di velluto verde. L’aprì e ne versò il contenuto sul piano del tavolo: l’inequivocabile suono delicato di alcune pietre preziose risuonò dolcemente nell’ovattata aria della notte.

    «Ecco le ultime cose che Goran mi consegnò prima di partire per quell’infausto viaggio; riteneva questi gioielli sufficienti per salvaguardare Jordan da qualsiasi problema per molti e molti anni!».

    Un profondo silenzio avvolse i presenti. Jordan non poté valutare quante fossero le pietre, ma dai volti stupefatti degli zii ebbe una chiara idea del loro incredibile valore.

    «Quanti errori ha commesso Goran! – esclamò Arnaud aggrottando le sopracciglia e mangiandosi le parole per il troppo vino bevuto – Quante idee malsane lo hanno portato alla rovina! Sono stato troppo indulgente con lui, avrei dovuto impedirgli di frequentare quei depravati, quei figli di Satana!».

    «Arnaud, ti prego, non voglio sentir parlare in questi termini di Goran! – asserì Coussa visibilmente contrariata – Sono al corrente che non approvavi il suo stile di vita, eppure, per me, Goran è stato come un fratello, come un saggio apparso sul mio cammino».

    «Un saggio? Se non era per la mia esperienza di mercante saremmo finiti tutti alla malora!».

    «Pensala così, Arnaud, se ti fa piacere, ma sappi che non è la verità».

    «E la verità quale sarebbe? Quella scaturita dalla sua mente squilibrata?».

    «Di una cosa sono certa: chi glorifica il denaro come fai tu è del tutto incapace di comprendere persone come Goran».

    «Non capire? Io, che per colpa di quei maledetti che Goran frequentava, ho perduto una figlia!».

    «Guarda che se Gaja è fuggita via è stato solo per colpa tua e dei tuoi sciocchi pregiudizi!».

    «Ah, cognata molesta! Ritira immediatamente ciò che hai detto!», urlò Arnaud.

    «Su, basta! Vi prego! – disse Philippe, frapponendosi prontamente – Non pensavo che mostrare delle pietre preziose riaccendesse simili questioni. Voglio comunque ricordarti, Arnaud, che io e Coussa abbiamo molto sofferto per ciò che ti è accaduto. Eravamo affezionati a Gaja e tu sai quanto denaro abbiamo versato affinché qualcuno ci portasse sue notizie».

    «Vedi, dunque mi date ragione: è successo proprio come con Goran e Biancospino. La mia adorata figlia se n’è andata e nessuno ne ha saputo più nulla. Poi mi si accusa di non capire, di avere dei pregiudizi!», esclamò asciugandosi la fronte imperlata di sudore.

    «Ti prego, fratello, rimandiamo ogni discussione a un momento più opportuno – riprese la parola Philippe – e ascolta adesso con attenzione quanto sto per dirti: se per quest’ultimo viaggio in Oriente il destino ci fosse ostile, se davvero non dovessimo più fare ritorno, sarai te a consegnare a Jordan queste pietre preziose nel giorno del suo sedicesimo compleanno. Così desiderava Goran e così dovrà essere, poiché se finora il nostro adorato nipote non ha avuto fortuna, almeno un domani disporrà liberamente della sua vita».

    «Va bene, mi comporterò come chiedi e com’era nei desideri di nostro fratello. Ma della casa di Besièrs e del magazzino? Posso venderli per pagare i suoi studi?».

    «Appartengono a lui!», affermò Philippe perentorio.

    «Non penserai mica che abbia bisogno di soldi, che voglia profittare della situazione! – borbottò Arnaud – Anch’io dispongo di beni per agevolare la crescita di Jordan! A Narbona, vi assicuro, non gli farò mancare niente, così come sino a oggi avete fatto voi a Perpignano».

    «Bene, chiudiamo dunque questa improvvisata assemblea e andiamo a dormire... anzi, no, in verità devo dirti un’altra cosa... anche se forse sai già di che si tratta!».

    «Oh, grazie Philippe, mi fa piacere che tieni alla mia salute: non preoccuparti, a partire dal prossimo inverno smetterò di bere».

    «No, non è di questo che volevo parlarti!».

