Io non ho sbagliato
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Infine, l’arrivo a Bari e l’inizio di altre vicissitudini. Sua madre, d’intesa con un prete e alcune associazioni religiose, la tradisce e fa in modo che il bambino, subito dopo il parto, sia immediatamente avviato all’adozione. Passano anni di angoscia e solitudine alla ricerca del figlio, tra case famiglia e tribunali, infine una decisione coraggiosa che le permetterà di scoprire realmente se stessa e di iniziare una nuova vita.
«Il mare di Bari è un’altra cosa: è quell’orizzonte che traccia una promessa e appare lontano come una linea eterna su cui scrivere i desideri e affidarli al cielo».
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Anteprima del libro
Io non ho sbagliato - Onofrio Pagone
Onofrio Pagone
Io non ho sbagliato
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ISBN 978-88-6155-658-4
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2016
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
Ad Annamaria
perché credeva nei sogni
e voleva volare,
volare alto.
Questo romanzo si ispira a una storia vera. La descrizione dei luoghi è rimasta oggettiva anche nella narrazione; i personaggi e molte situazioni sono invece opera di fantasia dell’autore.
1
L’albero della vita
Quella volta con Gheorghe fu bellissimo.
Eravamo stesi su una roccia, supini con le ginocchia piegate e gli occhi nelle nuvole. Abbracciati, senza parlare. Sentivo il vento nelle mie orecchie ed era come una voce amica che sussurrava. Mi piaceva quella voce e mi piacevano le mani di Gheorghe su di me.
Il sole era coperto quando mi tirò giù da quella roccia e cominciò a correre. Ero costretta a inseguirlo. Non volevo perderlo, Gheorghe, adesso che lo avevo con me. E lui non voleva lasciarmi sola.
Architettò ogni movimento per trascinarmi all’ombra di un albero enorme: non so che albero fosse, ricordo solo di essere rimasta impressionata dalle dimensioni del tronco e dall’ampiezza dei rami.
Gheorghe arrivò sotto quell’albero prima di me; si appoggiò al tronco e, respirando pesantemente, si portò una mano al petto per palpare la fatica di quella corsa improvvisa. Quindi mi fissò: attese il mio arrivo tra le sue braccia e poi cominciò a baciarmi.
Non riuscimmo più a staccarci. Nulla poteva lasciarci presagire cosa ci sarebbe successo; eppure da quel giorno per noi quello fu l’albero della vita. Lo chiamammo così: albero della vita. E lì correvamo, in riva al lago, sotto quell’albero enorme, ogni volta che volevamo ritagliarci uno spazio per noi due.
Noi due soli.
Fuori piove. Ho tanto desiderato la pioggia perché il caldo afoso e prolungato di quest’estate ha indurito la terra e sfiancato le mie forze. Me la posso godere questa pioggia: ne annuso il profumo in giardino, vedo le lumache sbizzarrirsi tra le foglie, sento addosso una carica strana, elettrica.
Mi ritrovo all’improvviso con lo sguardo sperduto nel vuoto: attraverso i vetri della mia finestra, oltre il giardino guardo in lontananza il mare grigio. E penso. Fisso il cielo, pure grigio. E sogno. È bella la campagna dei trulli; ancora più bella è la collina della Selva. Da questa finestra la domino tutta, la controllo, me ne sento padrona. È curiosa la sensazione che si prova ad essere padroni di qualcosa: non potevo immaginarlo prima, non ci avevo mai pensato.
Avevo desiderato il mio viaggio in Italia. Me l’ero immaginato come la svolta della mia vita, perché il viaggio doveva essere di sola andata, con una prospettiva di felicità. Avevo creduto di poter fuggire dal grigiore della mia terra: mi ero illusa che la Romania appartenesse alla mia infanzia e alla mia adolescenza e che poi, lontano dalle mie origini, avrei trovato il sorriso.
La pioggia scivola sui vetri e concilia i pensieri. Guardo la finestra: con quei rivoli mi sembra la mia faccia rigata dalle lacrime. Mi sono vista tante volte allo specchio in queste condizioni negli ultimi anni; adesso è arrivato il momento di smetterla. Ho deciso cosa fare.
Non posso accettare la sconfitta. È umiliante, a vent’anni, dover ammettere di aver sbagliato tutto, di aver già perso tutto. Me lo aveva detto mio padre, di restare lì, di non partire, di accettare le condizioni di Gheorghe e di far finta di niente... Eppure non riesco ad ammettere di aver sbagliato: io non ho sbagliato, sono fiera di tutto ciò che ho fatto.
Ma che ho fatto, in fondo?
Sono fuggita sì, ma non l’ho fatto per me stessa.
