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Il mio piccolo miracolo
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E-book112 pagine1 ora

Il mio piccolo miracolo

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Info su questo ebook

Shandi Pierce è rimasta incinta a diciassette anni e sin dal primo istante ha amato profondamente il suo Nat, ma questo non è bastato a trasformarla in una madre. Quattro anni dopo è ancora una figlia con un figlio: vive con la mamma, è suo padre a pagare tutti i conti, e il suo migliore amico, Walcott, le fa da cavalier servente. Ma Natty non è un bambino come tutti gli altri, e quando la sua intelligenza fuori del comune attira l'attenzione di una strana ragazzina a dir poco strana, soltanto Shandi vede la reale minaccia.

E a quel punto, se vuole proteggere suo figlio, deve crescere in fretta e trovare una risposta alla fatidica domanda: come può una ragazza trasformarsi in madre?


Con la consueta elegante ironia, Joshilyn Jackson tratteggia la protagonista del suo nuovo romanzo, NELLA STORIA D'AMORE DI QUALCUN ALTRO.
LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2017
ISBN9788858964378
Il mio piccolo miracolo

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    Il mio piccolo miracolo - Joshilyn Jackson

    JOSHILYN JACKSON

    IL MIO PICCOLO MIRACOLO

    traduzione di Claudia Lionetti

    Titolo originale dell'edizione in lingua inglese:

    My Own Miraculous

    William Morrow Impulse

    an imprint of HarperCollins Publishers

    © 2013 Joshilyn Jackson

    Traduzione di Claudia Lionetti

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-589-6437-8

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall'editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l'alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell'editore e dell'autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

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    1

    Avevo ventun anni quando sono diventata madre, anche se, tecnicamente parlando, Natty è capitato tre anni e nove mesi prima, nell'estate in cui di anni ne avevo diciassette e lui ha deciso di inventarsi in gran segreto dentro di me. Ma questa è pura biologia. Che non faceva automaticamente di me una madre. Non sapevo nemmeno che esistesse.

    Non subito, almeno. L'ultimo anno del liceo era iniziato da due settimane ed ero presissima fra gli allenamenti di corsa campestre e le domande di ammissione ai college quando mi accorsi di aver un grande, enorme, gigantesco ritardo. D'improvviso mi piacevano i pompelmi e i peperoncini e scoppiavo in lacrime ogni volta che vedevo lo spot con il cane che si perdeva e poi ritrovava la strada di casa.

    Impossibile. Sapevo che era impossibile, ma poi saltai un altro ciclo e reggiseni e cinture iniziarono ad andarmi stretti. E, qualsiasi cosa mangiassi a colazione, non riusciva a restarmi nello stomaco.

    Ricordo quando ho portato il test di gravidanza dal bagno alla mia camera. Piano, un passo alla volta, attenta a tenerlo ben dritto in orizzontale come indicato sulla scatola. La mamma era al lavoro al nostro negozio di caramelle, perciò avevo la casa tutta per me. Walcott, il mio migliore amico, aspettava seduto sul letto, tutto preoccupato, rannicchiato a palla e con la schiena curva. Gli misi lo stick sotto il naso, sulla mia toeletta.

    Era la toeletta di quand'ero bambina, bassa, con i pomelli dei cassetti a forma di margherita e adesivi gratta e annusa di Barbie, ormai sbiaditi, appiccicati tutt'intorno al bordo dello specchio. Che effetto strano vedere un test di gravidanza accanto al mio vecchio maialino salvadanaio di metallo! Mi misi a sedere vicino a Walcott, nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo dallo stick. La tenue striscia rosa che iniziava già a comparire nella finestrella di controllo confermava che il test funzionava in modo corretto. Ancora nulla nella finestrella dei risultati. Mi allungai a prendere un fazzoletto di carta dalla scatola e ce lo adagiai sopra con un gesto solenne.

    «Shandi!» protestò Walcott.

    Io scossi la testa. «Non possiamo stare qui a fissarlo per altri quattro minuti.»

    Ci ritrovammo quindi a fissare il fazzoletto, nel tentativo di farci venire la vista laser per guardare la risposta impossibile che stava comparendo lì sotto. Ai piedi del letto spiccava una macchia rosa: era Lobby-La, il mio vecchio pony di peluche. Lo presi e me lo strinsi forte alla pancia. I minuti trascorrevano così lentamente che ognuno era un'agonia, eppure tutti e quattro passarono troppo in fretta. Volati prima che fossi pronta a sapere. Walcott allungò un lungo braccio ossuto e fu lui a togliere il fazzoletto.

