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Diario della crisi
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E-book388 pagine5 ore

Diario della crisi

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L’uscita dalla crisi non è ancora all’“ordine del giorno”, nonostante i proclami dei nostri politici e non può avvenire a “prescindere” dalle azioni dei nostri partner europei. È una pura illusione immaginare che una eventuale uscita dell’Italia dall’Euro porterebbe dei vantaggi, come vanno ripetendo populisti presenti sia nel Nord che nel Sud del nostro Paese. Cionondimeno – e questo aspetto è ben evidenziato nel libro – l’Italia non deve assumere un atteggiamento troppo acquiescente rispetto ai partner europei considerati più forti ma deve far valere le proprie ragioni.

Se è vero che i motivi della crisi, come ci è stato ripetuto ormai da anni, sono da ricercare a livello internazionale, bisognerà pure chiedersi da chi è rappresentato questo livello internazionale. Non si può credere che anche paesi forti come la Germania o gli Stati Uniti (questi ultimi abilissimi nello scaricare la loro crisi sull’Europa), non abbiano visto e sentito che cosa accadeva in Irlanda, in Spagna e in Grecia, dove tutto si svolgeva alla luce del sole e con la benedizione delle agenzie di rating.

Il libro quindi ripercorre gli ultimi due anni di vita economica dell'Europa e non solo: gli influssi della crisi americana scoppiata con il crack Lehman, il ruolo della Germania e la crisi politico-economica dell'Italia. Due anni vissuti pericolosamente dal mondo economico ripercorsi attraverso le tappe fondamentali.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2013
ISBN9788868556266
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    Diario della crisi - Luigi Borrelli

    DIARIO DELLA CRISI

    Luigi Borrelli

    INDICE

    Presentazione 2

    Prefazione 3

    2011 5

    Aprile/Maggio - Documento di Economia e Finanza 2011, l’eterno conflitto tra stabilità e crescita 5

    Giugno - Referendum, Europa e riforma fiscale: il labirinto di Tremonti 5

    Luglio - Bilancio comunitario e regolamentazione bancaria, prove di convivenza europea 6

    Agosto - La ricetta economica del Governo: decreti, fiducia e fantasia 6

    Settembre - I pericoli di una manovra a crescita zero ed il ruolo dell’Europa 7

    Ottobre - Il meccanismo imperfetto del rating ed il fondo salva-Stati 7

    Novembre - L’apice della crisi: il Governo Monti e la scalata all’Europa 8

    Dicembre - Il pareggio di bilancio, le misure anti-spread e la manovra di Natale 9

    2012 10

    Gennaio - La marcia di Monti verso il recupero dell’immagine italiana 10

    Febbraio - La lotta agli evasori, i timori per il default greco e le credenze sul debito pubblico 11

    Marzo - Dal sostegno alle banche al fallimento della Grecia, passando per la riforma Fornero 12

    Aprile - L’avvitamento dell’Europa e la vittoria di Hollande 14

    Maggio - La Spending Review e l’incubo di una exit strategy dall’Euro 15

    Giugno - La strada verso il Consiglio Europeo, tra campanelli d’allarme ed aspettative eccessive 16

    Luglio - La crisi dei modelli federalisti e le prospettive future 18

    Agosto - La guerra di Monti 19

    Settembre - Il ruolo della BCE ed i venti di protesta 19

    Ottobre - Supervisione bancaria e riforma del Titolo V 21

    Novembre - La confusione europea tra conti pubblici, bilancio comunitario e salvataggi bancari 22

    Dicembre – Le tragedie greche e l’avvicinamento alle elezioni 23

    2013 24

    Gennaio – L’economia in campagna elettorale, tra Europa ed IMU 24

    Febbraio – L’austerity in Europa: nuovo bilancio e restrizioni fiscali 24

    Marzo – Il caos elettorale e le questioni post-voto 25

    Aprile – La Crisi cipriota ed il (nuovo) Presidente della Repubblica 26

    Maggio – Nuovo governo, le sfide di sempre 27

    Giugno – Le belle intenzioni: credito alle imprese e lavoro ai giovani 28

    Luglio – Il caso Snowden e le debolezze europee 30

    Glossario 32

    Presentazione

    Gian Maria Fara, Presidente Eurispes

    Mi fa particolarmente piacere scrivere questa presentazione del libro di Luigi Borrelli per una serie di motivi non formali. Luigi è un giovane economista con una ottima formazione universitaria e ormai con una buona frequentazione di organismi internazionali. È stato, infatti, alla Banca Europea per gli Investimenti e poco prima ha lavorato alla Commissione Europea. Rispetto a tanti altri giovani, quindi, queste esperienze gli hanno consentito di ampliare il suo orizzonte permettendogli di guardare ai fatti nostri con una ottica e una visione più ampia.

