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Gobi, un piccolo cane con un grande cuore
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Gobi, un piccolo cane con un grande cuore
E-book271 pagine3 ore

Gobi, un piccolo cane con un grande cuore

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Info su questo ebook

Nel 2016 Dion Leonard, un esperto ultramaratoneta, incontra inaspettatamente una piccola cagnolina randagia durante una gara di 250 chilometri attraverso il deserto dei Gobi, in Cina. La cucciola, che sarà ribattezzata Gobi, dimostra che quello che le manca nella taglia è ampiamente ricompensato dalla grandezza del suo cuore: comincia a seguire Dion passo dopo passo, attraverso le impervie montagne Tian Shan, mantenendo il passo con lui per circa 130 chilometri.

Quando Dion si rende conto dell'incredibile determinazione di questo piccolo animale, qualcosa dentro di lui cambia per sempre. Così si ritrova a farla dormire nella sua tenda e a portarla in braccio durante il percorso, nonostante il rischio di restare indietro o addirittura di non terminare la gara. Fino a quel momento si era sempre concentrato sulla vittoria, cercando costantemente di migliorare le proprie performance, ma il suo obiettivo ora è semplicemente quello di assicurarsi che Gobi sia al sicuro, nutrita e ben idratata. Anche se non arriva primo, Dion sente di aver vinto qualcosa di ben più importante: un nuovo sguardo sulla vita e una nuova amica che decide di portare a casa con sé. Per riuscirci dovrà affrontare mille imprevisti e difficoltà, ma alla fine, riuscirà a riunirsi con la straordinaria creatura che ha dimostrato a lui e al mondo che i miracoli sono possibili.

Gobi Un piccolo cane con un grande cuore è una storia di speranza, resilienza e amicizia, che dimostra ancora una volta che i cani sono davvero i migliori amici dell'uomo. E su questa straordinaria vicenda un film di Twentieth Century Fox.

LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2018
ISBN9788858980156
Autore

Dion Leonard

Australiano, vive a Edimburgo, in Scozia, con la moglie Lucja. Ha partecipato (completandole) ad alcune delle più impegnative ultramaratone del mondo in territori difficili e inospitali, tra cui la celebre Maratona Des Sables nel deserto del Marocco e i 250 chilometri attraverso il deserto del Kalahari, in Sudafrica.Durante una gara Dion ha incontrato la cagnolina Gobi e questo ha cambiato le loro vite per sempre. La loro storia è stata raccontata in televisione, radio e da importanti quotidiani nazionali come il Times e il Washington Post, è in lavorazione un film per la Twentieth Century Fox tratto da questa straordinaria vicenda.

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    Anteprima del libro

    Gobi, un piccolo cane con un grande cuore - Dion Leonard

    belle.

    PARTE PRIMA

    1

    Uscii dall’aeroporto. Eccomi in Cina. Mi fermai un momento e lasciai che il caos mi travolgesse i sensi. Migliaia di motori rombavano nel parcheggio, facendo a gara con una miriade di voci che urlavano al cellulare intorno a me.

    I cartelli erano scritti in cinese e in un’altra lingua; arabo, pensai. Non conoscevo nessuna delle due, allora mi unii a una folla di gente accalcata in attesa di un taxi. Svettavo sugli altri di una trentina di centimetri, eppure ero invisibile.

    Mi trovavo a Ürümqi, una metropoli nella provincia dello Xinjiang, nell’angolo nordorientale della Cina. È la città più lontana dal mare del mondo. Durante il volo da Pechino, avevo visto vette aguzze coperte di neve e ampi scorci di deserto. Da qualche parte là sotto, gli organizzatori della corsa avevano ideato un percorso di quasi duecentocinquanta chilometri attraverso quelle montagne ghiacciate e una regione brulla, disabitata, senza vita e battuta da un vento incessante nota come deserto del Gobi. Presto avrei corso l’equivalente di poco meno di una maratona al giorno per i quattro consecutivi e quasi due maratone il quinto; infine, l’ultimo giorno, la gara si sarebbe conclusa con uno sprint di una decina di chilometri.

    Questo tipo di gara si chiama ultramaratona a tappe e forse non esiste niente di più spietato per saggiare la propria resistenza fisica e mentale. Quelli come me pagano migliaia di sterline per avere il privilegio di subire ogni genere di supplizio, fino a perdere il dieci per cento del proprio peso. Ma ne vale la pena. Ci sfidiamo nelle zone più remote e affascinanti della Terra e ad assisterci ci sono persone scrupolose e medici molto preparati. A volte affrontiamo prove durissime, ma che ci cambiano la vita, e raggiungere il traguardo è una delle esperienze più gratificanti.

