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Annapurna
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E-book182 pagine2 ore

Annapurna

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Narrativa - romanzo (166 pagine) - L’estasiante esperienza del cammino sull’Annapurna, raccontata giorno per giorno, per non perdere nemmeno una delle emozioni che il trekking nel mondo himalayano rinnova a ogni passo. 


L'Annapurna è un massiccio del Nepal centrale che svetta tra i ghiacci e le nevi dell'Himalaya. Attorno ai suoi picchi si snoda tortuoso un sentiero lungo 230 chilometri, che attraversa luoghi, popoli e paesaggi tra i più belli dell'Asia. È dagli anni '70 che in ogni stagione centinaia di persone intraprendono il cammino e, una volta completato il percorso, ritornano ai propri vecchi mondi con la percezione che qualcosa sia cambiato dentro di loro.

Questa è la storia di un cammino fra i tanti: una storia di incontri, di boschi, di monti, di passi. C'è la città di Kathmandu, dove tutto comincia. C'è il villaggio di Besi Sahar, dove parte il sentiero. Ci sono le valli dei fiumi glaciali che risuonano di nomi esotici, come il Marsyangdi e il Kali Gandaki. C'è il Thorung La, che con i suoi 5416 metri è il più alto passo montano al mondo. C'è la città dimenticata di Marpha, le terme di Tatopani, le vette di Pun Hill, la metropoli di Pokhara; ma a unire tutti questi luoghi è la storia di un uomo che li attraversa, che respira, vive, ascolta e viaggia non solo nella realtà fisica dell'Himalaya ma anche nel suo mondo interiore. I luoghi nascosti dell'animo su cui l'Annapurna pian piano getta luce sono pieni di domande, speranze e ricordi, ma anche di un'ossessione fatta di donne, danze e musica.

L'Annapurna è una scusa per partire. Diventa l'occasione per perdersi e perdere tutto, per poi forse ritrovare tutto e tutti. Diventa, a tratti, un mondo alieno, in cui a dominare sono gli dei-montagna, e dove gli uomini che passano sono soltanto degli intrusi. Si trasforma in una nuova realtà dove si creano legami unici tra i viandanti e unici diventano i ricordi di un'umanità bella e diversa che ogni sera si ritrova al caldo delle locande lungo la strada.

Questa è una storia per viaggiatori di un viaggiatore, che ha capito quanto camminare tra i monti per centinaia di chilometri serva a scoprire che il mondo di problemi che ci portiamo dentro è davvero piccolo rispetto a un altromondo imponente e silenzioso che non si cura di noi, e ci lascia passare.


Luigi Squillante nasce a Napoli nel 1987. Vive a Sarno, in Campania, fino alla maturità; poi si sposta a Roma e, dopo altre parentesi in Italia e all'estero capisce che la capitale è l'unico luogo dove voglia davvero mettere radici. Si laurea in astrofisica, si addottora in linguistica, si specializza in didattica. La musica, la scrittura e i viaggi rimangono realtà importanti nella sua vita accanto alla sua forte passione per l'insegnamento. Al momento è docente di ruolo di matematica e fisica in un liceo scientifico romano.

Ha già pubblicato I giorni del mare per 0111 Edizioni.

LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2017
ISBN9788825403480
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    Anteprima del libro

    Annapurna - Luigi Squillante

    Edizioni.

    1

    Avevo chiuso gli occhi poco dopo il decollo.

    C’era una melodia dolce e lontana che mi giungeva a tratti e che provavo a seguire. Sembrava che le note arrivassero soffuse, da una porta socchiusa, e che tendendo bene l’orecchio si sentissero anche delle parole. Tuttavia non riuscivo a capirle e l’oscurità che avevo intorno mi disorientava. Avevo provato a chiamarti, ma la voce dell’hostess aveva fatto prima a svegliarmi, chiedendomi con dolcezza se gradivo agnello al curry o pollo condito al masala.