    «Dici davvero? Te ne sono ancora più riconoscente! – esclamò versandosi un altro bicchiere di vino e gustandolo con accresciuta avidità – Dunque, che aspetti, ti ascolto!».

    «Scusa, sono leggermente imbarazzato».

    «Tu imbarazzato? Philippe, ma che ti succede?».

    «Non è mia abitudine entrare negli affari degli altri, ancor meno di mio fratello. Però c’è di mezzo Jordan, e allora...».

    «... e allora, che indugi? Non capisco queste esitazioni. Pensi forse che abbia qualcosa da nascondere?».

    «Ecco, proprio di questo volevo parlarti».

    «Dunque? Parla!», affermò con una buffa alzata di spalle, mentre Coussa, anch’ella a disagio poiché a conoscenza delle parole che il marito avrebbe pronunciato, cercava sul pavimento un punto dove fermare lo sguardo.

    «Tu sei un uomo generoso, Arnaud».

    «Sì, è vero, Philippe».

    «Conosciuto e molto amato».

    «Sì, anche questo è vero».

    «Presti monete sonanti a chi ne ha bisogno e talvolta, se necessario, le regali».

    «Grazie fratello, dici parole giuste e molto gradite», e con aria di soddisfazione Arnaud si versò nuovamente del vino.

    «Eppure talvolta, così mi hanno riferito, molto del tuo denaro finisce nelle mani o tra gli indumenti di donne poco perbene. Corre voce che tu trascorra buona parte del giorno frequentando squallide case, tutt’altro che dignitose».

    «Ah, calunniatori maledetti! Chi ti ha raccontato simili menzogne? – esclamò strizzando l’occhio al fratello – Quelle simpatiche donnette le incontro solamente a casa mia quando Brixa va in chiesa a recitare le sue noiose litanie! Ti pare forse che il nobile Arnaud Viach possa frequentare, per diletto d’animo, degli orridi postriboli? Su, Coussa, sto scherzando! – aggiunse cambiando tono di voce poiché aveva osservato lo sguardo impietrito della cognata – Non devi temere nulla per il tuo piccolo nipote! Guardate invece di vendere bene la mia merce e di far presto ritorno dall’Oriente. Altrimenti, se proprio volete saperlo, – e tornò ai suoi soliti modi boriosi – userò queste mirabili pietre per far entrare Jordan nel monastero di Limoges! Non sarebbe una cattiva idea! Sono certo che il clero del Limosino suonerebbe le campane a festa per avere un mio parente nelle sue grandi mani, spillandomi così altro denaro!». E ridendo, colpì nervosamente il tavolo con un pugno talmente violento da far traballare i bicchieri poggiati sul bordo del mobile e la caraffa del vino nel centro del ripiano.

    «Arnaud, sei sicuro di non aver bevuto qualche bicchiere di troppo?», chiese Philippe contrariato.

    «Mi sento benissimo!», esclamò Arnaud a sua volta infastidito.

    «Almeno parla più piano! – lo redarguì il fratello – L’abate di Fontfroide sta dormendo nella stanza degli ospiti, proprio sopra le nostre teste!».

    «E cosa vuoi che me ne importi dell’abate – ribatté Arnaud con mal celata rabbia – non gli pago forse la decima, non gli compro le indulgenze a un prezzo catastrofico?».

    Al che Philippe, mosso da una irrefrenabile curiosità, si avvicinò ad Arnaud chiedendogli sottovoce: «è stato per la serva di Fournier che ti tocca sborsare così tanto denaro?».

    «Vi prego! – indispettita Coussa si inserì nel discorso – Smettetela con tali argomenti!».

    «Ma quale serva di Fournier! Te la voglio proprio raccontare, Philippe! La colpa è della figlia di Joan Duran de Tarbes, fatta rinchiudere dai genitori nel monastero di Agen».

    «La figlia del conte Duran? Ma cosa vai dicendo!», ribatté sorpreso Philippe.

    «È la pura e sacrosanta verità, ma se non era per me e per i forti appetiti del mio amico Raoul, la sublime donzella sarebbe ancora a marcire tra quelle gelide mura, vergine intristita e senza un futuro degno della sua bellezza. Certo, trattandosi della figlia del conte, nonché nipote di Isa di Roucy, i soldi che il convento ha perduto con la sua uscita devo sborsarli io, annualmente, con le indulgenze. Comunque, – e anche Arnaud, infine, ritenne opportuno abbassare il tono di voce – ne è valsa la pena: tra i suoi seni prorompenti ho ritrovato gioie da tempo perdute!».