    L’uscita dalla crisi – che non è ancora all’ordine del giorno nonostante i proclami dei nostri politici – come spesso Luigi Borrelli ci ricorda nel suo libro, non può avvenire a prescindere dalle azioni dei nostri partner europei. È infatti una pura illusione immaginare che una eventuale uscita dell’Italia dall’Euro porterebbe dei vantaggi, come vanno ripetendo populisti presenti sia nel Nord che nel Sud del nostro Paese. Cionondimeno – e questo aspetto è ben evidenziato nel libro –l’Italia non deve assumere un atteggiamento troppo acquiescente rispetto ai partner europei considerati più forti ma deve far valere le proprie ragioni.

    Se è vero che i motivi della crisi, come ci è stato ripetuto ormai da anni, sono da ricercare a livello internazionale, bisognerà pure chiedersi da chi è rappresentato questo livello internazionale. Non si può credere che anche paesi forti come la Germania o gli Stati Uniti (questi ultimi abilissimi nello scaricare la loro crisi sull’Europa), non abbiano visto e sentito che cosa accadeva in Irlanda, in Spagna e in Grecia, dove tutto si svolgeva alla luce del sole e con la benedizione delle agenzie di rating. C’è un periodo nella prefazione del libro che mi piace ricordare e che dà, a mio avviso, il senso del ruolo dell’Europa come gestore della crisi. In poche parole, Luigi si chiede giustamente come sia possibile spiegare ai cittadini greci che, mentre gli istituti di credito hanno ricevuto centinaia di miliardi per ricapitalizzarsi, Atene abbia dovuto attendere sei mesi per ottenere l’ultima tranche di aiuti finanziari. Di fronte a questi fatti, si chiede ancora Luigi, possiamo affermare che i moti di protesta siano animati solo da cittadini fanatici anti-europei e nazionalisti, come si è cercato di far intendere? È evidente che non può essere, anzi è ancora più evidente che è un simile atteggiamento che porta, alla fine, ai successi elettorali di formazioni addirittura neonaziste come Alba Dorata in Grecia.

    Il libro cerca di dimostrare, e a mio avviso ci riesce, che solo attraverso un profondo rinnovamento nei meccanismi di governance europea, la deriva estremista può essere evitata e su questo punto sembra siano stati fatti pochi passi in avanti.

    Veniamo alla parte centrale del libro: la gestione della crisi in Italia. L’analisi evidenzia con cura ciò che è accaduto dalla gestione Tremonti a oggi. C’è una prima fase in cui il tratto più lampante è dato dalla negazione della crisi, tanto esasperata da far impallidire le teorie di Irving sul nazismo. Ristoranti pieni, voli al completo, anche magari vendite di gioielli a quintali. Era questo che il governo Berlusconi voleva mostrare agli italiani, forse per nascondere la inadeguatezza del suo governo nella gestione della crisi. Si è assistito di fatto ad una rimozione di quanto accadeva e questo effetto, provocato dall’alto, ha avuto poi gravi ripercussioni sul nostro Paese. Alla fine, specie su pressioni internazionali, il governo Berlusconi ha dovuto lasciare. A questo punto si è manifestata in pieno la crisi della politica. Una delle più grandi democrazie del mondo, l’Italia, rinuncia alla politica elettiva per affidarsi ai professori. Il libro discute sulla utilità di questa scelta e lascia al lettore un giudizio, anche se fa notare che dal punto di vista della credibilità non si possa negare un effetto positivo del Professore. Se questo è vero è anche vero che gli annunci di Monti – rigore, crescita ed equità – sono rimasti sulla carta soprattutto per quanto riguarda crescita ed equità. Anzi, alcune riforme, come quella Fornero sul lavoro, hanno di fatto aggravato i problemi: basti pensare agli esodati, ancora oggi in eredità al governo Letta.