    Guardandomi intorno per mettere a fuoco l’ambiente sentivo le dita affondare nei braccioli. C’era il ricordo fumoso di essere in aereo, su un volo per Dubai. Ero partito nella tarda serata e noi c’eravamo salutati la notte prima.

    Intanto avevo risposto all’hostess optando per l’agnello e tornando alla realtà.

    Sì, ricordavo tutto. Eravamo stati a cena la notte precedente, poi mi avevi chiesto di salire a casa. Avevamo salutato insieme Roma dall’alto di una terrazza all’ottavo piano, bevendo digerselz e rimanendo incantati dalle luci dei castelli che si mostravano in lontananza.

    Eravamo commossi entrambi, forse dalla vista, forse dal fatto che stessi per partire.

    All’improvviso ti sei riversato su di me, mi sono ritrovato la tua testa sul petto e ti ho abbracciato. Poi ti ho baciato e siamo scesi giù, dentro casa. Abbiamo fatto l’amore, cosa che non accadeva da mesi. Siamo rimasti stretti fin quando tu non sei scappato, per riprendere la macchina lasciata sotto casa e rientrare ai Parioli, che domani-si-lavora.

    Stavo partendo per quasi dieci mesi e quello era stato un giusto addio, o forse solo un arrivederci. Non sapevamo come e se ci saremmo ritrovati dopo tanto tempo, ma l’entusiasmo per quello che stavo per affrontare aveva zittito tutto: la malinconia di casa, la lontananza degli amici, il calore della vita che avevo intorno, la distanza da te. Sentivo dentro il bisogno di immergermi in nuovi mondi, di lasciare tutto e tutti indietro. Mi avevi detto che il viaggio è sempre una perdita e io avevo bisogno di perdermi e perdere tutto, per poi forse ritrovare tutto e tutti. Quanto intenso e doloroso potesse essere il percorso non lo sapevo ancora. Mi avevi detto che viaggio sappiamo entrambi si dica travel in inglese, e che travel richiama travaglio, e travaglio implica dolore e fatica. Ma io avevo aggiunto che il travaglio è anche ciò che precede il parto, la nascita di qualcosa di nuovo. Forse, il rinnovamento della vita.

    Tentai di ritrovare nella mente quella melodia dolce e lontana che ascoltavo nel sogno, ma mi sembrava ormai troppo remota. Così mi ritrovai a mangiare l’agnello, guardando il buio fuori dal finestrino e pensando che i saluti di qualche ora prima erano anch’essi già così lontani.

    La sagoma grigia delle isole che componevano Palm Jumeirah mi apparve subito netta mentre ci preparavamo all’atterraggio. L’alba era arrivata da poco sugli Emirati e i profili dei grattacieli di Dubai trasparivano dietro una foschia densa e cupa, che immaginavo come un’enorme nuvola di sabbia e smog. In poco meno di quindici minuti mi ritrovai a respirarla, mettendo piede su un suolo infuocato che già rivelava i suoi trenta gradi alle prime luci del mattino. Il mio volo per Kathmandu sarebbe partito da un terminal diverso, così gli addetti dell’aeroporto si sbrigarono a indirizzarmi su una navetta che schizzava veloce per chilometri di asfalto e che mi mostrava, attraverso una rete d’acciaio, la realtà della periferia di Dubai che non avrei conosciuto, almeno per ora. Bastarono pochi passi, dopo che la navetta si fu fermata, per entrare nel terminal e immergermi per la seconda volta in poche ore nell’atmosfera ricca e irreale dell’area imbarchi. Il non luogo dell’aeroporto di Dubai appariva identico a tanti degli aeroporti in cui ero passato, se non per le persone, che qui sfoggiavano in gran quantità chador, burka e turbanti. Cercai quasi subito il mio volo su uno schermo. Scorsi le righe luminose: la scritta Kathmandu, confusa tra le decine di luoghi remoti che la circondavano, mi confermò che, stando alle previsioni, verso sera avrei messo piede in Nepal. Dovevo solo aspettare circa cinque ore e così mi avviai alla ricerca di un posto per fare colazione.