    «Arnaud, ma che ti prende? Non ti ho mai sentito parlare in questo modo!», esclamò Coussa irrigidita nel volto e nella postura, decisa, una volta per tutte, a porre fine a quella conversazione per niente edificante.

    «Ah, voi donne, se non fosse per questi tempi perversi ve ne stareste chiuse dentro casa a rammendare, invece che a impicciarvi dei fatti degli uomini! Non dico bene, fratello?», e soddisfatto per ciò che aveva appena affermato, iniziò a bere vino direttamente dalla brocca.

    «No, non dici bene, fratello! – rispose Philippe prendendo per mano Coussa e regalandole un conciliante sorriso – Devo soprattutto a lei, quotidianamente accanto a me, la mia fortuna nel commercio e nella vita».

    «Oh, Coussa... ti prego... – bofonchiò il mercante di Narbona – scusami, forse mi sono espresso in maniera sconveniente. Persino mio padre lo diceva, la buon’anima, che dei suoi figli ero l’unico a non dare mai il buon esempio. E aveva ragione, che Dio lo abbia in gloria! Eppure, ti assicuro, sai bene che non ho dimenticato i nobili princìpi che la nostra famiglia ci ha trasmesso. Per questo, stanne certa, Jordan crescerà sano e sarà felice di trovarsi a casa mia. Non dubitarne».

    «Bravo – sentì giusto intervenire Philippe – così mi piaci!».

    «Inoltre – proseguì Arnaud un poco rincuorato – mi sembrerà di tornare padre dopo tanti anni ... ora che mio figlio, dopo la crociata in Palestina, vive al Bassin des Ladres per curarsi dalla lebbra, adesso che l’adorata Gaja, ingannata dagli eretici, se n’è fuggita via... io... io... – e cominciò a singhiozzare – io, siatene certi... lo giuro... lo giuro davanti al Signore... sarò capace di rendere felice il nostro piccolo Jordan!».

    «Su, che fai, Arnaud? Ti prego, non metterti a piangere!», disse Coussa andandogli incontro combattuta tra la rabbia e la possibilità del perdono.

    «Sì, scusami, hai ragione mia cara cognata! E tu Philippe, che fortuna avere una moglie così saggia e dei figli così forti e intelligenti. Io, invece, con quel mostro che ho sposato... verso lacrime amare a ogni sorgere del sole. Non ce la faccio più a sopportare una donna così ostile e orribile a vedersi!».

    «Ma che dici?».

    «Dico il vero, Philippe!».

    «Su, Arnaud, coraggio; lo so che non è come racconti!».

    «Sapessi, invece, quante volte ho desiderato allontanarla dalla mia vita e quante amarezze ha dovuto digerire il mio povero stomaco. Ma la nostra consanguineità arriva solo alla sesta dinastia e, maledizione ai monaci di Cluny che hanno cambiato le regole a loro tornaconto, neanche le discendenze parentali valgono più per annullare un matrimonio».

    Fu allora che il mercante di Narbona cominciò a piangere copiosamente, mescolando il suo noto piacere per la finzione a un malessere autentico che cominciava a ottenebrargli la mente e a ripercuotersi nel ventre.

    «Andiamo a letto, Arnaud – disse il fratello cercando di sorreggerlo – oggi è stata una giornata lunga e faticosa, tu sei stanco e inoltre, mi pare, devi aver bevuto qualche bicchiere di troppo».

    «Sì, hai ragione, ho bevuto, ho bevuto più del solito, ho bevuto tutto quello che non dovevo; ti prego, andiamo, portami a letto, portamici tu, così, col tuo braccio a sorreggermi e che Dio ti protegga, fratello carissimo, e che protegga anche me!».

    A tali parole Jordan, con uno scatto felino, si rintanò dietro la madia e, immobile, si apprestò a osservarli mentre uscivano dalla stanza. Passarono a un metro dal suo improvvisato nascondiglio per poi allontanarsi in direzione dello studio di Philippe.