    Oltre a tutto ciò, il governo Monti ha lasciato aperti temi come l’IMU e l’aumento dell’IVA che non stanno certo contribuendo a creare un clima favorevole verso misure di sviluppo.

    È in questo periodo che sigle come BEI, BCE, FMI, o parole come spread, bond, eurobond sono diventate comuni tra la gente, anche se non sempre se ne capiva appieno il significato, ma soprattutto il loro nesso con la crisi. Ebbene, in questo senso il glossario della crisi, presente alla fine del libro, rende facile, grazie alla scrittura fluida, inquadrare i termini nel contesto. Uno dei pregi di questo libro, infatti, è quello di rendere semplice ma non banale la trattazione e a ciò contribuisce anche la forma, quella del diario. Inoltre, sebbene la trattazione economica sia predominante, Luigi Borrelli non ha mai dimenticato di umanizzare l’economia inserendola, anzi direi quasi circondandola, con la politica e rendendola più comprensibile. Insomma, l’economia qui non è la mera raccolta di dati, numeri e previsioni, ma è una scienza dell’uomo che regola la nostra vita e che può essere regolata dall’uomo in una visione non fatalistica degli avvenimenti.

    Siamo arrivati, infine, ai nostri giorni – forse dovremmo dire tristi giorni. Dalle elezioni che non hanno dato maggioranze certe per la formazione di un governo stabile, siamo passati alla necessità di interventi salvifici, come quelli di Napolitano, che hanno di fatto di nuovo commissariato il Paese. Non solo i partiti non sono riusciti a formare un governo autonomamente, ma non sono riusciti nemmeno ad eleggere un Presidente della Repubblica. Di fronte ai problemi seri e irrisolti, ai quali dovrebbe dedicarsi il governo Letta-Berlusconi (e non si tratta di un lapsus), assistiamo a liti e scambi di accuse tra i partiti che pure sorreggono il governo. Si pensa di riformare la Costituzione cercando di dimostrarne la necessità assoluta e non si riesce a trovare l’accordo su una legge elettorale che eviti, in caso di nuove elezioni, l’attuale stallo. Eppure il Presidente, all’atto della formazione del governo, l’aveva definita una priorità. Intanto crescono movimenti che predicano l’uscita dall’Euro se non addirittura dall’Europa, movimenti che trovano una notevole audience. È chiaro che in questa situazione affrontare i pressanti, quelli sì, problemi economici e occupazionali, piuttosto che discutere di presidenzialismo o semipresidenzialismo, diventa una operazione veramente ardua e quelli che sono stati definiti gli allievi del professor Monti, dovrebbero dare quelle opportune risposte alla crisi che il Paese si aspetta. La domanda a questo punto è semplice: ne saranno capaci? Il libro non lo dice, perché il raconto termina a con la data del luglio 2013, ma lo fa capire.

    Prefazione

    Questo libro ha l’obiettivo di raccontare una delle fasi più critiche del nostro Paese: la crisi economica, ancora in corso, che fu negata per lungo tempo dalla classe politica al governo. Il diario, tale è la forma del libro, affronta le vicende degli ultimi due anni, dai primi timori sulle finanze pubbliche all’avvento del governo tecnico, dalle manovre lacrime e sangue alle riforme liberiste, fino all’accordo di grande coalizione. Tutto ciò tenendo in forte considerazione le dinamiche europee. Gli avvenimenti sono descritti in modo divulgativo, una volta si sarebbe detto popolare, ma tenendo conto della loro complessità, in modo che la trattazione non risulti banale.  Si cerca di indagare nel merito dei rapporti di causa-effetto che hanno portato a decisioni spesso dolorose, cercando di capire le argomentazioni che sottostanno a determinate linee di pensiero. Si è cercato, in altre parole, di spiegare le ragioni profonde del percorso intrapreso dal nostro Paese, senza utilizzare uno schema predeterminato, lasciando per quanto possibile al lettore la decisione di condividere o meno le analisi e i giudizi presentati.