    Tuttavia può capitare che le cose non vadano sempre bene. L’ultima volta che avevo tentato di correre l’equivalente di sei maratone in una settimana ero arrivato a metà classifica, agonizzante. Sul momento mi ero convinto di essere al capolinea e che non avrei mai più gareggiato; invece poi ero riuscito a riprendermi per tentare di nuovo. Se nell’ultramaratona del Gobi avessi fatto una buona performance, forse significava che non ero ancora finito. Nei tre anni precedenti, da quando cioè avevo preso seriamente la corsa, avevo scoperto che salire sul podio trasmette una bellissima sensazione e il solo pensiero di non poter più competere mi dava la nausea.

    Se le cose si fossero messe davvero male avrei addirittura rischiato di morire, com’era successo a un altro runner qualche anno prima.

    Secondo internet, per raggiungere il mio hotel in taxi dall’aeroporto ci volevano tra i venti e i trenta minuti. Ma ormai eravamo in viaggio da quasi un’ora e il tassista era sempre più seccato. Era già irritato quando aveva capito che ero un turista di lingua inglese e mi aveva chiesto una tariffa tre volte superiore a quella che mi aspettavo, poi il suo umore era persino peggiorato.

    A un tratto si fermò davanti a un edificio di mattoni rossi e, sbracciandosi, mi spinse praticamente giù dalla macchina. Guardai fuori dal finestrino, poi osservai l’immagine a bassa risoluzione che avevo mostrato al tassista prima di partire: i due palazzi si somigliavano un po’, ma era evidente che quello che avevo di fronte non era un albergo.

    «Mi sa che devi metterti gli occhiali, amico!» esclamai provando a sdrammatizzare.

    Non funzionò.

    Il tassista tirò fuori il telefono brontolando e urlò a qualcuno all’altro capo della linea. Arrivati finalmente a destinazione venti minuti dopo, era furioso e se ne andò sgommando e agitando i pugni.

    Non ci badai. L’ultramaratona tempra tanto il fisico quanto la mente e si impara in fretta a non farsi distrarre dai piccoli inconvenienti, come le unghie che si staccano o i capezzoli che sanguinano. Il nervoso provocato da un tassista arrabbiato era una cosa assolutamente trascurabile.

    Il giorno successivo, invece, fu tutta un’altra storia.

    Dovevo prendere un treno ad alta velocità per raggiungere Hami, una cittadina a qualche centinaio di chilometri da Ürümqi, dove si trovava il quartier generale della competizione. Nel momento stesso in cui arrivai in stazione, capii che il viaggio che mi aspettava avrebbe messo a dura prova la mia pazienza.

    Mai visto un tale dispiegamento di forze in una stazione ferroviaria. C’erano veicoli dell’esercito ovunque, transenne che convogliavano il flusso dei pedoni e poliziotti armati che dirigevano il traffico. Mi era stato consigliato di presentarmi due ore prima della partenza, ma guardando la marea di gente che avevo davanti mi domandai se sarebbero bastate. La corsa in taxi del giorno precedente mi aveva insegnato una cosa: se avessi perso il treno, forse non sarei stato in grado di superare la barriera linguistica per comprare un altro biglietto. E a quel punto, se non fossi arrivato puntuale all’incontro con gli organizzatori della corsa, non era scontato che mi avrebbero fatto partecipare.

    Di sicuro il panico non mi avrebbe portato da nessuna parte. Inspirai a fondo, cercai di calmarmi e mi diressi al primo controllo di sicurezza. Quando finalmente lo superai e capii dove dovevo andare a ritirare il biglietto, scoprii di essere nella fila sbagliata. Trovai quella giusta, solo che ormai mi restava pochissimo tempo. Se quella fosse stata una competizione, mi sarei ritrovato nelle retrovie. E io non correvo mai nelle retrovie.

    Ora mi restavano meno di quaranta minuti per passare un altro controllo, far esaminare al microscopio il mio passaporto da un poliziotto fin troppo scrupoloso, dribblare cinquanta persone in attesa di accedere ai binari e fissare, sempre più in ansia, cartelli e tabelloni sforzandomi di capire da dove cavolo sarebbe partito il mio treno.

    Per fortuna, non ero completamente invisibile e un ragazzo cinese che aveva studiato in Inghilterra mi batté sulla spalla.