    Mi venne in mente quando da bambino passavo giorni a disegnare bandiere. Quelle sagome rettangolari, piene di colori, sembravano infinite e sempre nuove. In ognuna delle forme e in ognuno di quei colori era in realtà presente un mondo sconosciuto, un Paese vicino o distante migliaia di chilometri. E tutto ciò aggiungeva un fascino misterioso alla riproduzione di quelle rappresentazioni. Era come se, da qualche parte, le strisce di matita colorata che tracciavano il nero, il rosso e il giallo della Germania, allo stesso tempo delineassero i contorni della porta di Brandeburgo, dei pini della Foresta Nera e dei bratwurst venduti agli angoli delle strade di Berlino. Era come se colorare il verde, l’azzurro, il nero e il giallo della Tanzania, delineasse sulla carta la sagoma del Kilimangiaro, le macchie del dorso delle giraffe, gli occhi vispi dei bambini bantu. Ma nel grande atlante del mondo, che aprivo puntualmente per ricalcare su carta tutti quei mondi colorati, c’era sempre una bandiera strana, diversa, speciale. A colpo d’occhio la riconoscevi subito, perché interrompeva la regolarità di quei rettangoli. Era formata da due triangoli impilati l’uno sull’altro, dal contorno blu e dal fondo di un cremisi intenso. Al centro dei triangoli c’erano due figure bianche, quelle che poi avrei scoperto essere le stilizzazioni di un fiore di loto e del sole. Sotto la bandiera, una breve scritta di cinque lettere: Nepal.

    Tale anomalia si era sedimentata in qualche punto della mia testa, invitandomi poi, col tempo, a scoprire dove si trovasse questo Stato, che fosse compresso tra due mondi così diversi, quali sono l’India e la Cina, e che condividesse con quest’ultima la vetta più alta della Terra. Poi, per gli anni a seguire, il Nepal era rimasto latente nella mia mente, nascosto il quel punto ben preciso dove l’avevo lasciato da bambino e sepolto dalle centinaia di informazioni, nozioni, doveri e incombenze che la crescita e la vita adulta avevano cominciato ad accumulare e che, pian piano, avevano velato i legami più diretti con la scoperta, l’imprevedibilità, il desiderio.

    Era rispuntato solo qualche anno fa, quando mi trovavo in Germania. La coppia che mi affittava casa era appena rientrata da un anno in Asia, dove il marito era stato impegnato per lavoro. Prima di tornare in Europa si erano concessi un viaggio sull’Himalaya, e avevano trascorso solo pochi giorni lungo un breve trekking in Nepal, nella regione dell’Annapurna. Mi avevano mostrato le foto, e avevo sentito che quel mio piccolo cassetto mentale, sepolto dietro scaffali, scatole e pile di carte, e che conteneva una parola di cinque lettere e una strana bandiera fatta di due triangoli, aveva iniziato a smuoversi. Mentre mi mostravano le immagini di sentieri circondati da banani, case di pietra e vette innevate all’orizzonte, mi descrivevano brevemente le loro impressioni. E io sentivo che a ogni parola gli ingombri che nascondevano il mio antico interesse verso quel Paese asiatico venivano spazzati via. Sul racconto del cielo notturno himalayano, pieno di stelle, erano volate via le pile di carte; sui sentieri dove si incontravano file di muli addobbati di nappe rosse erano state spazzate via le scatole; sul silenzio irreale, la vista di laghi turchesi, e quella sui templi tibetani, gli scaffali si erano vaporizzati. E così quel cassettino era rimasto libero, illuminato da una striscia di luce proveniente dal resto delle parole che mi arrivavano alle orecchie e che raccontavano dell’ospitalità delle persone locali, delle notti nelle locande lungo la strada, dell’umanità bella e diversa incontrata lungo i pochi giorni di percorso. Novembre era stato un mese perfetto, avevano detto: la stagione dei monsoni era passata, le nevi invernali non erano ancora scese.