    *****

    Il dissesto finanziario globale del 2008 ha avuto un’evoluzione sistemica nel vecchio continente, mettendo il luce gli errori fatti del passato rispetto alla formulazione del progetto europeo. La crisi debitoria, che ha colpito i paesi mediterranei ed in particolare il nostro, ha imposto una seria riflessione sulle prospettive dell’Unione, specie per quanto riguarda la moneta unica. A partire dalla primavera del 2011, l’Italia ha rappresentato una notevole minaccia per la sostenibilità dell’Europa, poiché un fallimento del nostro debito avrebbe di fatto annullato un cammino iniziato 20 anni fa. I conti pubblici italiani sono finiti sotto la lente d’ingrandimento di istituzioni finanziarie e agenzie di rating, le stesse che hanno non poche responsabilità rispetto agli attacchi speculativi sui titoli di Stato.

    *****

    La parabola del governo Berlusconi ha senza dubbio risentito del clima internazionale che si andava delineando all’inizio dell’estate 2011, quando il Consiglio Europeo esprimeva dure raccomandazioni in merito alla credibilità degli obiettivi fiscali di medio termine del governo italiano. In agosto era già chiaro che i blandi e confusi tentativi di approvare manovre correttive in extremis non avrebbe portato al recupero della credibilità perduta. Il ministro Tremonti ha tentato fino all’ultimo di trovare un impossibile equilibrio tra rigore di bilancio e consenso elettorale, anche attraverso il rispolvero di antiche promesse quali la riforma fiscale. Il governo è infine caduto sotto i colpi inferti dai mercati, espressi da un indicatore sintetico ma quanto mai significativo: lo spread. Nel corso di questa crisi abbiamo senz’altro imparato a conoscere questa parola, che in buona sostanza ci costringe ad un continuo e talvolta usurante confronto con la Germania e con l’Europa intera. Se da un lato lo spread si presta a notevoli speculazioni politiche, sia che aumenti sia che diminuisca, dall’altro non è possibile estrometterlo dalla discussione tout-court, poiché incide sull’economia reale del paese, in termini di gestione della spesa pubblica, di interessi sui mutui, di credito alle imprese da parte delle banche.

    *****

    Il passaggio al governo tecnico, affidato ad una figura di spessore europeo come Mario Monti, non è stato certamente indolore. La cura fiscale, concordata con Bruxelles, ha avuto effetti recessivi che l’Italia non ha ancora smaltito, incidendo in modo determinante sulla capacità di spesa delle famiglie e sulla sopravvivenza di molte imprese, per via di un inasprimento fiscale senza precedenti. La politica economica di questo governo, come annunciato dallo stesso Monti, avrebbe dovuto fondarsi su tre principi: rigore, crescita ed equità. Sotto il primo aspetto la promessa è stata mantenuta, attraverso le pesanti politiche di austerità messe in campo nel corso dell’ultimo anno. La crescita economica, invece, sembra essere ormai stata procrastinata a tempo indefinito e sul piano dell’equità, il terzo principio, il governo sembra aver decisamente mancato l’obiettivo. Nel complesso è stato rispettato il vecchio teorema per cui, quando è necessario rimpinguare le casse pubbliche, occorre tassare i ceti più bassi della popolazione, con particolare attenzione, a volte con particolare accanimento, verso i lavoratori dipendenti. L’aumento dell’IVA e l’introduzione dell’IMU confermano senza dubbio questa teoria, in quanto colpiscono la grande maggioranza degli italiani, mentre mancano all’appello strumenti alternativi, primo tra tutti una qualche forma di patrimoniale.

    *****

    La stessa tendenza è confermata dall’azione di governo sul piano delle famose riforme strutturali. Il cosiddetto decreto cresci-Italia, approvato all’inizio del 2012, è stato notevolmente ridimensionato rispetto alle aspettative, specie sul fronte delle liberalizzazioni, che avrebbero dovuto colpire mercati fortemente distorti a causa di corporativismi ormai obsoleti. Particolarmente incisivi sono stati invece gli interventi sul sistema pensionistico sul lavoro, messi a punto dalla ministro Fornero. La prima riforma, fondata sull’aumento dell’età pensionabile e sul passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, è particolarmente controversa, in quanto portatrice di una serie di squilibri e malfunzionamenti, come risulta evidente dal caso degli esodati, che rimane tuttora irrisolto. La modifica dell’articolo 18, invece, non sembra aver determinato la messa in moto di quei meccanismi virtuosi e meritocratici auspicati dal governo, avendo piuttosto contribuito ad inasprire il clima di precarietà già piuttosto diffuso. Probabilmente, ci sarebbe stato bisogno di proposte legislative più incentivanti per l’entrata nel mondo del lavoro, visti i dati relativi all’occupazione giovanile, piuttosto che in uscita. A fronte di questi interventi, sono mancate completamente misure volte a ridurre i costi della politica, fortemente scossa da continui scandali ed abusi, segno che nemmeno un governo tecnico super-partes è riuscito a scalfire quel muro di gomma.