    Jordan s’immaginò di vederli come fosse per l’ultima volta e, chiudendo gli occhi, provò a sentire quanto male gli avevano procurato le parole appena ascoltate.

    Il suo corpo, rapidamente, sotto i colpi fragorosi del cuore, diventò come un tamburo percosso con violenza, mentre le mani e i piedi, afflitti da incessanti tremori, si fecero gelidi come acqua di sorgente. Infine, sentendo che più non poteva stare fermo, corse in cucina e approfittando dei servi che portavano in casa i resti della cena, sgattaiolò in giardino, raggiungendo gli scalini del pozzo, dove si sedette per guardare il cielo oscuro messo in movimento dall’ancor più oscuro volo dei pipistrelli.

    Un insieme di voci si rincorrevano nella sua mente, mentre nel profondo del suo essere percepiva una forte inquietudine, mai conosciuta prima. Tossì, aggrottò la fronte e, finalmente, si sciolse in un lungo pianto.

    La vita, ancora una volta, gli apparve irrimediabilmente diversa da come alcune persone care avevano cercato di fargli credere: non ne capiva la crudeltà e l’incoerenza, non ne amava il sapore effimero e provvisorio, mentre lo spaventava dover constatare quanto a ogni cosa amabile, a ogni nuovo affetto, corrispondesse subito un triste accadimento.

    Quando riaprì gli occhi vide il salterio di Cadenet poggiato all’albero del pero e si ricordò del suo suono delicato e di come lo stravagante trovatore, con maestria e semplicità, aveva saputo muovere le emozioni della gente. Cadenet, incantatore di anime e apparentemente libero da affanni, si trovava adesso davanti all’ingresso del giardino; poi, un attimo dopo, disteso vicino la siepe; infine, Jordan ne era certo, era di Cadenet quella vaga ombra seduta tra i più alti rami del ciliegio, pronta a spiccare il volo verso le stelle. Gli parve di sentirlo suonare e ne fu felice. «Amico, ti prego – così gli si rivolse – insegnami ad esser simile a te, sorridente e libero da affanni come l’acqua che scorre!».

    Il mattino seguente ogni cosa era stata predisposta per affrontare la prima tappa del viaggio che avrebbe portato i Viach di Perpignano al porto di Narbona. Là, il cinque di settembre, altre quattro famiglie di mercanti, con le rispettive imbarcazioni, avrebbero preso il largo insieme a loro.

    Philippe, con il figlio maggiore, guidava un carro carico di pregiate merci; su di un altro, condotto da un giovane di robusta costituzione, Jordan e Pierre tenevano a bada le galline, le anatre, i conigli, assieme a un buon numero di oche. In un terzo carro, di minori dimensioni, Coussa e due serve sedevano comodamente con gli orci dell’olio e del vino. Una ventina di muli trasportavano le casse con le granaglie e precedevano Arnaud che, seduto a cavallo con fare autorevole, discorreva con l’abate di Fontfroide della bellezza degli otto destrieri di Saint-Cyprien che sarebbero stati consegnati al principe di Rodi.

    Dopo quattro ore di cammino, raggiunte le terre del conte di Morrièn, fu decisa una sosta in una zona resa ombrosa da un gruppo di pini marittimi.

    «Coussa, hai tu il mio elenco degli ordini?», chiese Arnaud avvicinandosi al carro della cognata.

    «Sì, è nel baule che sta là dietro, sotto quei sacchi».

    «Accidenti! Come faccio a controllare se vi ho segnato il cardamomo per il conte d’Aguilar?».

    «Se è per questo non c’è bisogno della lista, ricordo con precisione l’ordine per Jean de la Cadène e per il conte d’Aguilar».

    «E forse ti rammenti dei chiodi di garofano?».

    «Sì, pure quelli vi hai segnato».

    «Oh, come sei brava, Coussa! E che Dio conservi la tua memoria! Ma ascoltami, ti prego, ho necessità di essere sollevato da un’altra preoccupazione».

    «Se posso, Arnaud; dimmi».

    «Vorrei ricordare a te e Philippe di non essere frettolosi nella scelta dei chiodi di garofano, poiché quelli che portaste cinque anni fa erano privi di fragranza e non sono riuscito a venderli al prezzo che avrei voluto».

