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Dove crescono i cocomeri
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E-book205 pagine2 ore

Dove crescono i cocomeri

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Info su questo ebook

Quando vede la mamma scavare furiosamente i semini neri da un’anguria nel bel mezzo della notte mentre parla con persone che non esistono, Della si rende conto che sta succedendo di nuovo. Che la malattia che ha costretto sua madre in ospedale quattro anni prima è tornata. Che finirà di nuovo in ospedale per mesi come l’ultima volta. Mentre suo padre si dedica al lavoro nell'azienda agricola di famiglia, che è in difficoltà a causa della siccità, e sua madre nega l’evidenza, è Della che decide di doverla curare. E sa come

fare: il magico miele della signora delle api ha curato tutte le ferite e i guai degli abitanti di Maryville, in North Carolina, per generazioni.

Ma la signora delle api rivela a Della che la soluzione non è tanto nella cura della mamma, quanto nel guardare con sincerità in fondo al proprio cuore e imparare, con l’aiuto della suavfamiglia e dei suoi amici più cari, che amare significa accettare la mamma così com’è.
LinguaItaliano
Data di uscita3 set 2020
ISBN9788830519763
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    Anteprima del libro

    Dove crescono i cocomeri - Cindy Baldwin

    fatto.

    Nelle notti d’estate i raggi della luna attraversavano la finestra della mia stanza disegnando vortici e luccichii argentei sul soffitto.

    Me ne stavo sdraiata a letto, il lenzuolo su di me caldo e pesante come una trapunta, ad ascoltare il rumore del ventilatore che non riusciva minimamente ad allontanare l’afa dalla camera. Ero andata a letto ore prima, ma faceva troppo caldo per dormire. Troppo caldo per fare qualsiasi cosa, tranne che stare immobile a guardare la luce della luna spostarsi sul soffitto, coi pensieri che vorticavano nella mia testa come il vento sulla baia prima dello scoppio di un temporale. Dall’altra parte della camera, nel suo lettino, la piccola Mylie russava.

    Solo un bambino poteva dormire in una notte così calda.

    Chiusi gli occhi, immaginando una serie di numeri davanti alle palpebre abbassate. Raddoppiare le cifre fino a quando riuscivo a tenere il conto: un trucco che mi aveva insegnato papà, oltre che il mio modo preferito per prendere sonno; era un problema abbastanza interessante da farmi mantenere la concentrazione, ma non così complicato da non permettermi di addormentarmi al momento giusto. Uno. Due. Quattro. Otto. Sedici. Trentadue. Sessantaquattro.

    Andai avanti così fino a Milleventiquattro per due fa duemilaquarantotto, e a quel punto smisi di cercare di dormire. Feci scivolare le gambe giù dal letto e il tappeto fresco sotto le dita dei piedi fu un piccolo sollievo in quella calura. L’orologio sul comodino segnava le 00.03. Attraversai la stanza e il corridoio buio di soppiatto, così che nessuno potesse sentire che ero sveglia e rimproverarmi.

    Ma non ero l’unica a essere sveglia.

    La mamma era seduta al tavolo della cucina, e la sua pelle pallida era strana e verdastra alla luce del frigorifero lasciato aperto. Di fronte a lei, sul tavolo, c’era un piatto con delle fette di cocomero; le guardava con lo stesso sguardo che ho io durante una verifica di inglese a scuola. Stava usando la punta di un coltello per togliere i semini da ogni fetta, a uno a uno, senza preoccuparsi che stessero inondando tavolo e pavimento. Un semino si era incollato alla sua fronte come un piccolo insetto, proprio sopra il sopracciglio corrugato per la concentrazione.

    «Mamma?» Nel silenzio della cucina la mia voce risuonò bassa e un po’ incerta, sostenuta solo dal mormorio del frigorifero.

    Il cocomero nel piatto era uno di quelli coltivati da papà. Il mio papà coltiva i cocomeri più dolci di tutta la Carolina del Nord. Coltiva anche altre cose, come grano e arachidi nei campi più grandi e zucche e frutti di bosco in quelli piccoli, però i cocomeri sono i miei preferiti. Affondare i denti in una di quelle fette rosso rubino è come assaggiare il mese di luglio, con il succo fresco che ti esplode sulla lingua.

