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Grammatica dell'indignazione
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E-book369 pagine5 ore

Grammatica dell'indignazione

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Info su questo ebook

Nel 2013, l’Italia si avviava ad affrontare un passaggio drammatico della propria crisi economica e sociale: disoccupazione crescente, aumento della povertà assoluta e relativa, fragilità del sistema bancario, remunerazioni bloccate da anni, e la necessità di reperire i 50 miliardi di euro della prima rata imposta dal famigerato fiscal compact. Il tutto in una crisi morale e istituzionale senza precedenti e con i tradizionali sistemi della rappresentanza travolti dagli eventi. Nel Paese l’indignazione era maggioranza, schiacciante maggioranza, eppure non contava nulla a livello istituzionale oppure veicolava movimenti populisti e pieni di contraddizioni, alimentando così il rischio di chiudersi in se stessa e produrre sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.
Di qui l’idea di questa grammatica, sospesa tra analisi e proposta, da maneggiare come una “cassetta degli attrezzi” utile a guidare il cambiamento.
Ambiente e grandi opere – Beni comuni – Conflitto di interessi – Corruzione – Crisi e modello di sviluppo – Cultura – Diritti – Disuguaglianza – Donne – Eurofinanza – Europa – Giustizia – Informazione – Lavorare nel sociale – Lavoro – Mafia e antimafia – Politica – Poveri – Razzismo – Riforma costituzionale – Scuola – Spese militari – Tav.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2021
ISBN9788865792445
Grammatica dell'indignazione

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    Anteprima del libro

    Grammatica dell'indignazione - Livio Pepino

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    Grammatica dell’indignazione

    a cura di

    Livio Pepino, Marco Revelli

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    Edizioni Gruppo Abele

    © 2021 Edizioni Gruppo Abele Impresa Sociale srl

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500

    edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    ISBN 9788865792445

    Edizione per la stampa

    © 2013 Associazione Gruppo Abele Onlus

    In copertina: vignetta di Elle Kappa

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    twitter.com/AbeleEd

    instagram.com/edizionigruppoabele

    Il libro

    Nel 2013, l’Italia si avviava ad affrontare un passaggio drammatico della propria crisi economica e sociale: disoccupazione crescente, aumento della povertà assoluta e relativa, fragilità del sistema bancario, remunerazioni bloccate da anni, e la necessità di reperire i 50 miliardi di euro della prima rata imposta dal famigerato fiscal compact. Il tutto in una crisi morale e istituzionale senza precedenti e con i tradizionali sistemi della rappresentanza travolti dagli eventi. Nel Paese l’indignazione era maggioranza, schiacciante maggioranza, eppure non contava nulla a livello istituzionale oppure veicolava movimenti populisti e pieni di contraddizioni, alimentando così il rischio di chiudersi in se stessa e produrre sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.

    Di qui l’idea di questa grammatica, sospesa tra analisi e proposta, da maneggiare come una cassetta degli attrezzi utile a guidare il cambiamento.

    Indice

    Introduzione

    Livio Pepino, Marco Revelli

    Ambiente e grandi opere. Come ti distruggo il pianeta

    Luca Mercalli

    Beni comuni. Per un’alternativa di sistema

    Ugo Mattei

    Conflitto di interessi. Come eludere i divieti e farla franca

    Alfonso Di Giovine, Fabio Longo

    Corruzione. La chiamano democrazia ma non lo è

    Donatella della Porta

    Crisi e modello di sviluppo. Guardarsi dalle mezze misure

    Guido Viale

    Cultura. Il disastro pianificato

    Salvatore Settis

    Diritti. I costi del mancato riconoscimento

    Stefano Rodotà

    Disuguaglianza. Cento poveri per un ricco

    Mario Pianta

    Donne. Indignarsi al femminile

    Giuliana Beltrame

    Eurofinanza. Le riforme che non si fanno

    Luciano Gallino

    Europa. Le cinque menzogne più evidenti

    Barbara Spinelli

    Giustizia. L’indignazione e il suo doppio

    Livio Pepino

    Informazione. La stampa contraffatta

    Oliviero Beha

    Lavorare nel sociale. Persone, non problemi

    Andrea Morniroli, Giacomo Smarrazzo

    Lavoro. «Prima e dopo Cristo»

    Maurizio Landini

    Mafia e antimafia. Un’indignazione costruttiva

    Nando dalla Chiesa

    Politica. A che punto è la notte?