    «Serve aiuto?»

    L’avrei abbracciato.

    Feci appena in tempo a sedermi nella sala delle partenze che tutti si voltarono all’arrivo del personale di bordo. Sembrava di essere in un aeroporto negli anni Cinquanta: i macchinisti indossavano uniformi immacolate, guanti bianchi e avevano l’aria di chi ha tutto sotto controllo; le assistenti erano gentili e impeccabili.

    Le seguii sul treno e affondai esausto nel mio posto. Erano passate quasi trentasei ore da quando ero partito da Edimburgo e tentai di allentare la tensione accumulata nella mente e nel corpo. Guardai fuori dal finestrino, ma il paesaggio – troppo poco coltivato per essere terreno agricolo e troppo poco disabitato per essere un vero deserto – si susseguiva monotono. Era soltanto un’immensa estensione di terra sempre uguale per chilometri e chilometri.

    Ero sfinito e stressato. Non era affatto così che volevo affrontare la gara più importante della mia, seppur breve, carriera di ultramaratoneta.

    Avevo partecipato a competizioni più prestigiose, come la famosa Marathon des Sables in Marocco, universalmente riconosciuta come la prova più difficile del mondo: per due volte avevo corso insieme ad altre tredicimila persone, attraversando il Sahara con temperature che raggiungevano i cinquantun gradi di giorno e precipitavano a quattro la notte. La seconda volta mi ero addirittura classificato trentaduesimo. Un risultato rispettabilissimo.

    Da allora però erano trascorsi quindici mesi, ed erano cambiate tante cose.

    Tutto era cominciato durante un’altra gara di duecentocinquanta chilometri nel deserto del Kalahari. Mi ero spinto oltre – decisamente oltre – per piazzarmi secondo: sarebbe stato il mio primo podio in un’ultramaratona a tappe. Purtroppo, non mi ero mantenuto abbastanza idratato e la mia urina era diventata del colore della Coca-Cola. In seguito, il medico mi aveva spiegato che la mancanza di liquidi aveva portato i reni a contrarsi e il continuo sforzo fisico li aveva danneggiati; per questo avevo il sangue nelle urine.

    Qualche mese dopo, durante un’altra gara, mi erano venute le palpitazioni: il cuore batteva all’impazzata ed ero stato travolto da un’ondata di nausea e vertigini.

    I disturbi erano poi completamente spariti non appena avevo cominciato la Marathon des Sables. Ignorando la sofferenza e stringendo i denti fino alla fine, ero riuscito ad arrivare tra i primi cinquanta. Il problema era che avevo davvero esagerato: tornato a casa, avevo iniziato a soffrire di violenti e dolorosissimi spasmi al tendine posteriore del ginocchio che mi prendevano anche se camminavo, figuriamoci se avessi corso.

    Ero rimasto a riposo per qualche mese, dopodiché ero passato da un fisioterapista all’altro, però tutti mi ripetevano sempre la stessa solfa: dovevo seguire la nuova combinazione di esercizi di resistenza e potenziamento che mi consigliavano.

    Provavo qualsiasi cosa, ma niente mi aiutava a riprendere a correre.

    Impiegai quasi un anno per incontrare un fisioterapista e un allenatore che capissero cos’avevo e trovassero una soluzione: parte del mio problema era che non correvo nel modo corretto. Sono alto più di un metro e ottanta, e ho una falcata ampia e precisa che mi viene facile e naturale. Ma non usavo i muscoli giusti, per questo avevo degli spasmi improvvisi e dolorosi alle gambe ogni volta che correvo.

    Dunque l’ultramaratona in Cina era la prima occasione per testare la mia nuova andatura, più corta e veloce. Mi sentivo in gran forma. Ormai in allenamento riuscivo a correre per ore senza sentire male e avevo seguito in maniera rigida la mia solita dieta pre gara. Da tre mesi avevo completamente eliminato l’alcol e le schifezze; in pratica mi nutrivo soltanto di pollo e verdure. Avevo addirittura rinunciato al caffè, sperando che così avrei scongiurato il rischio di palpitazioni.

    Se grazie a questi sacrifici la mia prestazione in Cina fosse stata buona come pensavo, quello stesso anno avrei affrontato un’altra gara molto prestigiosa nel Salar de Atacama, in Cile. A quel punto, se l’avessi vinta, l’anno successivo sarei stato pronto per tornare alla Marathon des Sables e farmi finalmente un nome nel mondo della corsa.