    Quando, tre anni dopo, mi ritrovai in un tiepido ottobre romano con la prospettiva di quasi un anno di pausa tra il lavoro che avevo appena lasciato e quello che avrei cominciato nel settembre successivo, non ebbi dubbi sulla scelta di partire e su quale dovesse essere la meta.

    Quando te lo dissi, ti vidi spaventato per la mia decisione improvvisa, per il poco tempo che c’era per la preparazione, l’organizzazione del viaggio, le responsabilità pendenti a Roma. Io ne ero consapevole, ma allo stesso tempo c’era una forza sconosciuta che mi guidava nell’affrontare tutti i doveri precedenti alla partenza con rapidità e con una positività inaudita, quasi esistesse la consapevolezza che qualsiasi ostacolo sarebbe stato superabile e che il viaggio era ormai una realtà non più derogabile. Avrei avuto circa dieci mesi di piena libertà e probabilmente non mi sarebbe più ricapitato. Di risparmi ne avevo a sufficienza per un po’; in seguito avrei cercato un lavoro da qualche parte. Il piano non era ancora delineato a lungo termine, ma c’era una consapevolezza chiara, ovvero la prima tappa dell’itinerario. Era l’inizio di ottobre, tre settimane prima della mia partenza, e rimasi a guardare il monitor del computer qualche istante dopo aver acquistato un biglietto aereo di sola andata. Lo schermo mi diceva che la prenotazione del volo era confermata e che avrei raggiunto Kathmandu facendo scalo a Dubai.

    Mi ritrovai a fissare il cassetto illuminato da una striscia di luce nella mia testa, poi abbassai gli occhi, fino a guardare la mia mano. Al centro, ben in vista, mi accorsi di averne la chiave.

    Mi parve di sognare la musica dolce e lontana anche appena prima dell’atterraggio a Kathmandu, ma stavolta la fretta di allacciare le cinture, la preparazione alla discesa, e la vista delle flebili luci della città che diventavano sempre più vicine avevano preso il sopravvento. In pochi minuti ero sull’asfalto della pista, lo zaino in spalla, diretto verso una statua di Buddha sotto cui una scritta ci diceva di essere i benvenuti in Nepal. La trafila per il visto e il cambio della valuta fu rapida, come anche l’attesa per il bagaglio. In meno di un’ora mi ritrovai all’uscita dell’aeroporto, uno zainetto sullo stomaco e uno zainone sulle spalle, a dividere con un austriaco il taxi che ci avrebbe condotto verso Thamel, al centro della città, dove si trovava l’albergo che avevo prenotato dall’Italia. Era stata l’unica prenotazione che mi ero concesso, nell’assoluta imprevedibilità del viaggio. Dopo le ore di volo e lo scalo a Dubai, avevo immaginato di voler solo andare dritto a riposarmi una volta arrivato, e così mi ero fidato dei suggerimenti raccolti su internet.

    Il taxi procedeva a rilento nella strada trafficata che lasciava l’aeroporto per dirigersi verso il centro. La sera era condita da un gran frastuono. I clacson di auto e moto non smettevano di suonare, c’erano scooter che sfrecciavano a destra e a sinistra, persone che si accostavano e che attraversavano la strada in ogni punto. I commercianti invitavano i passanti a entrare nei negozi. Scorsi il susseguirsi rapido di una frutteria, un negozio di vernici, un barbiere. Il tassista provava a spiegarci qualcosa dei luoghi che attraversavamo in un inglese appena comprensibile e noi lo ascoltavamo con interesse, confusi dal caos della strada, dal rumore e da quella vita pullulante di cui eravamo circondati.

    Era il Diwali, ci disse il tassista, la Festa delle Luci e la notte di Kathmandu era illuminata da migliaia di lampade a olio e candele, oltre che da serie di lucine che ornavano i templi e le cui file univano i tetti delle case ai balconi, alle finestre e agli steccati. Era difficile orientarsi e noi ci eravamo totalmente affidati al nostro conducente.