    Marco Revelli

    Poveri. Miseria ladra

    Giuseppe De Marzo

    Razzismo. Realtà, segnali, percorsi

    Grazia Naletto

    Riforma costituzionale. La storia di un lungo regresso

    Gaetano Azzariti

    Scuola. L’Italia in maglia nera

    Alba Sasso

    Spese militari. Una resistibile ascesa

    Leopoldo Nascia

    Tav. Grande opera e grande indignazione

    Luca Giunti

    Gli autori/Le autrici

    Introduzione

    Livio Pepino, Marco Revelli

    1. C’è, nel Paese, un’anomalia da interpretare e sciogliere. L’indignazione è maggioranza, schiacciante maggioranza. Basta vedere l’andamento del voto nelle ultime tornate elettorali o sfogliare i sondaggi di tutti gli istituti di ricerca. Ancor più, è sufficiente passeggiare in un mercato e viaggiare su tram o treni (quelli dei pendolari: frequentati dal 90 per cento degli italiani e ignorati da chi governa promettendo devastanti e improbabili linee ad alta velocità…). Eppure quell’indignazione, almeno ad oggi, non conta nulla a livello istituzionale. Oppure veicola movimenti populisti e pieni di contraddizioni: di contenuti soprattutto, ché le incongruenze tattiche sono, a ben guardare, poca cosa. Così cresce il rischio che l’indignazione si chiuda in se stessa e produca sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.

    Sciogliere l’anomalia, superarla, è la sfida (ineludibile) dei prossimi mesi: mesi, non anni, ché la misura è colma. Per farlo serve mettere ordine nelle ragioni dell’indignazione e predisporre, settore per settore, una cassetta degli attrezzi utile a guidare il cambiamento (o il rilancio di ciò che va mantenuto e che molti vorrebbero cancellare, dalla Costituzione al welfare). Serve una grammatica – per usare la felice espressione inaugurata da Salvatore Settis –, sospesa tra analisi e proposta. Ma conviene andar con ordine.

    2. Il punto di partenza è la condizione di vita delle persone. Crescono nel Paese i poveri. A dismisura. Nel 2012 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4.814.000, pari al 7,9 per cento della popolazione (mentre nel 2011 erano 3.415.000 pari al 5,2 per cento). E sono ben 9 milioni e 563.000, pari al 15,8 per cento della popolazione, le persone in condizione di povertà relativa, cioè con una disponibilità inferiore a 506 euro mensili (che erano 8.173.000 nel 2011 pari al 13,8 per cento). Senza contare l’area della deprivazione o della vulnerabilità, pari al 41,7 per cento degli uomini e delle donne, non in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. Si aggiunga che dal 2011, nell’arco di un solo anno, il potere di acquisto delle famiglie è mediamente diminuito del 4,8 per cento e la situazione è in costante peggioramento. Ma cresce, ancor più, la disuguaglianza. Ormai da anni. Basta un dato:

    Nel 2009 […] l’amministratore della

    fiat

    , Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro [senza tener conto delle stock options], pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano […] e, intanto, l’indicatore statistico con cui gli economisti cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale in un Paese, colloca ormai l’Italia ai gradini più bassi dell’

    ocse

    , con un’accelerazione costante a partire dai primi anni Novanta¹.

    E non è finita, almeno a giudicare dai modelli di riferimento, posto che – come spiega Luciano Gallino² – negli Stati Uniti la retribuzione dell’amministratore delegato di una società può raggiungere 1.000 volte il salario di un lavoratore dipendente.

    Basterebbe. Ma c’è di più. Il di più è il degrado morale e istituzionale – insolente, a dir poco – che accompagna la crisi economica, producendo una vera e propria corruzione del sistema e un ostentato disinteresse a dare soluzione ai problemi di milioni di donne e uomini.