    *****

    Ad ogni modo, il risultato più consistente del governo Monti è costituito dalla riabilitazione del nostro Paese sulla scena internazionale, in particolare europea, per cui i nostri rappresentati sono tornati a sedersi al tavolo dei grandi. Il contenimento dei conti pubblici, fattore essenziale per recuperare la fiducia nei mercati, non sarebbe stato tuttavia efficace senza le operazioni diplomatiche svolte dal Professore in tutte le sedi istituzionali. Per mesi l’Italia ha convissuto con il timore di finire come la Grecia, paese in balia dei mercati e tenuto in vita artificialmente dai prestiti della troika, per ottenere i quali ha dovuto adottare politiche talmente restrittive da generare un enorme conflitto sociale. Qualcosa di simile, seppur in misura più contenuta, è accaduto in Spagna, dove le politiche di austerità hanno determinato livelli record di disoccupazione. Evitare il contagio era dunque la missione prioritaria di questo governo, nonostante il prezzo da pagare molto elevato sotto l’aspetto sociale.

    *****

    Le decisioni prese a Bruxelles durante questo periodo così complesso sono state controverse, frutto di interessi particolari che inevitabilmente sono emersi a fronte del contesto politico ed economico. Il fondo salva-stati, così come strutturato dopo il cruciale Consiglio di giugno, è senza dubbio l’emblema dell’intreccio tra necessità economiche e ricerca del consenso. La teoria dimostra che un meccanismo di garanzia sui titoli di Stato è uno strumento necessario all’interno di un’unione monetaria, ma la contropartita imposta per accedervi, fatta di punitive condizionalità sulle politiche interne di bilancio, ne ha ridotto l’efficacia. I capi di governo difficilmente avanzano richieste di utilizzo del fondo, anche allo scopo di ridurre lo spread, in quanto delegare la politica economica ad un’autorità sovranazionale equivale a perdere la fiducia del proprio elettorato. Per il nostro Paese, chiedere aiuto finanziario all’Europa avrebbe significato la presa d’atto di un ruolo secondario nello scacchiere continentale, assumendo una posizione di fatto subordinata rispetto all’asse franco-tedesco, eventualità che Monti ha voluto scongiurare a tutti i costi.

    *****

    In questo scenario, il ruolo giocato da Mario Draghi alla guida della BCE è stato altrettanto determinante. Il massiccio acquisto di titoli del debito italiano, ma anche di altri paesi, ha contribuito a rinforzare la credibilità delle misure adottate. Anche se non è possibile asserire che, in presenza di un governo politico, il governatore della banca centrale non avrebbe agito in questo modo, è indubbio che la figura di Monti ha avuto un certo peso, quantomeno in termini di garante dei nostri conti. In prospettiva, Draghi ha avuto il merito di gettare le basi per un cambiamento d’indirizzo della politica monetaria europea, testardamente incentrata sul contenimento dell’inflazione, nonostante l’evidenza di una forte recessione. Più di una volta la BCE ha preso decisioni con il parere sfavorevole del rappresentante tedesco, ad esempio in merito al ribasso del tasso d’interesse, evento che non si era mai verificato dalla creazione della banca stessa.

    *****

    La crisi debitoria è stata anche un occasione per far emergere nuovi punti di vista in Europa, scardinando la tradizionale impostazione economica liberista e riaffermando un principio quasi dimenticato: si può essere europeisti anche non condividendo l’attuale gestione politica di Bruxelles. L’elezione di Hollande in Francia è stato certamente uno dei fattori principali di tale cambiamento, anche se le proposte in campo sono probabilmente figlie della drammaticità della situazione. Parlare apertamente di Eurobond, di fondo salva-Stati, di misure per la crescita, di supervisione bancaria unica sarebbe stato impensabile fino ad un paio di anni fa, mentre ora alcuni di questi punti stanno faticosamente diventando realtà. Il dibattito ha certamente messo in luce le criticità del sistema, soprattutto sul piano della democraticità delle scelte, mostrando al tempo stesso le potenzialità del progetto comunitario, il cui avanzamento è necessariamente connesso al grado di volontà politica che caratterizza ogni fase storica.