Ora non piove più: ha già smesso. Questa campagna adesso è più profumata. Il cielo si apre sul mare: mi ricorda quel giorno al lago, vicino a casa mia, quando riaprii gli occhi. Non avevo ancora compiuto diciassette anni, stavo con Gheorghe da pochi mesi. Non era il mio primo ragazzo, ma era il primo per il quale provavo le farfalle nello stomaco: mi faceva sentire importante, mi bastava guardarlo per avvertire una scossa alla schiena. Gheorghe mi sorrideva con gli occhi, mi faceva sentire grande. Mi fece donna, troppo presto.
Fu bellissimo, quella volta, con Gheorghe. Mi propose una gita al lago perché la giornata primaverile prometteva un sole caldo. All’improvviso invece il cielo si oscurò e col cielo anche la mia vita. Gheorghe aveva un profumo inebriante: mi fece salire sul suo motorino e mi portò via dalla città. Quel giorno marinammo la scuola: raccontammo bugie ai nostri genitori per farci firmare la giustifica e fummo pure creduti. Non mi ricordo bene cosa m’inventai, ma era una scusa talmente palese che mio padre me lo disse chiaro: Perché mi prendi in giro? Mi piacerebbe di più sapere la verità: vorrei che tu fossi sincera. Sappi che sono stato studente anch’io
.
Poi però firmò la giustifica senza neppure chiedermi cosa avessi fatto nel tempo della scuola. Forse aveva già capito o semplicemente aveva immaginato. In fondo non deve essere difficile per un padre calarsi nei panni di un figlio e indovinare i suoi desideri. Mio padre mi aveva vista uscire altre volte con Gheorghe, e avrà capito che la mia fuga da scuola era dovuta a lui.
Vieni, andiamo al lago
mi disse Gheorghe e io non me lo feci ripetere. Saltai in sella al motorino e mi abbracciai forte a lui: dovevo tenerlo stretto per non cadere, perché la sella era minuscola, il motorino non era per due e rischiavamo di finire entrambi sull’asfalto. Mi aggrappai a lui, lasciai al vento i capelli, mi feci risucchiare dalla voglia di vivere. Gheorghe aveva muscoli duri e una pelle morbidissima. Una carnagione chiara, chiarissima, ma capelli scuri e lunghi. Più grande di me di due anni soltanto, era ormai maggiorenne e trattò da maggiorenne anche me.
Intorno al lago non c’era nessuno. Quel silenzio sibilato dal vento nelle orecchie mi faceva sentire grande; non so perché, avevo all’improvviso la sensazione di essere diventata adulta. Gheorghe mi trasmetteva questa carica di maturità. Mi lasciai andare e fu bellissimo. Facemmo l’amore, fino in fondo, senza cautele, rapiti dall’ardore incontenibile dei nostri corpi. Non mi preoccupai delle conseguenze possibili: avevo fiducia nella vita, anche se conoscevo ancora poco il mio corpo. Solo dopo, quando riaprii gli occhi, mi resi conto dell’imprudenza.
Ma che fai: piangi? Ehi, piccola mia: perché piangi?
Non ero riuscita a contenere le lacrime e, nonostante ci avessi provato, non riuscii a nascondere le mie emozioni.
Piccola, ti ho fatto male? Piccola mia, che ti succede?
Gheorghe mi trattava come la sua bambina. Non ho mai capito se lo faceva per un eccesso di dolcezza oppure se mi riteneva davvero una ragazzina senza scrupoli e infingimenti, ma pur sempre una ragazzina. In effetti ero un’adolescente e me ne resi conto subito quando mi sforzai di decifrare quelle mie lacrime senza riuscirci. Perché piangevo? Semplice: perché mi era venuto un moto di commozione incontenibile.
Ero felice. Sì ero felice, perciò piangevo. In quel momento avevo avuto la possibilità di vivere la mia vita come una cosa mia senza dover chiedere il permesso a nessuno, tantomeno a mio padre.
Avrei voluto raccontare tutto a mia madre, ma lei ormai viveva lontano: era in Italia, vicino a Bari. Faceva la badante da tre anni e aveva imparato a parlare l’italiano. La sentivo per telefono ogni due settimane. Solo poche parole: Ciao, come stai? Tutto bene? Io sì, a scuola tutto ok, i capelli sono cresciuti e sono lunghi adesso. Sai, ho comprato una gonna nuova, posso anche mettere quelle scarpe coi tacchi che mettevi tu col tailleur blu
. Tutto qui. Ogni due settimane pochi minuti di convenevoli, ma lei era pur sempre mia madre e mi mancava.