    Mi piace staccare col cucchiaio dei pezzi rotondi così grandi che quasi non mi stanno in bocca, ma la mamma insiste perché io tagli delle fettine regolari a forma di triangolo. «Così tutti possono mangiarlo» dice gettando un’occhiataccia ai buchi lasciati dal cucchiaio e, ogni volta che lo fa, so che sta pensando all’infinità di germi passati dalla mia bocca al cucchiaio e dal cucchiaio al cocomero.

    Qualunque cosa stesse facendo con quelle fette nel piatto, però, era molto peggio dell’ossessione per i germi.

    I cocomeri sono il mio cibo preferito in assoluto: se ho fame ne posso mangiare quasi uno intero da sola; papà la trova un’impresa abbastanza impressionante per una ragazzina di appena dodici anni e alta nemmeno un metro e mezzo. Ma in quel momento, il ricordo del sapore di quei cocomeri era acido e terribile.

    Mi schiarii la gola. «Mamma?» chiamai più forte.

    «Della» disse lei. «Dovresti essere a letto.»

    «Dovevo solo prendere un bicchiere d’acqua.» Tamburellai le dita dei piedi sul pavimento di linoleum. Era appiccicoso dove non era stato pulito a fondo dopo che Mylie, facendo i capricci perché non voleva andare a letto, aveva buttato per terra la tazza col beccuccio.

    Quando si trattava di andare a dormire, Mylie faceva un sacco di capricci.

    «Mamma, cosa stai facendo? Non vuoi andare a letto anche tu?»

    «No.»

    Avanzai lentamente in cucina evitando di pestare i semini sparsi sul pavimento e presi un bicchiere pulito dalla credenza. Ignorai il frigorifero aperto con la caraffa speciale della mamma per filtrare l’acqua dai germi e riempii il bicchiere con l’acqua del rubinetto. Non volevo sapere veramente cosa stesse facendo la mamma. Era come tornare indietro di qualche anno, a quel brutto periodo, e non volevo saperne niente. Perciò dissi soltanto: «Lo sai che hai un semino di cocomero proprio sopra l’occhio?».

    Mamma portò le dita alla fronte, afferrò il semino e lo gettò subito sul tavolo come se potesse morderla. «Non mi piacciono. Ce ne sono troppi. Non voglio che li mangi, intesi? E non voglio nemmeno che tu li dia a Mylie. Non voglio che vi camminino nella pancia e vi facciano ammalare.»

    Il bicchiere d’acqua mi si gelò tra le mani e rimase a mezz’aria. Guardai mamma ancora e ancora, desiderando con tutto il cuore di non essermi mai alzata, di essere rimasta a letto a dormire come avrei dovuto, così da non vederla comportarsi in quel modo.

    Dopo aver bevuto, misi il bicchiere nel lavandino. A volte preferivo lasciare i bicchieri che usavo sul bancone, per poterli riutilizzare senza doverli lavare ogni volta, però quando lo facevo la mamma mi assillava per la quantità di germi che la mia bocca aveva lasciato sul bicchiere. Cosa pensasse che potesse succedere, non l’ho mai capito; di sicuro quei germi non sarebbero strisciati fuori dal bicchiere per finire sul bancone, ma quel che è certo è che non le piaceva che li lasciassi lì.

    «Senti» le dissi, prendendo un bel respiro e fingendo di parlare a Mylie invece che a lei. Volevo soltanto tornare a letto, chiudere gli occhi e fingere di non essere mai andata in cucina, ma sapevo anche che non potevo farlo senza essere divorata dai rimorsi. Mamma aveva bisogno di me. «Ora chiudo il frigorifero, va bene? Poi ti aiuto a pulire il cocomero. Credo che tu debba andare a letto, se domani in chiesa non vuoi essere stanca. E so che non ti piace.»

    In realtà, ciò che a mamma non piaceva era che io fossi stanca in chiesa, ma non le piaceva nemmeno quando era stanca lei, perché diceva che la trasformava in un mostro di mamma, verde e cattiva.

    Com’era prevedibile la mamma si accigliò. «Perché sei ancora in piedi, Della?» chiese, come se non glielo avessi già spiegato un minuto prima. «Dovresti essere a letto, tesoro.»

    Sospirai. «Lo so. Ci sto andando proprio ora. Vieni a letto anche tu?»