    «Piuttosto – ribatté Coussa sorridendo, ma anche leggermente indispettita – spero che le stoffe di Tolosa tu le abbia messe dentro un baule con la lavanda, l’alloro e l’anice stellato... Ricordi in che orribile condizione sono arrivate alla contessa Azalais de Creteil le dieci coperte che ci aveva richiesto?».

    «Ancora pensi a quelle stramaledette coperte! Non mi era mai accaduto che le tignole entrassero in un baule sigillato e che le bucassero tutte».

    «Vedi! Siamo in molti a dover fare attenzione».

    «Ma questa volta ho messo le stoffe di Tolosa in una cassa in legno di noce, la migliore fra quelle di Brixa. Guarda quindi di riportarmela riempita fino all’orlo col lino di Aleppo!».

    «Credi possa scordare la cosa a cui più tengo?», replicò Coussa.

    «E le brocche d’argento? Vi ho scritto delle brocche d’argento?», chiese Arnaud sempre più inquieto per l’ormai prossima partenza.

    «Sì, pure di quelle hai scritto!», abbozzò Coussa nervosamente, anch’essa agitata, come sempre, nei giorni precedenti l’inizio di un viaggio.

    «E non dimenticatevi dell’abate di Saint-Gilles: desidera quantità spropositate di cannella... sembra non possa vivere senza!».

    «Sai cosa credo?», bisbigliò la cognata.

    «Che sono un uomo noioso, vero Coussa?»

    «No, non era di te che volevo parlare, ma dell’abate di Saint-Gilles!»

    «In questo caso, so cosa stai per dirmi: che l’abate rivenda la cannella a Thoronet, triplicata nel prezzo!»

    «Sì, è così, davvero questo avevo in mente!».

    Allora risero di gusto e si guardarono negli occhi, apertamente, in cerca di una reciproca rinnovata armonia.

    Raggiunsero l’abbazia di Fontfroide nell’ora del tramonto, mentre un forte vento, alzatosi sino dal primo pomeriggio, aveva sparso un po’ ovunque minacciose nuvole scure, orlate di rosso vermiglio. Il percorso per il porto Narbona subiva una lieve deviazione ma, oltre l’abate, anche Philippe aveva necessità di recarsi all’abbazia poiché là si era dato appuntamento con due mercanti di Tolosa per prendere in consegna i loro manufatti e venderli in Oriente.

    Il vicario di Fontfroide aveva fatto preparare una saporita cena e alcune stanze erano state disposte per offrire agli ospiti un decoroso riposo durante la notte. Il refettorio, allestito in maniera degna di così illustri visitatori, era illuminato dalle tenui luci di piccole candele che, intrecciate agli ultimi bagliori del giorno, infondevano una dolce calma negli animi di tutti.

    Sfumature color arancio lambivano la stanza trasversalmente, smorzandosi sulla lunga guida di velluto che i Viach e il loro seguito stavano calpestando per raggiungere la tavola. Gli ospiti osservarono, compiaciuti, i coltelli e i cucchiai in avorio, i tovaglioli di lino e i piatti in terracotta decorati con variopinte figure geometriche, mentre due meravigliose brocche d’argento, finemente lavorate, che Philippe riconobbe provenire dalla regione di Damasco, troneggiavano al centro del desco imbandito.

    «Ah, il potere del denaro! – affermò compiaciuto lo zio Arnaud rivolgendosi al nipote che gli camminava accanto – Vieni, caro Jordan, prima di iniziare il pranzo desidero presentarti a colui che sarà il tuo tutore a Narbona. Porta il mio stesso nome e sono certo che ti troverai bene come già ti accade con me».

    Jordan, educato, paziente e di gentile natura, si inchinò ad Arnaud Cathala che rimase ben impressionato dal timido sguardo del «mite agnellino».

    «Prega figliolo – gli disse padre Cathala – affinché il buon Dio perdoni anche i tuoi più piccoli peccati». Ed elargendogli un gentile scappellotto, abbozzò un sorriso che a Jordan parve avere ben poco di paterno.

