La Buona moneta: Come azzerare il debito pubblico e vivere felici (o solo un po' meglio)
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Le politiche di austerità volte ad arginare il debito si sono rivelate inefficaci, oltre che dolorose. In un’Italia afflitta da disoccupazione e vaste sacche di indigenza occorrono provvedimenti adatti a promuovere consumi, investimenti, occupazione e reddito. E il loro ineludibile presupposto è la disponibilità di moneta.
Ma come procurarsela in presenza di un debito pubblico abnorme e di regole europee che ne impongono il drastico ridimensionamento?
L’unica risposta a esigenze così contrastanti è che il nostro debito pubblico venga rimborsato con una nuova moneta nazionale a corso forzoso. In più occasioni, Lega e M5S hanno preso le distanze dall’euro e caldeggiato la creazione di una moneta italiana. La posizione di Pierangelo Dacrema è radicalmente diversa. In modo chiaro, asciutto e convincente, questo libro mostra che il benessere della nostra nazione non sta nell’uscita dall’euro. E che un’Italia alleggerita dal debito e dotata di una propria moneta diventerebbe più forte, a tutto vantaggio dell’euro e dell’Europa
Pierangelo Dacrema
Pierangelo Dacrema è professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Ha insegnato nelle Università di Bergamo, di Siena, alla Cattolica, alla Bocconi e alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Oltre a numerosi libri di carattere accademico, ha pubblicato Il miracolo dei soldi. Come nascono, dove vanno, come si moltiplicano (Etas-RCS, 2010) La crisi della fiducia. Le colpe del rating nel crollo della finanza globale (Etas-RCS, 2008), La dittatura del PIL (Marsilio, 2007), Trattato di economia in breve. Frammenti di filosofia del gesto (Rubbettino, 2005), La morte del denaro. Una rivoluzione possibile (Christian Marinotti, 2003). È padre di quattro figli, di cui i primi tre sono studenti universitari.
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Anteprima del libro
La Buona moneta - Pierangelo Dacrema
Premessa
Alcune precisazioni iniziali sono utili per capire meglio contenuti e intenti di questo lavoro.
La prima riguarda le dimensioni del debito pubblico italiano. Dopo la disoccupazione, e con innegabili effetti aggravanti su di essa, l’abnormità del nostro debito pubblico è il principale dei nostri problemi economici. Da decenni se ne discute non solo senza averlo risolto ma, anzi, assistendo al suo progressivo aggravamento. Qualunque pallone che continui a gonfiarsi è destinato a scoppiare. Qualunque diga, per quanto ben costruita, rischia di crollare se sottoposta a pressioni anomale e crescenti. È appunto questo l’oggetto della prima precisazione: la consapevolezza che si deve avere di tale realtà fisica
prima ancora che economica.
La seconda è che l’adesione dell’Italia al cosiddetto Fiscal Compact1 assomiglia, più che a un azzardo, a una scommessa persa in partenza. Chi troverebbe il coraggio di chiedere a un governo – qualunque governo del nostro Paese – di promuovere un abbattimento sistematico del debito pubblico nell’ordine di una cinquantina di miliardi all’anno? Chi sarebbe così ingenuo o sprovveduto da credere alle parole di un primo ministro che promettesse di farlo?2
La terza sottolineatura concerne l’importanza di questi temi – quello dell’entità del debito pubblico italiano e dell’ostacolo che pone alla realizzazione degli investimenti necessari per favorire occupazione e reddito – dal punto di vista non solo dell’Italia ma anche dell’Europa. Dato il ruolo del nostro Paese nel nostro continente, è infatti ragionevole credere che quanto è bene (o male) per l’Italia lo sia automaticamente anche per l’Europa. E che quest’ultima condivida tale modo di vedere, o sia tenuta a condividerlo. Detto di passaggio, corollario di questa sottolineatura è che ciò che mi accingo a fare è un discorso europeista, dichiaratamente favorevole all’aggregazione e alla sua auspicabile evoluzione, non certo al suo contrario, a cui non associo una prospettiva interessante né tantomeno preferibile.
L’ultima precisazione è di natura, per così dire, più intima, e riguarda il mio rapporto con la moneta come oggetto di studio e, più in generale, come oggetto sociale. Il tema delle prossime pagine è chiaramente economico, con riferimento particolare alla specificità della situazione italiana. Al centro di questo tema c’è, appunto, la moneta. Che, come di norma accade, sarà rappresentata nella sua qualità di problema
– l’eccesso del debito pubblico italiano è nato dal bisogno di disporre di moneta che non fosse necessariamente di nuova emissione da parte di una banca centrale – e, al tempo stesso, soluzione del problema.
Quasi tutti i ragionamenti d’economia, infatti, finiscono fatalmente per riconoscere nel denaro – quasi sempre in una diversa, preferibile, distribuzione del medesimo – lo strumento per risolvere il problema di cui si occupano. E il mio ragionamento, sotto questo aspetto per nulla innovativo, si atterrà a questo canone. Niente di male, si potrebbe osservare. Vero. Però potrebbe suonare strano un tale modo di procedere da parte di chi, come me, considera da tempo la moneta un mezzo (un fine) superabile, difettoso, limitato come tutti gli strumenti che sono stati inventati e hanno avuto un loro esordio, una loro storia e un loro epilogo: un mezzo sostituibile da altri più moderni e sofisticati strumenti (modi di essere e di pensare).