    I guasti, forse ormai irreversibili, riguardano anzitutto l’assetto etico – ma forse dovremmo dire antropologico – del Paese. Il comune sentire. Le forme del giudizio e del comportamento. Gli ultimi mesi sono stati una gigantesca palestra di anestetizzazione morale. Sono stati sdoganati comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni. È stato autorevolmente autorizzato l’inaccettabile per qualunque comunità civile, come se l’appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto. Il superamento di ogni limite è plasticamente rappresentato dalle remore a decretare, in attuazione di una legge approvata un anno fa con fanfare e squilli di tromba, la decadenza dal seggio di senatore del responsabile di una ciclopica frode fiscale. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi vertici, esprime comprensione per l’esigenza di garantire agibilità politica a quell’evasore fiscale è un mondo che ha smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (basta leggere gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico. Così è stata cancellata – neutralizzata, assimilata, condivisa – l’anomalia italiana costituita dalla persona di Silvio Berlusconi, dalla sua trasgressione di tutti i caratteri di virtù pubblica e privata. E per questa via è stata sancita l’ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell’evasione fiscale, dell’ostentazione del privilegio e della pratica del «non sa chi sono io», della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti.

    È in questa crisi morale senza precedenti che l’Italia si avvia ad affrontare un passaggio drammatico della propria crisi economica e sociale. L’autunno presenterà conti salati: una disoccupazione che, nonostante la piccola ripresa nordeuropea, continuerà a peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e assai parziale pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo Stato (che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento dell’iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura. La necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact, vera e propria macina al collo di un Paese che stenta a restare a galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria ocse.

    3. Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale politico, percezione della possibilità di un nuovo inizio, come è stato nei momenti cruciali della nostra storia, fino alla ricostruzione nel secondo dopoguerra.

    Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di una continuità ossessivamente riaffermata contro ogni natura delle cose: l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo di durare. Consegnati in ostaggio a un uomo finito e alla sua esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico, giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio giocando sull’unico atout che gli è rimasto: la golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con tutti i filistei».

    Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita del Governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo perché le due forze che lo compongono – oltre a essere sostanzialmente omologhe nell’idea di società prodotta dall’establishment economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee – sono entrambe fragilissime, sull’orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il pdl, di fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche il pd, lacerato tra una miriade di gruppi e correnti interne senza più alcun rapporto con le rispettive culture politiche, preda possibile della prima cordata capace di lanciare un’opa e di attrarre intorno alla promessa della vittoria e del mantenimento del potere i tanti appetiti insoddisfatti. Da due vuoti potenziali non può nascere un pieno d’azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, guadagnando tempo, appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro: lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio.

    Si colloca qui il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino della sinistra e in particolare del pd. In realtà la mutazione genetica in atto nel Partito democratico sta modificando (ha ormai modificato) il quadro delle culture politiche italiane, con l’estinzione o comunque la riduzione al lumicino di ogni residua traccia di socialdemocrazia, il ritorno in grande stile del centrismo ex democristiano rivisitato alla luce di un populismo postberlusconiano, la fine della sinistra istituzionale, a voler rimanere ai piani nobili dell’argomentazione. Senza considerare lo spettacolo meno nobile della corsa a ricollocarsi, spartirsi le potenziali cariche, riconquistare posizioni perdute, consumare vendette antiche e recenti, mutare amicizie… Può non piacere – e non piace – ma questo è il pd reale, non quello immaginario dei falsi realisti che aspettano ogni volta un segno di una sua rinata identità di sinistra. La crisi morale e culturale che sta devastando il pd è sempre più evidente da troppi segnali, fino allo spettacolo degradante della liquidazione, uno dopo l’altro, di tutti i possibili candidati decorosi alla Presidenza della Repubblica e (prima) alla guida del Governo, che avrebbero potuto rappresentare una discontinuità rispetto alla maggioranza che aveva sorretto l’infelice esperienza Monti. Come stupirsi se ciò semina sconcerto nel (residuo) elettorato, e conflitto all’interno del partito? Se ogni iniziativa presa finisce per generare uno sciame di polemiche e distinguo in un gruppo dirigente (si fa per dire) perennemente sull’orlo di una crisi di nervi?

