E io non pago!: Perché l'Italia deve dire no al ricatto del debito pubblico
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E io non pago! - Andrea Bizzocchi
umanità.
Capitolo uno
La morte di Lincoln fu un disastro per la Cristianità. Non v’era negli Stati Uniti un uomo che fosse abbastanza grande da calzare i suoi stivali e i banchieri hanno rinnovato i loro sforzi per impossessarsi delle ricchezze del mondo. Temo che saranno proprio loro, con la loro astuzia e con i loro espedienti tortuosi, ad assumere pieno controllo delle abbondanti ricchezze dell’America e a servirsene sistematicamente per corrompere la moderna civiltà. Essi non esiteranno a far sprofondare l’intera Cristianità nelle guerre e nel caos, affinché la Terra diventi loro proprietà.
– OTTO VON BISMARCK,
CAPO DEL GOVERNO PRUSSIANO
Che cos’è il debito pubblico
Il debito pubblico è dato dalla somma dei disavanzi tra le entrate e le uscite nel bilancio di uno Stato. Se le entrate e le uscite si equivalgono avremo un pareggio di bilancio e quindi nessun debito. In caso di disavanzo avremo invece un debito. I fattori che generano il debito pubblico possono essere molteplici. Il debito può determinarsi infatti per una diminuzione delle entrate a fronte di uscite stabili o in aumento, o per un aumento delle uscite a fronte di entrate stabili o in diminuzione, o per un aumento sia delle entrate che delle uscite, con le seconde però superiori alle prime. Quindi, se da una ipotetica parità di bilancio nell’anno x l’anno successivo le entrate aumentano di 1 e le uscite di 2, ecco che automaticamente avremo un deficit di bilancio. Ma il problema non è questo, e vedremo poi perché. In linea generale possiamo definire il debito pubblico come quel debito che lo Stato ha contratto nei confronti di banche, Stati esteri, imprese, individui, cioè quei soggetti che hanno acquistato i suoi titoli (BOT, BTP, CCT ecc.).
Il risultato della redazione del bilancio pubblico (che mette a confronto le entrate e le uscite di un Paese) è chiamato avanzo primario (più entrate che uscite) o disavanzo primario (più uscite che entrate). Orbene, nel trentennio che va dal 1980 al 2011 l’Italia ha avuto un avanzo primario di 484 miliardi di euro,¹ cioè la somma aggregata delle spese del trentennio è stata inferiore alla somma aggregata delle entrate.
Com’è possibile dunque, si domanderà il lettore, che l’Italia abbia un debito pubblico che nel 2011 ammontava all’iperbolica cifra di 1.897 miliardi di euro? Il fatto è che l’Italia nello stesso periodo ha pagato 2.141 miliardi di euro di interessi (leggasi d-u-e-m-i-l-a-c-e-n-t-o-q-u-a-r-a-n-t-u-n-o). La tabella sottostante ci aiuta a comprendere la struttura del debito pubblico italiano relativamente all’ultimo trentennio:
Tabella del debito dell’Italia relativa al periodo 1980/2011
Capire il debito pubblico
L’economia, come qualunque altra scienza, appare materia di difficile comprensione. E certamente lo è, per il semplice motivo che è fatta di artifici, termini, sovrastrutture di ogni tipo, il tutto appositamente creato per confondere il comune cittadino, per farlo sentire non all’altezza, per tenerlo sotto
, impaurito, di modo che sia egli stesso a voler delegare ad altri (economisti ed esperti in genere) ciò che potrebbe benissimo capire da solo.
L’economia ufficiale, quella dei grandi numeri, dello spread, dei tassi d’interesse, dei debiti sovrani, dei titoli di Stato, delle misure di austerity (che più onestamente dovremmo chiamare misure di macelleria sociale
), dei subprimes, dei futures, delle deregulations, dei tassi di cambio delle valute e quelli di interesse delle banche, delle cartolarizzazioni e chi più ne ha più ne metta, non ha assolutamente nulla a che vedere con l’economia di cui il comune cittadino vive. Nulla. Bisogna metterselo in testa, altrimenti ci facciamo fuorviare. Bisogna avere ben chiaro in mente che l’intero sistema economico è fondato su un enorme inganno e più tale inganno si protrae e si complica, più è difficile uscirne fuori. Al contrario, l’economia reale, che è quella che ci interessa perché è grazie a questa che il comune cittadino vive, è di una semplicità estrema. È un’economia reale perché fatta di merci e servizi che sono ricchezza della comunità e per i quali giustamente paghiamo. Punto e basta. Una qualunque società che emette moneta per gestire la propria economia reale (merci e servizi) non avrà alcun problema di debito. Ne consegue che il debito pubblico (o sovrano) non è altro che una truffa.