    A tavola, come sempre e malgrado il luogo sacro, lo zio Arnaud mise a disagio i commensali alternando osservazioni argute a battute volgari, mentre con i suoi sguardi indiscreti, che rendevano ancor più invadente il tono alto della sua voce, andava in cerca di consensi e di approvazioni. Su ogni questione si sentiva in dovere di rendere noto il suo pensiero e se non fosse stato per il suo insaziabile appetito, che lo costringeva a riempirsi la bocca di continuo, nessun’altra voce avrebbe risuonato tra le volte a vela del vasto refettorio.

    «Dio santissimo, che carne prelibata! Sono certo che l’avete fatta arrivare da Limoux!», asserì Arnaud Viach con occhi larghi e gaudenti.

    «Complimenti al nostro gentile mercante: in quanto a cibo non commette mai un errore – dichiarò padre Cathala – ma in quanto al buon Dio, vi prego, lasciamolo in pace, dato che con questa carne non ha nulla a che spartire».

    «Invece, vi sbagliate, onorabile Cathala! – ribatté Arnaud – Non è forse una benedizione dell’Onnipotente poter mangiare una carne come questa? – e la risata che fece seguire non mancò di mortificare i presenti – Ehi, dico a te, giovane! – proseguì rivolgendosi con alterigia al tonsurato addetto alle bevande – Versami ancora questo vino miracoloso! Che bevanda salutare, come la preferisco all’acqua dubbiosa delle fonti!».

    Padre Cathala scosse allora la testa e unendo le mani in segno di preghiera fece un cenno al diacono di turno affinché iniziasse quanto prima a salmodiare.

    2

    Narbona, aprile 1206

    Il lungo e stretto scrittoio in ciliegio, sorretto da quattro eleganti colonne di legno intarsiato, era un oggetto indubbiamente di pregio, che Arnaud più volte aveva esortato Jordan a trattare con cautela; altrettanto preziosi erano la torciera dallo stelo in ferro battuto, l’ampolla con il balsamo di Giudea, il calice d’argento che si diceva fosse appartenuto alla principessa Asterope di Tiro. Nella stanza dove il giovane Viach alloggiava poche erano comunque le cose prive di valore: era stata la camera di Bonifacio, figlio primogenito di Arnaud e cavaliere al seguito di Riccardo Cuor di Leone per la conquista di San Giovanni d’Acri. Così, a testimonianza dell’amore e dell’orgoglio paterno, vi troneggiavano ancora, dopo oltre sedici anni, numerosi oggetti – quasi un insieme di reliquie – lasciati al medesimo posto in cui si trovavano il mattino in cui Bonifacio partì da crociato.

    Per tale motivo Jordan aveva avuto il permesso di utilizzare solo la clessidra dal piedistallo in marmo rosa. La capovolgeva spesso durante le ore del mattino e sovente la spostava dalla credenza al gradino sotto la finestra, per riporla, prima di andare a dormire, sul lato destro dello scrittoio, accanto a una conchiglia proveniente da Compostela regalatagli da un gentile sacerdote conosciuto a Fontfroide.

    Quella notte, però, la clessidra rimase poggiata sul pavimento, con Jordan sedutovi accanto, in attesa dell’alba: per obbedire a una precisa richiesta di padre Cathala, aveva trascorso in preghiera le ore prive di luce, ma il contatto che cercava con Dio era stato spesso interrotto dalla forte avversione che nutriva nei confronti del severo sacerdote. Allora apriva gli occhi e capovolgendo la clessidra si concedeva il tempo di un passaggio di sabbia per dare voce alla sua inquietudine e ascoltare i messaggi provenienti dal cuore.

    Padre Cathala lo aveva deluso: trascorso un primo anno di valido insegnamento, erano seguiti lunghi mesi in cui le sue esigenze di crescita interiore erano state completamente trascurate.

    «Ci sono urgenze che mi chiamano altrove, nuovi incartamenti da studiare, codici che ancora non conosco, indispensabili, tra l’altro, per il mio magistero». Così diceva a Jordan ogni qualvolta rimandava i loro incontri, oppure quando portava all’interno dei loro colloqui questioni di diritto canonico e prolissi documenti sulle nuove ordinanze papali, che inclusero, ad esempio, uno studio di intere giornate dedicato alla Bolla Pontificia di Lucio iii Ad abolendam, che elencava le più famose eresie allora diffuse e i numerosi metodi con cui reprimerle.