    *****

    I governanti europei, nell’analizzare le problematiche attuali e gli scenari futuri, non possono tuttavia prescindere dai venti di protesta che soffiano nel continente, specie nei paesi come Grecia e Spagna, in cui l’Europa ha mostrato tutta la propria intransigenza. Non è semplice spiegare come sia possibile che, mentre gli istituti di credito hanno ricevuto centinaia di miliardi per ricapitalizzarsi, Atene abbia dovuto attendere sei mesi per ottenere l’ultima tranche di aiuti finanziari. Etichettare i milioni di cittadini che sono scesi in piazza in questo periodo come fanatici anti-europei e nazionalisti è decisamente fuorviante: i governanti dovranno rispondere alla domanda di equità e giustizia che emerge con forza, specie nei confronti di chi la crisi l’ha generata attraverso le speculazioni finanziarie. Non affrontare in modo serio e ricettivo tali istanze, attraverso un profondo rinnovamento nei meccanismi di governance europea, vuol dire lasciar mano libera ai vari populismi nazionali, che sfociano spesso nell’estremismo e talvolta nella violenza, come accaduto nel caso dell’estrema destra greca.

    *****

    Un punto fondamentale, sul quale occorre che i governi concentrino le loro forze, è il ritorno alla crescita economica e la ripresa a pieno ritmo delle attività produttive, in primis per creare occupazione. Le politiche di austerità, per quanto necessarie durante la fase più acuta di una crisi di fiducia, devono necessariamente lasciare il posto ad interventi in grado di accrescere la domanda. Molto può esser fatto sul piano legislativo, abbattendo le barriere che frenano gli scambi interni e generano situazioni di monopolio, ma servono contestualmente misure in grado di incentivare lo sviluppo, quali ad esempio gli investimenti nella ricerca e nelle infrastrutture. In Italia, un alleggerimento della pressione fiscale su imprese e famiglie è quanto mai urgente, al fine di incentivare le assunzioni e spingere i consumi. Generare reddito, dopo una fase depressiva senza precedenti nella storia repubblicana, è l’unico viatico per risollevare le sorti della nostra economia evitando l’acuirsi del conflitto sociale.

    *****

    Il governo che sta guidando ora il Paese affronta uno scenario che si presenta particolarmente complesso. Non è certamente possibile abbandonare completamente la strada del rigore finanziario intrapresa da Monti, poiché da questo punto dipende la sostenibilità dei nostri conti nel medio e lungo periodo. Il reperimento delle risorse necessarie è tuttavia materia soggetta ad una certa discrezionalità: in quest’ottica, un grado di maggiore equità è senza dubbio auspicabile. Il rigore dovrà poi essere accompagnato dalla crescita economica, poiché il rapporto debito/Pil, che costituisce un’enorme spada di Damocle, si riduce molto più velocemente incrementando il denominatore della frazione. Tutto ciò dovrà avvenire in un clima di conflittualità che, causa la natura ibrida del governo Letta, si è spostata dalla piazza alle stanze del Parlamento e alle segreterie dei partiti. Sembra che gran parte del tempo speso dal Governo sia dedicato ormai alla mediazione tra richieste che hanno lo scopo di dare visibilità politica piuttosto che fornire risposte alla crisi economica. Certamente questo clima non è di per sé congeniale per decisioni che dovrebbero guardare al futuro specie per quanto riguarda la disoccupazione giovanile arrivata a livelli mai visti in Italia.

    *****

    I nostri rappresentanti dovranno poi contribuire al miglioramento del sistema Europa, lottando affinché il progetto non si riduca ad un mero strumento di controllo, governato in modo oligarchico ed eccessivamente contaminato da una linea economica intransigente, recuperando piuttosto la filosofia originaria della cooperazione e della reciproca solidarietà. L’auspicio è che il nuovo esecutivo sia in grado di assumersi queste responsabilità, riuscendo al tempo stesso a ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini, troppo spesso messi da parte durante questa crisi.