Quanto detto sopra mette in chiaro che l’esplosione del nostro debito, che i poteri forti vogliono far passare come causa della crisi
economica che attanaglia il nostro Paese oramai da anni, non ha in realtà nulla a che vedere con essa. L’esplosione del debito pubblico italiano parte da lontano ed è semplicemente un inganno atto a colonizzare il nostro Paese (così come più o meno, con lo stesso trucco, sono stati colonizzati in maniera anche molto più furfantesca i paesi ricchissimi di risorse del Terzo mondo. E, diciamocelo francamente, non abbiamo mai avuto granché da ridire. Ci accorgiamo del problema oggi, che nel frullatore del debito ci siamo anche noi), a fare perdere competitività alle sue aziende, a privatizzare i suoi beni pubblici.
Facciamo un passo indietro. Uno Stato si indebita quando emette titoli di Stato per finanziarsi, cioè per finanziare le proprie spese e/o per coprire l’eventuale deficit di bilancio. Ma un ulteriore passo a ritroso è opportuno: nei confronti di chi si indebita lo Stato? Lo Stato si indebita nei confronti di individui, imprese, altri Stati, ma anche e soprattutto nei confronti della Banca centrale di riferimento, che nel caso dell’Italia è la BCE.
Il divorzio
(tra il Tesoro e la Banca d’Italia)
Perché mai però l’Italia, che almeno ufficialmente secondo la nostra Costituzione è uno Stato sovrano, dovrebbe indebitarsi verso un soggetto terzo, cioè la BCE, che per soprammercato non è altro che una società per azioni in mano dunque a privati cittadini? Questa cosa non è data intendersi, ma la risposta è che non dovrebbe affatto. Lo Stato per finanziarsi emette promesse di pagamento (BOT, CCT, BTP ecc.) sulle quali si impegna a pagare interessi e a fronte di tali promesse di pagamento la BCE emette il denaro che presta all’Italia.
Come può a questo punto l’Italia ripagare il proprio debito? Le possibilità sono essenzialmente due: o si aumenta la pressione fiscale e al tempo stesso si riduce la spesa pubblica (lo Stato sociale del Paese), oppure, in alternativa, si contrae un altro debito per chiudere il primo. Questo ulteriore prestito però non fa che sprofondare il Paese nella voragine del debito infinito. Allo stato attuale delle cose, le due politiche vengono attuate simultaneamente. Ma c’è un’altra domanda, molto più pressante, che è la seguente: perché mai un Paese può emettere titoli di Stato (cioè promesse di pagamento) ma non moneta (che è ugualmente una promessa di pagamento)? La risposta è molto facile e scontata. Perché nel primo caso ci guadagnano gli usurai della BCE, mentre nel secondo l’emissione di moneta da parte dello Stato andrebbe a beneficio della collettività.
Il problema del debito pubblico italiano nasce nel luglio del 1981 con il cosiddetto divorzio
tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia. L’operazione, portata avanti dal ministro dell’Economia Beniamino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, sancisce, tra le altre cose, la fine dell’obbligo da parte della Banca d’Italia di acquistare i titoli rimasti invenduti alle aste. L’operazione abbassò sì l’inflazione (che nei primi anni ’80 si attestava attorno al 20%), permettendo all’Italia di rientrare nei parametri SME (Sistema Monetario Europeo),² ma contestualmente, e non poteva essere diversamente, provocò l’esplosione del debito pubblico.
In breve la Banca d’Italia divenne privata e questa manovra, in aggiunta all’aumento del debito pubblico, provocò una fragilità strutturale nel Paese, che si trasformò in fragilità congenita. Mancando infatti una Banca Centrale che si impegna ad acquistare il debito pubblico, i titoli di Stato sono in mano alla speculazione privata, italiana e anche straniera. Allo stesso tempo assistiamo alla trasformazione in comuni S.p.A. di importantissime aziende pubbliche, tra cui sarà opportuno ricordare IRI, ENI ed EFIM.³ La riforma Draghi-Prodi (entrambi uomini di Goldman-Sachs) del ’99⁴ autorizza gli istituti di credito e di risparmio a speculare
in derivati e simili con i soldi dei risparmiatori. Questi sono i fatti, esposti succintamente, che hanno portato l’Italia alla situazione attuale.