    Quando arrivammo, fui il primo a scendere dal treno e tra i primi della fila a dirigersi verso l’uscita. Così va meglio, pensai.

    La guardia al controllo di sicurezza, però, pose subito fine alla mia allegria.

    «Perché è qui?»

    Oltre le porte vidi una lunga fila di taxi accanto al marciapiede vuoto, in attesa dei viaggiatori. Cercai di spiegare all’agente che ero lì per una gara e che avevo fretta di prendere il taxi, ma tanto sapevo che era inutile: lui scrutò con aria scettica me e il mio passaporto, poi mi fece cenno di seguirlo in una roulotte usata come ufficio.

    Ci misi mezz’ora a spiegare a cosa servivano tutti quei pacchetti di gel energetici e alimenti secchi, e comunque ero sicuro di non averlo convinto. Immagino che mi abbia lasciato andare per noia.

    Una volta fuori dalla stazione, la folla si era dileguata. E i taxi pure.

    Ottimo.

    Aspettai. Ero stanco e non vedevo l’ora che quel viaggio assurdo finisse.

    Trenta minuti più tardi accostò un taxi. Prima di partire da Ürümqi, avevo stampato l’indirizzo del mio hotel in cinese. Allungai il foglio alla tassista e lei sembrò capire: ne fui molto contento. Salii sul sedile posteriore, incastrai le gambe contro il divisorio di metallo e chiusi gli occhi.

    Avevamo percorso appena qualche centinaio di metri quando l’auto si fermò e la donna fece salire un altro passeggero. Respira, Dion. Non aveva senso protestare. E non protestai, finché la tassista non si voltò e mi indicò la portiera, facendomi capire che aveva un cliente migliore e che non ero più il benvenuto a bordo.

    Tornai indietro, persi altri venti minuti per ripassare tutti gli inevitabili controlli di sicurezza e feci di nuovo la fila, da solo, alla fermata dei taxi deserta.

    Alla fine ne arrivò un altro. L’autista era allegro, gentile e sapeva esattamente dove andare. Pareva così sicuro che quando, dieci minuti dopo, si fermò davanti a un grande edificio grigio non mi passò neanche per la testa di controllare che fosse l’albergo giusto. Pagai, presi la mia valigia e lui se ne andò.

    Mi resi conto di aver sbagliato nell’istante in cui entrai. In quel palazzo non c’era un hotel, bensì degli uffici. Uffici in cui nessuno spiccicava una parola di inglese.

    Per quaranta minuti tentai in ogni modo di comunicare con gli impiegati e loro con me; qualcuno cercò persino di fare delle telefonate – non so a chi –, ma senza successo. A un certo punto vidi un taxi che procedeva piano in strada, afferrai la borsa e corsi fuori, implorando il tassista di portarmi a destinazione.

    Mezz’ora dopo, mentre fissavo il letto vuoto nella stanza dell’hotel economico che gli organizzatori della corsa avevano prenotato per me, pronunciai una solenne promessa a voce alta: «Non metterò mai più piede in Cina».

    A infastidirmi non erano la frustrazione per le difficoltà di comunicazione, i dolori muscolari o la stanchezza, ma il fatto che, dopo quella serie di contrattempi sfortunati, mi ero lasciato comunque innervosire, nonostante per tutto il giorno mi fossi sforzato di stare calmo. Era una reazione irrazionale e insensata. Mi ero ripetuto spesso che mi ero organizzato in modo da avere un sacco di tempo per il viaggio da Pechino al punto di partenza della gara e che, anche se avessi perso il treno, avrei trovato una soluzione. E poi sapevo perfettamente che i dolori degli ultimi due giorni sarebbero scomparsi non appena avessi cominciato a correre.

    Eppure, quando arrivai all’albergo, ero in ansia come non mi era mai capitato prima di una corsa.

    La causa, però, non erano né il viaggio né le prove fisiche che mi aspettavano. Era qualcosa di molto più profondo.

    Era la paura che potesse essere l’ultima corsa della mia vita. Era il timore di non vincere mai più una gara, perché vincere era sempre stata la sola cosa che mi spingeva a correre in maniera competitiva.

    Martedì 3 gennaio 1984, il giorno dopo il mio nono compleanno. Fu quella la prima volta che capii come può cambiare in fretta la vita.