    Jordan, infine, se ne fece una ragione: qualcosa doveva essere accaduto durante l’ultimo soggiorno di Arnaud nella città di San Pietro, poiché una volta rientrato a Narbona, dopo tre mesi trascorsi in Laterano e uno a Montefiascone, il sacerdote pareva stimare l’educazione di un giovane di buona famiglia una questione di scarsissimo interesse. «Devi essere orgoglioso, caro Jordan, di avere come tutore un uomo che ha avuto modo di condividere alcuni colloqui con il sommo Pontefice e rallegrati per il nostro Pierre de Castelnau, scelto da lui come legato nelle nostre terre: per l’abbazia di Fontfroide e per la città di Narbona, inizia un momento di gloria celeste».

    Gli sembrava che Arnaud Cathala vivesse ormai nell’assoluta convinzione di essere divenuto l’esecutore di una missione affidatagli direttamente da Dio; per questo non si limitava a giudicare l’operato degli uomini con severità, la vita delle donne con disprezzo e la religione ebraica con disgusto, ma interveniva perentoriamente, disponeva ammende e ordinava penitenze a chiunque intralciasse o si ponesse innanzi al suo cammino. Nessuno, in definitiva, doveva contraddirlo e, forte del nome di Innocenzo iii, aveva fatto istituire un registro dove iscrivere coloro che non si recavano alla Santa Messa della domenica mattina. Un controllo «veramente necessario», secondo lui, «una vigilanza da eludere con monete d’oro», secondo altri, per ricondurre dinnanzi al Signore anche il più ostinato degli eretici.

    «Innocenzo iii regge il mondo con lungimirante bontà! – si compiaceva di sottolineare padre Cathala – In Lui la Divina Provvidenza si rallegra e con la santa Sua benedizione, che con merito ho ricevuto, la Luce Celeste è scesa anche su di me».

    Invece di approvare tali parole con debita ammirazione, Jordan si trovava spesso a osservare l’anello con lo zaffiro che il sacerdote portava al dito medio: una simile pietra, così grande e luminosa, non l’aveva mai vista, neanche tra quelle che commerciava lo zio Philippe. E nemmeno il labbro superiore di padre Cathala, rigido e sottile, come le sue mascelle, sempre serrate, davano l’idea che la Divina Provvidenza guidasse i pensieri dell’ambizioso prelato.

    Così, un mattino d’inverno, dopo mesi di sottomissione e di obbedienza, il giovane Viach trovò la forza per esprimere i suoi dubbi e la sua delusione: «Davvero il nostro Papa è un uomo pieno di bontà?», chiese a padre Cathala con tono provocatorio.

    «Certo, figliolo, ma che domanda è questa?!».

    «Secondo me, invece, il Papa non è del tutto buono come dite voi e anche Dio, mi pare, non è così benevolo e perfetto come sostengono gli autori che mi fate studiare: sulla Terra non vedo questa Divina Lungimiranza, mentre incontro uomini malvagi e gente che soffre senza saperne il perché!».

    «Jordan, il diavolo deve averti rubato il cuore, parli come uno dei quei dannati manichei! Hai forse incontrato un valdese, oppure nel palazzo dove abiti vive un seguace di Berenger?».

    «No, padre Cathala, è che ieri al mercato ho visto due uomini pugnalarsi a morte e il loro sangue scorrere a fiotti sulla piazza; poi, mentre correvo impaurito verso casa, mi sono imbattuto in un cavaliere che con una lancia affilata ha trapassato il corpo di un giovane che implorava pietà. Non è forse questo l’Inferno di cui mi avete spesso parlato? Non sono forse la stessa cosa l’Inferno e questa Terra che ci ignora e mal ci accoglie?».

    «Oggi – con veemenza il sacerdote coprì la voce del ragazzo – comincerai le preghiere mezz’ora prima del tramonto e resterai fino alla ora sesta in ginocchio! In questo modo potrai comprendere quanto sia duro chiedere perdono a Dio una volta pronunciate simili bestemmie! Domani, invece, vedremo se ti sarà ancora concesso

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