    2011

    Aprile/Maggio - Documento di Economia e Finanza 2011, l’eterno conflitto tra stabilità e crescita

    Il 13 aprile, il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha presentato le linee guida in materia economica che il nostro Paese intende seguire nei prossimi anni. Il DEF (Documento di Economia e Finanza), uno degli strumenti di programmazione previsti sulla base delle attuali norme comunitarie, si compone sostanzialmente di due parti. La prima riguarda l’analisi dei conti pubblici, le previsioni macroeconomiche per il prossimo triennio e gli obiettivi generali in merito alla gestione della spesa pubblica e della tassazione. La seconda componente concerne la sfera legislativa, descrivendo gli obiettivi di riforma volti a favorire lo sviluppo economico del Paese.

    La struttura dei conti pubblici italiani che emerge dal documento evidenzia alcune criticità tipiche del nostro sistema economico, aggravate negli ultimi anni dagli effetti della crisi globale. La crescita in termini reali del Pil nel 2010 si è attestata all’1,3%, in ripresa rispetto ai due anni precedenti ma comunque non sufficiente per tornare ai livelli del 2007. Buone notizie arrivano dalla domanda interna: sono in aumento i consumi delle famiglie (+1%) e gli investimenti fissi in macchinari e attrezzature (+9.6%). Le esportazioni, grazie alla lenta ma graduale ripresa della domanda mondiale, tornano a crescere, ma in misura inferiore rispetto alle importazioni, determinando una bilancia commerciale negativa. Restano invece preoccupanti sia i dati sul debito pubblico, che si attesta al 119% sul Pil, con un disavanzo annuale pari al 4,6%, sia quelli relativi alla disoccupazione, che è aumentata dello 0.7% raggiungendo l’8.4%.

    Il nodo centrale da affrontare è rappresentato dalla ricerca di un complesso equilibrio tra stabilità finanziaria e crescita del reddito nazionale. In Italia questo processo è aggravato dall’enorme mole del debito pubblico, che rende difficile utilizzare lo strumento del disavanzo per sostenere l’economia senza che i mercati creino instabilità attraverso l’aumento del tasso d’interesse sui titoli nazionali. Il Governo, in questi anni di crisi, ha adottato politiche volte ad arginare la crescita del rapporto debito/Pil, limitando il più possibile la spesa in disavanzo. In sostanza, si è cercato di non allontanarsi troppo dalle regole fiscali imposte a livello europeo attraverso il rispetto dei parametri di Maastricht. Rispetto ad altri paesi, quali ad esempio Francia e Germania, il Governo non è quindi intervenuto direttamente a sostegno dell’economia, al fine di non generare ulteriori preoccupazioni nei mercati internazionali, già riscaldati dalla situazione dei paesi mediterranei e dell’Irlanda, riguardo l’eccessivo livello di debito. Questa politica, seppur efficace per il controllo del debito, determina una maggiore difficoltà in termini di ripresa, che infatti rimane molto contenuta.

    L’azione del Governo, come sottolineato a più riprese nel documento, è finalizzata al controllo della finanza pubblica, in linea con gli obiettivi di stabilità imposti a livello comunitario. Il primo obiettivo è l’introduzione della disciplina di bilancio a tutti i livelli della pubblica amministrazione, che dovrebbe entrare a far parte del disegno costituzionale. In questo modo si dovrebbe garantire un utilizzo più razionale delle risorse, evitando gli sprechi. In secondo luogo, l’Italia si impegna a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2014, come previsto dagli obiettivi europei di medio termine (OMT). Quest’ultimo punto rappresenta una vera e propria sfida economica, se si considera che il pareggio non è mai stato raggiunto dall’introduzione della moneta unica.

    Per comprendere la logica delle misure previste dal DEF occorre sottolineare brevemente il funzionamento del disavanzo pubblico. Quest’ultimo rappresenta l’aumento del rapporto debito/Pil ed è determinato dall’insieme di due fattori, il saldo primario ed il pagamento degli interessi cumulati di volta in volta sulle emissioni di nuovi titoli. L’ammontare degli interessi, che si stima essere pari al 5% del Pil in media per i prossimi tre anni, dipende dalla consistenza del debito e dalle condizioni di mercato. Per raggiungere il pareggio occorre quindi un avanzo di bilancio primario, dato dalla differenza tra entrate ed uscite dello Stato, di pari entità. Secondo i dati, ad oggi l’avanzo è pari allo 0.1% del Pil: nel 2014 questo dovrà essere pari al 5% del Pil. Nel documento si afferma la volontà di agire in questo senso attraverso una graduale riduzione della spesa pubblica, lasciando sostanzialmente invariato il lato delle tasse.