    Era stata una bellissima giornata, con un sole splendido che brillava nell’estate australiana. Al mattino avevo corso in bicicletta saltando su alcuni dossi che avevo costruito io, mentre mamma e papà leggevano il giornale e la mia sorellina di tre anni giocava in giardino vicino all’appartamento della nonna, ricavato in un’ala al pianterreno di casa nostra. Poi avevo perfezionato il salto mortale sul trampolino e, dopo pranzo, io e papà eravamo tornati fuori con le nostre mazze da cricket e delle vecchie palle. Si era appena ripreso da una bronchite ed era un’eternità che non facevamo un po’ di attività all’aperto insieme. Mi insegnò l’impugnatura corretta della mazza, tanto che colpii la palla talmente forte che superò l’erba alta e secca del nostro giardino e volò oltre i confini della proprietà.

    Quando rientrai nel tardo pomeriggio, mamma stava cucinando e in casa aleggiava un profumo delizioso. Lasciava bollire il budino al cioccolato per ore e faceva un ragù di carne così buono che mi sporgevo sopra la pentola per annusarne il profumo finché il calore del fornello non diventava insopportabile.

    Insomma, fu un giorno perfetto.

    Come tutti i bambini, la sera mi rifiutai di andare a dormire dicendo che non avevo sonno, nonostante faticassi a stare sveglio. Mezzo addormentato, sentii la mamma che usciva per la sua lezione di aerobica del martedì; in sottofondo, papà guardava il cricket in tv a volume bassissimo.

    «Dion!»

    Non volevo svegliarmi. Era buio ed ero perso nel mondo dei sogni.

    «Dion!»

    Era mio padre. In casa non si udiva nessun altro rumore, né la tv, né la mamma.

    Non avevo idea del motivo per cui mi stesse chiamando e mi riaddormentai.

    Non so quante volte abbia ripetuto il mio nome, ma a un certo punto capii che dovevo alzarmi e andare a vedere cosa voleva.

    Era a letto, sotto un lenzuolo. Rimasi sulla soglia, papà respirava in modo strano, come se facesse uno sforzo immenso per incamerare anche solo un filo d’aria. Mi resi subito conto che stava molto male.

    «Corri a chiamare la nonna, Dion.»

    Mi precipitai di sotto e bussai alla porta.

    «Vieni subito» dissi. «Papà ha bisogno di te. Non sta bene.»

    Seguii la nonna. Ricordo che pensai che si sarebbe risolto tutto, perché lei era un’infermiera. Ogni volta che io o la mia sorellina Christie ci facevamo male, ci medicava e ci faceva ridere raccontandoci storie di quando era caposala in un ospedale per i reduci di guerra. Era una donna tosta, una combattente, ed ero convinto che avesse il potere di far scomparire la sofferenza e le malattie.

    Appena vide papà, corse subito a chiamare un’ambulanza. Io restai con lui; poi la nonna tornò e mi disse di andarmene.

    Christie dormiva nel suo lettino nella stanza accanto. Mi avvicinai e la osservai, e intanto ascoltavo il respiro di mio padre, che peggiorava sempre di più. La nonna gli parlò con un tono che non le avevo mai sentito. «Garry» disse a voce un po’ più alta del normale, «l’ambulanza sta arrivando. Hai un attacco di asma, devi stare calmo. Garry, tieni duro.»

    Christie si svegliò per il rumore e scoppiò a piangere.

    «Papà non sta bene» le spiegai, cercando di sembrare forte come la nonna, «ma stanno venendo ad aiutarlo.»

    Sentii l’ambulanza fermarsi davanti a casa e mi affrettai ad andare ad aprire. Li seguii con lo sguardo mentre trasportavano una barella e una bombola di ossigeno su per le scale. In silenzio osservai mamma precipitarsi in casa. Sentii i suoi singhiozzi venire dalla camera da letto e non capivo cosa significassero. Quando portarono via papà pochi minuti dopo, non volevo vederlo in faccia. Si sforzava di respirare regolarmente e tremava. Una ruota cigolava.

    Corsi fuori anch’io. La luce dei lampioni, dei fanali e delle frecce lampeggianti cancellarono la notte. La mamma arrivò nel momento in cui caricarono papà sull’ambulanza e lui le disse che l’amava.

    Ero di fianco alla nonna, a piedi nudi nell’erba fredda. «Andrà tutto bene» disse la nonna, ma non capii a chi si stesse rivolgendo.

    Mamma si chinò e papà le sussurrò: «Ti amo». Furono le sue ultime parole.

    Mia madre salì sull’ambulanza, mentre io, Christie e la nonna restammo a casa. Non so quanto tempo passò, né che cosa facemmo. Però

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