    La nascita del Governo delle larghe intese, lungi dal garantire stabilità, ha dato vita a un meccanismo autodissolutivo: un circolo vizioso nel quale le tensioni all’interno di entrambi i partiti di maggioranza logorano di continuo la stabilità dell’Esecutivo (ne costituiscono una permanente minaccia) e, simmetricamente, il carattere coercitivo del Governo (la necessità di mantenerne in vita la maggioranza) alimenta di continuo le tensioni interne ai partiti che lo sostengono. Ha cioè istituzionalizzato l’instabilità, facendone un carattere strutturale del nostro sistema politico. Ma tensioni e instabilità sono determinati essenzialmente da questioni di superficie e di spartizione del potere. Nel profondo, l’abbraccio apparentemente innaturale delle larghe intese è il suggello di un pensiero unico che attraversa le forze politiche dominanti, traducendosi persino in gesti e parole indistinguibili: nell’ossequio cieco e acritico all’Europa dei mercati, nel tentativo di esorcizzare il conflitto sociale (fino a evocare irresponsabilmente, con il supporto di improbabili maîtres à penser, i fantasmi del terrorismo) e finanche nel disegno di stravolgere la Costituzione, servendosi a tal fine di una inammissibile modifica dell’articolo 138, cioè della norma di chiusura che dovrebbe garantirci – tutti – contro i colpi di mano di aggregazioni corsare…

    4. Tutto ciò è chiaro da tempo, ma – sino ad oggi – non ha trovato interpreti e soggetti capaci di raccogliere l’indignazione e di modificare la realtà.

    Non per mancanza di idee o di progetti. Che, anzi, sono stati oggetto di molte significative elaborazioni. A breve termine: il ritiro da tutte le operazioni di guerra e l’abbattimento delle spese militari, la definitiva rinuncia alle grandi opere (a cominciare dalla linea tav Torino-Lione e dal ponte sullo Stretto), una reale azione di contrasto dell’evasione fiscale e della corruzione, il ripristino delle tutele fondamentali del lavoro e dei lavoratori, il rispetto pieno e immediato dell’esito dei referendum 2011 sui beni comuni, l’abrogazione delle leggi ad personam (che sanciscono la disuguaglianza anche formale tra i cittadini), una regolamentazione non elusiva del conflitto di interessi, la previsione di un tetto massimo per i compensi pubblici e privati etc. E in prospettiva: la rinegoziazione delle normative europee che impongono politiche economiche recessive, un progetto di riconversione di ampi settori dell’economia verso migliaia di piccole opere di immediata utilità collettiva, un piano di riassetto del territorio nazionale, un’imposizione fiscale equa ed efficace (estesa ai patrimoni e alle rendite finanziarie nonché alle proprietà ecclesiastiche), il potenziamento degli interventi a sostegno delle fasce più deboli e dei presidi dello Stato sociale, l’investimento a favore della scuola e dell’università pubblica, una effettiva riforma del sistema dell’informazione e via elencando.

    Il mancato avvio (quantomeno) del cambiamento politico-istituzionale non è stato, dunque, determinato da mancanza di idee. Ma non ha avuto per causa neppure la carenza di risorse umane e personali, ché, anzi, forse mai come nell’ultimo decennio c’è stato un fiorire di iniziative settoriali, movimenti, associazioni anche di grande respiro. Basti pensare al popolo del referendum o alle 30.000 realtà di cui parla Salvatore Settis in Azione popolare (Einaudi, 2012).

    Quel che è mancato è stata la capacità di costruire un soggetto (nuovo, plurale, partecipato) in grado di raccogliere consenso e di proporsi anche nei luoghi della rappresentanza come veicolo di cambiamento culturale, politico, economico. Nel bacino degli indignati chi non ha scelto l’autoemarginazione si è mosso, sul piano elettorale e dell’organizzazione della rappresentanza, riproponendo metodi logori e perdenti. Sono prevalsi slogan, parole d’ordine, messaggi incapaci di attrarre e convincere gli stessi tradizionali elettori della sinistra. Ed è prevalsa – nell’ottica del «così fan tutti…» – una perversa accentuazione del personalismo e del leaderismo con incentivazione del processo di trasformazione del leader in capo e unico titolare del rapporto con gli elettori (da gestire a distanza, al di fuori di un contatto diretto, attraverso gli schermi televisivi della democrazia del tinello). Ciò ha mortificato le energie migliori e aumentato il senso di estraneità alla politica della parte più sensibile e sofferente del Paese, con conseguenti disaffezione, astensionismo o delega a vecchi e nuovi leader. Né è valso a porre rimedio alla deriva l’inserimento nelle liste elettorali di personaggi provenienti dalla cosiddetta società civile. Espediente per certi versi ancor più grave, in quanto ha cumulato la continuità burocratica con un rapporto solo proclamato con il tessuto sociale: mentre questo rapporto ha un senso se significa immissione nella scena politica di metodi diversi (per portare nel palazzo non solo persone ma rapporti con il territorio e processi alternativi di rappresentanza e di decisione), non anche se si limita alla cooptazione dall’alto di alcuni personaggi con storie di movimento.