    Nel DEF sono descritte le misure che il Governo è intenzionato ad adottare e le previsioni macroeconomiche che tracciano gli scenari futuri sulla base della Legge di Stabilità (ex Legge finanziaria) del 2010. Quest’ultima prevede una manovra correttiva di circa 42 miliardi, distribuiti nell’arco di tre anni, finanziata principalmente dalla riduzione nelle spese correnti. Il pubblico impiego e la previdenza sociale saranno i settori più  colpiti dai tagli. Per quanto riguarda il primo, lo strumento principale utilizzato è la riduzione del personale attraverso il blocco del turnover, ossia la differenza tra i pensionamenti e le nuove assunzioni. Per i prossimi tre anni, potrà essere rimpiazzato solamente il 20% del personale in uscita dagli enti pubblici. La spesa per le pensioni, che è pari a circa il 18% del Pil, dovrebbe ridursi per effetto dell’aumento dell’età contributiva per le donne. Inoltre, è previsto un taglio trasversale dei fondi per tutti i ministeri, in particolare per quanto riguarda le spese esterne come le consulenze, mentre altre riduzioni riguardano il Sistema Sanitario Nazionale ed i fondi per lo sviluppo strutturale delle regioni depresse. Sul fronte delle entrate, a parte un piccolo intervento sull’IRE, si fa molto affidamento sul recupero di circa 19 miliardi grazie alla lotta all’evasione e sull’aumento dei pedaggi autostradali.

    Congiuntamente alle operazioni di carattere prettamente economico, il DEF riporta nel Programma Nazionale di Riforma le intenzioni presentate dal Governo al fine di eliminare le strozzature che rallentano lo sviluppo economico. Si tratta sostanzialmente di riforme a basso costo, che intervengono sul piano legislativo. Uno dei punti principali riguarda la semplificazione del sistema fiscale, inserita all’interno del disegno federale già avviato pochi mesi fa. Gli altri punti focali riguardano la sistemazione dell’assetto scolastico ed universitario, secondo criteri di meritocrazia e produttività, l’incremento della flessibilità nel mercato del lavoro, la regolazione del mercato energetico, la semplificazione burocratica per le imprese e lo sviluppo di alcune grandi infrastrutture. L’efficacia delle riforme è valutata sulla base del raggiungimento degli obiettivi europei per il 2020: tuttavia dato il carattere qualitativo delle misure risulta difficile stimarne l’effetto reale sull’economia.

    La gestione efficiente dei conti pubblici è un argomento estremamente delicato, che suscita reazioni contrastanti sia nel mondo economico che nella società civile. Tutti sembrano d’accordo sulla necessità di mettere in campo misure volte al contenimento del deficit, ma alcuni si interrogano sulla reale capacità di queste nel combattere le sacche di inefficienza presenti nel nostro Paese. Interventi come la riduzione delle spese sanitarie garantite o l’aumento dei pedaggi autostradali potrebbero comprimere ulteriormente i consumi privati, che sono già ai minimi storici. Inoltre, il blocco del turnover per tre anni non favorisce le nuove assunzioni, penalizzando i giovani in cerca di lavoro, in un contesto che vede l’Italia ai primi posti in Europa per quanto concerne la disoccupazione giovanile.

    * * *

    Il Documento di Economia e Finanza percorre il suo iter all’interno delle varie commissioni, chiamate ad esprimere un parere consultivo in vista dell’esame della commissione Bilancio. I pareri sarebbero dovuti pervenire entro giovedì 21 aprile: su questo punto si sono accese le proteste dei rappresentanti dell’opposizione, che hanno lamentato l’impossibilità di valutare attentamente un documento così lungo (circa 450 pagine) e importante in una sola seduta. In alcune commissioni, dunque, la decisione è slittata alla settimana attuale.

    Nel merito del contenuto, non sono mancate le critiche sotto vari aspetti. I partiti di opposizione hanno puntato il dito verso la genericità

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