Da qui la precisazione. Non ho affatto smesso di credere, in maniera che a torto o a ragione potrebbe sembrare utopistica, alla necessità di orientarsi verso un’economia post-monetaria.3 Ma so anche che si tratta di un obiettivo perseguibile solo per fasi. Sono il primo a riconoscere che, al momento, il denaro – la moneta, nella sua materializzazione storica attuale – è ancora troppo radicato nella mente di chiunque. E che lo è come fine più ancora che come mezzo. Per questo ho assunto un atteggiamento di tipo keynesiano. Verrà il giorno in cui la sete di denaro sarà riconosciuta come un morbo da consegnare alla cura degli esperti in malattie mentali,4 e il fatto di aver regolato il risparmio e tutti gli scambi sulla base del parametro monetario come l’errore di aver trattato il gioco dei sassolini o delle figurine alla stregua della parte più importante della nostra vita. Ma quel giorno non è ancora arrivato. Ho trattato quindi la moneta per ciò che è considerata oggi, da tutti o quasi: problema e soluzione del problema.
Rimarrebbe deluso chi cercasse in questo lavoro un’abbondanza di dati. Anche in forza della brevità del testo, i numeri su cui ho ragionato sono pochi, essenziali. Così come pochi ed essenziali, ma in compenso macroscopici e largamente conosciuti, sono i problemi economici del nostro Paese legati a questi numeri. Scopo del lavoro, infatti, non è illustrare una situazione bensì svolgere una serie di riflessioni utili per dar corpo a un’idea. E ciò nella speranza che quest’idea – una volta discussa, approfondita e perfezionata – possa servire a correggere una condizione economica che da troppo tempo mette a disagio una moltitudine di persone.
Questo saggio è quindi una raccolta di spunti per un’economia del futuro alla luce di certe esperienze del passato. Per quanto superfluo, sottolineo pertanto che non si tratta di un trattatello scientifico, bensì di un contributo al dibattito per favorire decisioni di politica economica che giudico urgenti per il nostro Paese.
Concludo questa premessa confessando di condividere in pieno un’altra convinzione di John Maynard Keynes. Le idee, in un senso importante, hanno un peso ancor più rilevante dei fatti, e ciò perché dei fatti sono le dirette responsabili, riuscendo talora a formularne versioni diverse e più avanzate. Per questo non dovremmo mai stancarci di cercarne una che ci aiuti anche solo un poco a cambiare in meglio il mondo e il modo in cui si vive.
1 Il Fiscal Compact è il Patto di bilancio europeo – sul piano formale, Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance dell’unione economica e monetaria –, cioè un accordo sancito con il Trattato internazionale del 2 marzo 2102 da 25 dei 28 Stati membri dell’Unione Europea.
2 Non a caso il debito pubblico italiano è cresciuto nell’anno stesso della sottoscrizione del patto, passando dai 1897 MLD di euro di fine 2011 ai 1988 MLD di fine 2012. Ed è continuato a crescere, costantemente, negli anni successivi (2218 MLD a fine 2016).
3 Si veda, per esempio, P. Dacrema e C. Della Beffa, La morte del denaro. Una lezione di indisciplina , Jaca Book 2016; P. Dacrema, I vantaggi di un’economia post-monetaria
, Rivista di Estetica , 62, 2016.
4 J.M. Keynes, Economic Possibilities for our Grandchildren
, in Essays in Persuasion , London Macmillan, 1931 (trad. it. Esortazioni e profezie , Il Saggiatore di Alberto Mondadori, 1968).
Prima parte
Considerazioni sulla potenza della moneta
1. L’origine dell’idea
L’idea all’origine della proposta che formulerò in modo articolato nella terza parte di questo lavoro non è affatto nuova. Nuova semmai è la proposta, anche sotto l’aspetto tecnico. L’idea, infatti, è stata non solo formulata ma anche applicata con successo nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, ed è alla base del miracolo
compiuto dalla politica economica del governo nazionalsocialista prima della sciagurata decisione di scatenare la guerra in Europa e nel mondo. A tale proposito credo che si possa trovare ormai ampio consenso sul principio per cui una condanna senza appello del nazismo per gli orribili delitti e le devastazioni di cui si è reso responsabile sia compatibile con un’analisi degli apprezzabili risultati da esso ottenuti, fino al 1937, sul piano economico-sociale. Studiosi come Joachim Fest non hanno esitato ad ammettere1 che, se Hitler fosse morto prima del 1938 – o non avesse invaso l’Austria perseverando poi nel folle disegno che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale –, sarebbe stato ricordato come un grande statista tedesco, forse il più grande.
Quando Adolf Hitler, nel gennaio del 1933, riceve da Paul von Hindenburgh l’incarico di formare il nuovo governo, la Germania è un Paese allo stremo. Sono fatti noti, ma è il caso di ricordarli brevemente. Una trentina di partiti e sei milioni e mezzo di disoccupati – poco meno di un quarto della forza lavoro del Paese – rendono la situazione potenzialmente esplosiva. La nazione è oberata di debiti per le riparazioni di guerra, praticamente impossibili da pagare, l’indigenza è diffusa, un gran numero di famiglie e di individui è alla fame. Ed è proprio cavalcando questo malcontento che lo NSDAP – Nazionalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei – ottiene un risultato elettorale più che soddisfacente. Con le parole roboanti e lo stile tipici di un dittatore che si trova a un passo del potere assoluto, Hitler fa alcune promesse ai tedeschi. E le mantiene.
Con un Rudolph Hess sorridente e ammiccante al suo fianco, si rivolge a un pubblico osannante ricordando che lui e i suoi seguaci erano in sette, all’inizio. E che ora sono diventati milioni. Per questo potrà permettersi di selezionare, allontanare gli opportunisti e gli incapaci, scegliere i migliori. Parlando d’economia, giura di avere come unico obiettivo il benessere del popolo tedesco, e assicura di tenere ben presente come la prosperità nasca dal lavoro, dall’attività del popolo, e non dal denaro, che ne è banale