    Le ultime consultazioni elettorali sono state univoche e senza appello. La sommatoria di vecchi soggetti politici della sinistra (con o senza rinforzi) è un’operazione perdente e impresentabile in sé, a prescindere dai programmi. E c’è di più. Il voto – con la ripetuta sconfitta dell’intero arco della sinistra, pur in situazioni spesso favorevoli – ha messo a nudo la fine (probabilmente irreversibile, per lo meno nel modo con cui esso è stato declinato nel Novecento) del termine sinistra, con quanto esso evoca, come elemento di aggregazione, convincimento, mobilitazione. Restano validi e addirittura rafforzati – almeno per noi – i contenuti fondamentali che in tale termine si sono condensati negli anni, ma senza modi nuovi per veicolarli rischiano di essere travolti. Non è venuta meno l’antica differenza tra destra e sinistra; più semplicemente, quel paradigma è uno degli elementi di interpretazione della realtà, non la bandiera sotto cui arruolare schiere di militanti…

    5. Che fare, dunque?

    Ricominciare dai fondamentali. Di qui l’idea di una grammatica, intesa come predisposizione di una cassetta degli attrezzi. Con alcune istruzioni per l’uso.

    Per ricominciare – come sempre è accaduto nei momenti cruciali della storia – bisogna prima finire. Inutile pensare a una rigenerazione di questo sistema. Il fatto è che un reale cambiamento deve passare attraverso una profonda discontinuità di prassi e comportamenti. Il punto fondamentale è ormai chiaro: chi fa la politica? i cittadini, singoli e organizzati nella rete di movimenti, associazioni, comitati che animano il quotidiano e i territori? o un ceto politico professionale, investito di una ampia delega, che trae la sua legittimazione da una sperimentata capacità tecnica (sic!)? Questo è il tema vero: un tema strutturale, che va al di là di inadeguatezze e scandali, pur intollerabilmente diffusi.

    Per chi sceglie la prima opzione – e non può non essere così nella nostra prospettiva – c’è un corollario. Non solo i partiti tradizionali ma la stessa forma partito, così come la conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata – meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del dopoguerra). E quel che è finito non si può resuscitare. Occorrono forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza. Senza una rifondazione profonda – inutile illudersi e illudere – è finita anche la sinistra. Anche perché le indicazioni programmatiche, se non sorrette da un reale radicamento sociale e da adeguate garanzie personali, rischiano di restare dei «pezzi di carta», come usava dire Bettino Craxi che della materia si intendeva… Non è un preziosismo o una banalità perché le scottature bruciano ancora: chi ha dimenticato – per limitarsi all’esempio più eclatante – i ripetuti voti in favore di operazioni belliche da parte di una sinistra programmaticamente pacifista?

    6. Nel licenziare questo lavoro collettivo – la cui forza è, pur nella inevitabile diversità di alcune posizioni, appunto, il collettivo – sentiamo la necessità di un doppio ringraziamento. Anzitutto ai tanti la cui indignazione abbiamo toccato con mano in centinaia di dibattiti e senza la cui passione e stimolo (per lo più indiretto) questo libro non sarebbe mai stato pensato. E, poi, al Movimento no tav, incredibile umanità capace di resistere e di rilanciare, pur di fronte a una corrazzata politica, mediatica, economica, istituzionale tanto potente quanto spregiudicata (direttamente proporzionale all’entità degli interessi coinvolti). Quel movimento ci ha aiutati a capire una verità fondamentale. Che il centro (cioè il luogo dei decisori politici ed economici) è cieco perché sta crollando. Perché il mondo di cui si è fatto centro sta venendo giù. E come nella Bisanzio cantata da Guccini – «sospesa tra due mondi e tra due ere» –, sono i barbari dei confini, non i senatori del Campidoglio, a sapere «già la verità».