La crisi
è dovuta a un problema di liquidità e le misure di austerity, ufficialmente vergate per far fronte al debito pubblico, non sono altro che una sporca scusa per affossare ulteriormente il Paese, dal momento che gli tolgono proprio quella liquidità necessaria per fare ciò che ogni moderna economia fa: investire, produrre, comprare (che poi questo sia un meccanismo idiota e insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale e anche esistenziale per l’uomo, che ne rimane vittima, è un altro paio di maniche). Negli USA le cose vanno in modo simile ma al tempo stesso diverso. La crisi
è arrivata prima che da noi, ma la Fed, in meno di 3 anni (dicembre 2007 – luglio 2010) ha immesso liquidità nel sistema bancario per 16.000 miliardi di dollari (cioè una cifra superiore allo stesso debito USA), mentre la BCE lo fa per qualche migliaio di miliardi di euro (che dà sempre alle banche).⁵ E allora, se si danno migliaia di miliardi alle banche per speculazioni finanziarie, la conclusione può essere solo una: dietro questa scelta c’è una volontà ben precisa di privilegiare il sistema bancario e speculativo da un lato e affossare Stati e popolazioni dall’altro. Varrà la pena sottolineare come la semplice stampa
arbitraria di questo denaro permette agli USA o a chi per loro di comprare materie prime, armamenti ecc. e di fare speculazioni finanziarie che poi si pretende vengano ripagate dalle popolazioni, cioè dall’economia reale.
Come si è formato il debito pubblico italiano
All’epoca del boom economico, nella prima metà degli anni ’60, il debito pubblico italiano era molto basso, ma già nel decennio successivo le cose cambiano e alla fine degli anni ’70 il nostro debito, in rapporto al PIL, si attesta sul 60%. La vera e propria impennata, tuttavia, si ha negli anni ’80, contestualmente, guarda caso, al già citato divorzio
tra il Tesoro e la Banca d’Italia. L’ascesa prosegue fino al 1994 (121,8%),⁶ quando la necessità di rientrare nei parametri imposti da Maastricht avvia un processo di parziale riduzione del debito italiano. Va però sempre ricordato che questo successo
avvenne al costo di privatizzazioni e svendite, che sono del resto il vero obiettivo dei creditori. Ma gli interessi fanno il lavoro per cui sono stati inventati dagli usurai del debito, e questo, per l’appunto, riprende a salire. La tabella a seguire è piuttosto esplicativa:⁷
Il debito pubblico, abbiamo detto, riprende a salire. E se è certo vero come abbiamo scritto nell’introduzione, che politiche di prepensionamento, rendite clientelari, corruzione ed evasione (soprattutto dei grandi capitali e delle banche, non dei gelatai. Quella non è evasione. È sopravvivenza) concorrono al peggioramento della situazione, la questione di fondo rimane sempre la stessa: gli interessi. Interessi che si creano quando l’Italia, per finanziare la propria spesa, è costretta a vendere a banche private i propri titoli di Stato. È ovvio, lo capisce anche un bambino, che se si pagano interessi a banche private anziché alla Banca d’Italia (che era la banca degli italiani) la questione cambia. Pagare interessi a banche private significa infatti pagare interessi a terzi, mentre pagare interessi alla Banca d’Italia significherebbe pagare interessi a noi stessi; sarebbe cioè una partita a gioco zero. Guarda caso oggi l’85% del debito pubblico italiano è detenuto da istituti finanziari italiani e soprattutto esteri.⁸ Se è vero che il debito pubblico italiano prende a salire con il famoso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981, la questione si ripeterà in maniera ancor più drammatica con l’entrata nell’area euro.
A cosa è dovuta dunque l’impennata del debito pubblico italiano? All’alto tasso di interessi, molto più alto di quello di altri Paesi, che l’Italia ha sempre pagato. Nel 1994 il rapporto debito/PIL del nostro Paese raggiungeva altezze da vette himalayane: 121,8% e i tassi di interesse che l’Italia pagava erano pari al 13% contro "un