    Vidi la seconda striscia rosa e la prima cosa che mi venne in mente fu: Sorpresa!

    Lo pensai con un'intensità tale che le sillabe presero a rimbombarmi nel cranio, a rimbalzarmi di qua e di là nel cervello come se una folla me lo stesse gridando in coro nelle orecchie. Ecco, così l'avevo giusto sentito gridare quel settembre, quando un gruppetto di persone che adoravo erano saltate fuori come tanti cretini da dietro la penisola per la colazione con in mano una torta illuminata da diciassette candeline e pacchetti colorati pieni di nastri e nastrini.

    Ma non fu Sorpresa! a uscirmi di bocca, bensì: «Merda!».

    Lo esclamai con la stessa intensità con cui Sorpresa! mi era rimbombato in testa, solo un po' troncato per via del panico. Scappò di bocca anche a Walcott. Guardavamo il test e poi ci fissavamo l'un l'altra nello specchio e poi guardavamo di nuovo lo stick e ci fissavamo e via così.

    Povero Walcott, che aria sconcertata e impaurita e smarrita aveva. Io no, per nulla. Io avevo un'aria assente. Assente e incredula, mentre Walcott era abbattuto. Gettai via Lobby-La e mi alzai per non vedere tutto ciò che di vero accadeva sul suo viso e che non volevo vedere.

    «Non è un problema tuo» lo avvisai con tono piatto e sprezzante.

    Ed era vero, il mucchietto di cellule che si stavano moltiplicando dentro di me non era, in senso letterale, un problema suo. Amavo Walcott, ma non in quel senso. Non sarei mai stata con lui in quel senso.

    Tecnicamente parlando, non ero mai stata con nessuno in quel senso. Ma non è un problema tuo era la cosa sbagliata da dire a Walcott, che scattò in piedi furente.

    «Col cacchio che non lo è» replicò.

    Si avvicinò e mi prese una mano, me la girò all'insù e premette il pollice contro il mio. Sentivo il sottile rilievo della sua cicatrice premermi contro la pelle.

    Conoscevo bene quella cicatrice. Se l'era fatta apposta per me, il giorno del suo nono compleanno.

    «Col cacchio che non lo è» ripeté. Sottile come una lenza, quella cicatrice era lì a rammentarmi di tutti i modi in cui ci spalleggiavamo a vicenda. Nessuno di questi modi avrebbe mai potuto portare a Natty, certo, ma eravamo entrambi figli unici, cresciuti insieme su una fetta di montagna dove non c'erano altre case nei paraggi se non le nostre. Walcott era la mia famiglia, e gli volevo bene quanto ai miei fratellini, i figli di mio padre ad Atlanta. Fra noi non esisteva, non era mai esistito né sarebbe mai esistito un non è un problema tuo.

    Lì in piedi, pollice a pollice, senza più traccia di paura sulla sua faccia e con l'altra mano sulla pancia, capii che c'era davvero un bambino, reale quanto Walcott, che si stava formando dentro di me. Ma non per questo mi sentivo madre. Non mi ci sentivo nemmeno dopo che le mamme di Walcott mi accompagnarono dal loro ginecologo per avere la conferma, né quando lui comunicò a tutta la mia famiglia che ero incinta, e neppure quando il mio corpo lievitò e iniziai a percepire Natty che muoveva e allungava le sue particine nuove dentro di me. Non quando iniziarono le doglie ma Natty era nella posizione sbagliata. Non quando mi tagliarono e lo tirarono fuori.

    Nel vedere quel suo faccino da patata rugosa con le lunghe ciglia accartocciate intorno agli occhi tenuti stretti stretti, mi montò dentro un amore così forte e caparbio, come una seconda creaturina che avevo cresciuto nella pancia, accanto a lui. Natty spalancò la bocca e pianse, e io seppi che era la mia persona speciale. La mia persona che mi ero fatta da me.

    Eppure né averlo partorito, né amarlo tanto faceva di me una madre; lo portai a casa, nella mia camera con le pareti rosa incorniciate con un bordo di margherite e con le tende bianche alle finestre. Dormiva in una culla di vimini con un coniglietto patchwork che faceva la guardia ai suoi piedini mentre io dormivo nel mio letto con Lobby-La in fondo alle coperte. Al mattino gli davo da mangiare mentre mia madre dava da mangiare a me servendomi uova fritte e fette di melone nel piatto.

    Non ero una madre; no, io ero una figlia con un figlio.

    Restai una figlia con un figlio

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