    Torino, 15 settembre 2013

    1. G. Lerner, Il profitto e l’operaio, in la Repubblica, 26 giugno 2010.

    2. L. Gallino. La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, p. 15.

    Ambiente e grandi opere

    Come ti distruggo il pianeta

    Luca Mercalli

    Tutto era già un ammasso di sassi,

    ogni cosa essendo stata distrutta dagli Uomini

    che pensano al presente, e non al futuro.

    Matteo Biffi Tolomei, 1804

    «Quegli che contavano sopra belle somme da prendere subito…»

    Ci si indigna di fronte a un’ingiustizia o a uno scandalo, che in genere riguarda i rapporti tra le persone. Violenza, sopruso, sfruttamento, abuso, offesa, truffa, corruzione. Più raramente l’indignazione riguarda ambiti esterni all’uomo: la natura, l’ambiente, il paesaggio. La maggioranza degli umani è incline a predare le risorse naturali (causando comunque in ultima analisi sofferenza fisica ad altri uomini), e dunque pochi sono coloro che si indignano e cercano di difendere i diritti di chi non ha voce: animali, vegetali, aria, acque, nevi, ghiacci…

    In passato era soprattutto la deforestazione europea a inquietare gli animi più sensibili. Matteo Biffi Tolomei descrive magistralmente, nel suo Saggio d’Agricoltura pratica Toscana (1804), il degrado delle faggete appenniniche allorché, il 24 ottobre 1780, vennero soppresse da Pietro Leopoldo Granduca di Toscana le cinquecentesche leggi medicee di protezione forestale, per le pressioni di

    quegli che contavano sopra belle somme da prendere subito, nella vendita di quella annosa Macchia […]; nulla curando il male futuro. Il numero degl’Oratori a favore di questo sistema era grandissimo. Il secondo partito era debole per il numero, e disprezzato, come accade quasi sempre ai vecchi opinionisti in confronto dei nuovi, e non mostrava somme di danaro da tirarsi subito, ma un interesse, che resultava grande per la sua lunga durazione, e che da pochi si conosceva. […] vennero sulle Alpi molte Compagnie di Carbonai Pistojesi e Lombardi, e si veddero in pochi giorni distrutti dei tratti di Macchia a perdita d’occhio […] e nello spazio di 2 Anni, l’acqua aveva tolta tutta quella terra ridotta pariforme alla Cenere, e scoperto il pietoso scheletro del Monte. […] tolta la Legge, tutto dagli Uomini, che per un piccolissimo bene presente perdono un immenso futuro, venne distrutto.

    Si tratta di un esempio lampante della Tragedia dei beni comuni che il biologo Garrett Hardin inquadrò nel 1968, un’epoca che poneva le basi della riflessione sulla crisi ambientale, giunta a maturità nel 1972 con la pubblicazione del rapporto I limiti della crescita del mit-Club di Roma.

    Cambiamenti irreversibili: verso il collasso della biosfera

    A oltre quarant’anni da quei primi allarmi scientificamente rigorosi, il più grande scandalo ignorato è che la minaccia dell’onnipresente e pervasiva azione umana sulla natura sta riguardando l’intero pianeta, con cambiamenti irreversibili e il potenziale collasso della biosfera. La convenzione quadro sui cambiamenti climatici promossa dalle Nazioni Unite è del 1992 (www.unfccc.int/resource/docs/convkp/conveng.pdf), e prende atto che il riscaldamento globale sarà uno dei più rilevanti sconvolgimenti della stabilità ambientale che ha permesso lo sviluppo dell’umanità; analoghe criticità riguardano la perdita di biodiversità, la deforestazione nelle regioni tropicali, l’abuso di acqua dolce, lo squilibrio dei cicli biogeochimici dell’azoto e del fosforo, la cementificazione e l’erosione dei suoli, l’inquinamento generalizzato, come riassunto dall’importante articolo A safe operating space for humanity di Johan Rockström e colleghi uscito su Nature nel 2009.

    La consapevolezza scientifica della straordinaria e inedita fragilità ambientale indotta dalla formicolante attività termoindustriale di sette miliardi di umani si rinnova con pressanti e autorevoli appelli, che cadono tuttavia nel silenzio e nell’indifferenza della società, dell’informazione e della politica: il Memorandum di Stoccolma firmato nel 2011 da 18 premi Nobel, la dichiarazione Planet Under Pressure (Londra, 2012), il manifesto Scientific Consensus on Maintaining Humanity’s Life Support Systems in the 21st Century (2013), l’Overshoot Day che ha luogo ogni anno, sono solo alcuni esempi.