    Il tragitto, che copriva poco più di qualche chilometro, durò più di mezz’ora. A un certo punto, quando ormai le svolte a destra e sinistra in stradine strette e illuminate non erano più numerabili, il taxi si fermò. Ci trovavamo in un vicolo stretto, addobbato di insegne, luci, e piante che provavano a trovare in ogni direzione una via di fuga dagli angusti angoli in cui erano state collocate. Le persone vociavano, camminavano, correvano come fossero parte di un formicaio che si snodava per il vicolo, sotto le insegne, tra le luci e le piante. Era un ambiente saturo, ma io mi sentivo carico per affrontarlo, quasi che l’iperstimolazione dovuta alle luci e alla gente mi rendesse attivo, vitale e su di giri. Quando scorsi tra la foresta di insegne il nome dell’albergo che avevo prenotato, capii perché c’eravamo fermati. Avvisai Hans, l’austriaco, che eravamo arrivati: avevamo diviso il taxi proprio perché avevamo la stessa destinazione. Liquidammo con i dovuti saluti e la paga concordata l’autista, mentre ci aiutava a scaricare gli zaini dal bagagliaio. L’uomo si affrettò poi a ritornare nella giungla notturna di insegne, persone, luci e piante, che non faticò a inghiottirlo nel giro di pochi secondi.

    Io e Hans ci ritrovammo a salire due piani di scale, illuminate da neon gialli e rossi. Al primo piano mi parve di scorgere un pub. Continuando a salire, poco sopra, una scritta Reception e un signore sulla cinquantina ci accolsero benevolmente e in pochi minuti riuscimmo ad avere le chiavi delle nostre stanze. Con ancora nella testa la musica che proveniva dalla strada, i suoni di un inglese acuto e biascicato e le luci forti del Diwali, entrai in quella che doveva essere la mia camera per qualche giorno. Chiusi velocemente la porta, accesi la luce e abbandonai con sollievo i due zaini sul letto. Mi avvicinai allo specchio che era di fronte e guardai con attenzione la mia faccia. C’erano state circa diciotto ore tra quando avevo chiuso la porta di casa a Roma e quel momento. Le occhiaie che mi ritrovavo, nonostante il sonno in volo, me lo dichiaravano violentemente. In un solo istante, tutta l’energia che avevo sentito addosso fino a qualche minuto prima scomparve e senza rendermene conto mi ritrovai a scostare gli zaini dal materasso e ad adagiarmi disteso sul letto. Fissai il soffitto pensando che non avevo ancora realizzato che il mio lungo viaggio fosse davvero iniziato. Bastarono pochi altri pensieri a farmi chiudere gli occhi e introdurmi verso un sonno profondo senza sogni.

    Mi risvegliai fissando lo stesso soffitto che il mio sguardo aveva abbandonato circa nove ore prima e mi sentii completamente riposato. Una luce potente filtrava dalla tendina che copriva la finestra e si sentiva il lontano vociare del vicolo. Faceva caldo e di questo ero felice. Il mio orologio segnava le otto in punto e ti immaginai a dormire, tu che eri ancora avvolto nella notte. Non ci volle molto per rimettermi in sesto. Sapevo dove cercare i vestiti puliti nel grande zaino che durante la notte era finito sul pavimento. Trovai la doccia aprendo una malandata porta in legno che separava la camera dal bagno e un getto d’acqua gelida mi accolse col vigore di una sveglia tonificante e necessaria.

    Poco dopo mi trovavo seduto sulla terrazza dell’albergo, ad aspettare la colazione, e a scambiare quattro chiacchiere con Hans. Con la luce del mattino riuscii a scrutarlo meglio, nelle sue rughe, nei suoi capelli bianchi, nei suoi occhi celesti. Mi raccontò di lui. Mi disse di essere in Nepal per seguire una

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