Gheorghe cominciò ad accarezzarmi il viso. Poi a soffiarmi sul naso, come a voler spolverare quel rigagnolo segnato dalle lacrime. Era dolce, diceva di amarmi. Lo diceva davvero, lo ripeteva sempre: mi chiamava Amore. Solo: Amore; sempre: Amore. Quando stavo con lui, dimenticavo il mio nome perché per lui ero semplicemente Amore. Ma che nome è: Amore? È femminile e può essere anche maschile; si addice a un bambino come al fidanzato o al marito o alla moglie. Non mi piace sentirmi chiamare Amore, eppure se lo faceva Gheorghe non sapevo reagire.
Ero felice ma sentivo che quelle mie lacrime scavavano dentro di me solchi profondissimi.
Avevo appena fatto l’amore e non era la prima volta, ma rispetto a quelle precedenti – comunque poche – avevo provato una sensazione straordinaria. Mi ero sentita percorrere lungo tutto il mio corpo da un filo di vitalità che mi aveva perlustrato l’anima e aveva girovagato dappertutto cercando di insediarsi, di lasciare traccia. Di segnarmi per sempre.
Avevo quasi perso i sensi, quella volta con Gheorghe. Mi ero sentita libera, spontanea, fieramente donna.
Sei grande
mi aveva detto. In quel momento di trasporto e di confusione, non riuscii a comprendere appieno il significato del complimento. Grande: che significa? Cosa voleva dirmi? Era un complimento perché ero stata completamente con lui, o mi aveva sentito adulta in quel momento? O entrambe le cose insieme? O che? Grande: perché?
Siamo tornati altre volte al lago, tante volte, e ci siamo sempre isolati lì: sotto l’albero della vita.
È sempre stato un momento magico l’abbraccio di Gheorghe. Irresistibile, tenero e forte, inebriante.
Non avevo ancora diciassette anni, non riuscivo a distinguere tra affetto e amore, come dicono gli adulti. Non so dire cosa provassi per Gheorghe. Io mi sentivo innamorata, ogni giorno di più, ma non so dare un valore a quel trasporto che mi travolgeva quando ero tra le sue braccia, e soprattutto a quel desiderio di lui che mi prendeva per la sua assenza quando non era con me.
Passavano i mesi e l’anno scolastico finì per entrambi. Ci andò bene, nonostante le lezioni saltate per le fughe al lago.
Arrivò l’estate, ma io cominciai a star male. Mi guardavo allo specchio e mi vedevo gonfia, non sopportavo gli odori di cucina e i deodoranti dei miei amici. Anche il profumo dei muscoli di Gheorghe cominciava a disturbarmi. Non riuscivo più neppure a mangiare o a digerire; spesso non riuscivo a riprendermi se non dopo un vomito salutare. Vomitavo anche l’anima. Mio padre mi portò dal nostro medico e il medico dispose una serie di accertamenti. Mi prescrisse una lista infinita di analisi, ma non fu necessario farle tutte: per la diagnosi furono sufficienti i risultati del primo laboratorio.
Rimasi impietrita. All’inizio non sapevo se gioire o piangere. Se festeggiare o farla finita, subito. Ma quella indecisione per me durò solo pochi minuti: corsi in bagno, chiusi bene la porta con due mandate, mi guardai allo specchio e scoppiai a ridere. Sì, a ridere di felicità. Già mi proiettavo nel mio futuro, già mi immaginavo come sarebbe cambiata la mia vita. Mi feci bella: un po’ di rimmel, una pettinata ai capelli, una gonna al ginocchio invece dei soliti jeans, e chiamai Gheorghe.
Dobbiamo vederci, subito
. Non gli spiegai nulla, non gli anticipai nulla. Forse un po’ lo spaventai, perché si precipitò col motorino all’angolo di casa. Quando arrivò, io ero già lì ad aspettarlo, come al solito.
Che è successo, Amore?
Ti devo parlare
.
E allora fallo
mi rispose imperioso. Sono venuto in cinque minuti, che è successo?
È successa una cosa enorme. Enorme…
A quel punto passò un camion carico di rifiuti, maleodorante e gigantesco. Il suo rumore non consentiva di comunicare, per quanto era fastidioso.
Andiamo via da qui. Dai, sali, andiamo al lago
. Gheorghe aveva avuto l’idea giusta: mi aggrappai a lui per montare sul motorino, ma in quel momento mi resi conto che da quel giorno non avrei più dovuto farlo. Mi bloccai, senza spiegazioni.
E allora: sali? Che aspetti? Questo coso qui puzza, muoviti
.
Non ne ebbi il coraggio. Mi guardai e sospirai. Avevo bisogno di tempo per spiegare, non potevo dirlo così, su due piedi.
Non posso venire sulla moto: vedi, sono uscita con la gonna, non posso…
Sembrava una bella scusa, ma era una stronzata. Gheorghe se ne rese subito conto.
Amore, che succede? Amore, dimmi la verità: che hai?
Non potevo