    Lo scandalo assoluto non è solo di tipo etico (è un’ingiustizia che una sola specie vivente sui 15 milioni di specie probabilmente presenti sulla Terra si appropri oggi del 25 per cento della produttività fotosintetica primaria e distrugga il pianeta…), ma è dato dal fatto di segare noi stessi, società umana, il ramo sul quale siamo seduti. Se gli scandali tra umani possono essere turpi e violenti finché si vuole, è anche vero che essi generano danni enormi in termini sociali e individuali all’interno della specie, ma relativamente limitati e con scarse conseguenze esterne rispetto alla stabilità dell’ambiente e della specie. In sostanza si tratta di un affare di famiglia: che ci siano più o meno schiavi, più o meno stupri, più o meno torture, alle leggi fisiche che reggono il mondo non importa. Al contrario, allorché sono i comportamenti umani a interferire profondamente con i cicli biogeochimici planetari, le conseguenze per gli stessi umani diventano collettive, globali, irreversibili, imprevedibili, transgenerazionali. Lo scandalo che dovrebbe muovere l’indignazione è che questi errori, per la prima volta nella storia dell’umanità, non saranno rimediabili (se non su tempi lunghissimi) e non saranno negoziabili. Non si potranno istruire processi, definire pene, concedere grazie insieme alla termodinamica. Le leggi di natura sono invarianti e semplicemente rispondono a dinamiche universali, si attivano inesorabilmente al superamento di soglie che non sono definite dai legislatori umani e i loro percorsi divengono totalizzanti e inarrestabili. Contro i danni ambientali che noi stessi stiamo consapevolmente preparando, compromettendo la qualità della vita nostra e delle generazioni future, non vi sarà possibilità di ottenere sconti né di relativizzare le conseguenze come spesso è accaduto con i processi storici esclusivamente umani.

    Il mito della crescita infinita

    Fino alla Rivoluzione industriale la storia dell’uomo è stata sostanzialmente dominata dai processi naturali: non nel senso di agenti di un banale determinismo sociale, ma come fattori forzanti ineludibili delle possibilità esprimibili dalla tecnologia vincolata a bassi flussi energetici. Come osserva Wrigley in Poverty, Progress, and Population (2004), tutta l’economia pre-fossile era incentrata sulla disponibilità di suolo coltivabile per uso alimentare umano ma anche animale (per ottenere energia meccanica) e forestale (per ottenere combustibile destinato a riscaldamento, fusione metalli, lavorazione vetro e ceramiche, e legno da costruzione). Ogni tentativo di espansione doveva fare i conti con i severi limiti imposti dalla produttività primaria fotosintetica, una coperta sempre troppo corta, come avevano compreso Malthus e Ricardo.

    È stato, verso la fine del Settecento, l’accesso alla risorsa energetica fossile – inizialmente torba nei Paesi Bassi, in seguito carbone in Inghilterra, e via via fino al petrolio e al gas – che ha improvvisamente liberato potenze di vari ordini di grandezza superiori ai pochi watt caratteristici di un individuo, permettendo la produzione siderurgica in grande scala, lo sfruttamento di risorse minerarie prima difficili da intercettare con le sole forze umane, attivando trasporti pesanti a lunga gittata e inventando nuovi materiali con la petrolchimica. Le leggi di natura cui si riferiva Ricardo non sono state dunque violate, ma soltanto temporaneamente aggirate grazie all’inatteso tesoro energetico fossile. Una rivoluzione che tuttavia ha avuto come prezzo l’aumento della popolazione terrestre da un miliardo del 1800 agli attuali 7,1 miliardi e dunque una profonda influenza sugli eventi fisici, chimici, biologici, climatici, energetici del pianeta, in dimensioni tali da condizionare i processi naturali su scala geologica, come ha fatto presente il Nobel per la chimica Paul Crutzen introducendo, per gli ultimi duecento anni di storia terrestre, la denominazione di «Antropocene».

    Il nodo attuale è, dunque, la mancanza concettuale e pratica di un limite, etico e fisico, delle attività umane, della crescita della popolazione, del prelievo di risorse e dell’alterazione ambientale. Il mito della crescita infinita e dell’accumulo fine a se stesso si è impadronito di ogni spazio

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