    Il suo sguardo scattò di nuovo verso il piatto di fette di cocomero e le sue dita ripresero il coltello. Sul tavolo si sentiva il picchiettio dei semini bagnati, tap-tap-tap-tap-tap. «No!» esclamò, e sussultai, perché stava quasi urlando. «Non posso andare a dormire stanotte. Devo occuparmi di questo cocomero.»

    Una porta si aprì nel corridoio e comparve papà, con la faccia stanca. Era scalzo e aveva i capelli tutti arruffati.

    «Suzanne» disse, «che succede?» Poi mi vide. «Della, che ci fai in piedi? Sai che è già passata mezzanotte, vero?»

    Sospirai ancora, più forte questa volta, così che papà potesse sentire. «Volevo solo bere un po’ d’acqua.» Ce l’avevo con la mamma, ma non riuscii a impedire che quella rabbia attraversasse la cucina e colpisse anche papà. «Non è più consentito in questa casa?»

    «Non fare l’impertinente» ribatté lui, però non sembrava infastidito. Papà non sembrava mai infastidito. Questa è una sua caratteristica: è così calmo e pacato che quasi non lo senti parlare. «Hai bevuto?»

    «Sì. Buonanotte.»

    Evitai di guardare mamma di nuovo, ma mentre camminavo lungo il corridoio riuscivo a sentire i semini picchiettare sul tavolo.

    «Suzanne, per favore, torna a letto» disse papà mentre aprivo la porta di camera mia.

    «Non posso. Non posso andare a dormire. Troppo da fare.»

    Alle mie spalle tutto taceva. Mi immaginai papà passarsi una mano callosa tra i capelli castani, come fa sempre quando è turbato e non sa che fare. «Suzie» disse a voce così bassa che quasi non la sentii, «hai bisogno di dormire, amore. Lo sai che hai bisogno di riposare o inizierai a star male.»

    La mamma non rispose. Chiusi la porta della camera pian piano, con cura, lasciando solo un piccolo spiraglio aperto per poter ascoltare.

    «Suzanne. Vieni con me, okay? Vieni a dormire, per favore.»

    «No.»

    Deglutii. Mamma stava praticamente urlando, proprio come poco prima con me. Spiai attraverso la fessura che avevo lasciato aperta; lo vedevo a malapena. Era in piedi dietro alla mamma e le teneva le mani sui gomiti cercando di farla alzare dalla sedia.

    «Suzie, tesoro, metti via quel coltello.»

    «No!» urlò mamma, più forte questa volta. Dall’altra parte della camera, Mylie cominciò a piagnucolare e ad aggrapparsi alle sbarre della culla.

    «Lasciami in pace» disse mamma. «Per favore, lasciami in pace. Devo farlo. È importante. Devo tenere al sicuro le bambine.»

    Andai in punta di piedi fino al lettino di Mylie e le appoggiai una mano sulla testa; aveva i ricci biondo-ramati tutti bagnati di sudore. Si era messa a sedere, con le dita grassocce strette intorno alle sbarre.

    «Shhh» le sussurrai, e lei si calmò. «Va tutto bene, piccolina. Torna a dormire. Vuoi che ti racconti una storia sulle api?»

    «Stoia» ripeté Mylie, muovendo il corpicino finché non si fu di nuovo sdraiata sul materasso.

    «Va bene» dissi con voce calma e bassa mentre mi inginocchiavo vicino alla culla. Infilai le mani tra le sbarre e le accarezzai la schiena mentre parlavo. Sentivo che si stava calmando e rilassando, come se il mio tocco sulla schiena fosse tutto ciò che le serviva per sentirsi al sicuro. Bimba fortunata. «Molto tempo fa – all’epoca era ancora un ragazzino e la fattoria apparteneva a suo padre –, nonno Kelly stava giocando sul trattore quando cadde e si procurò una lunga ferita sulla gamba. Era un taglio profondo, e i suoi genitori sapevano che, se lo avessero portato dal medico, gli avrebbe dovuto mettere dei punti e dare delle medicine, e avrebbe potuto anche non guarire perfettamente e non camminare più come prima. Quindi non lo portarono dal medico. Lo portarono dai Quigley.»

    Appoggiai il viso alle sbarre della culla, fresche e dure contro la mia pelle. Il respiro di Mylie si stava facendo più regolare, però nella semioscurità riuscivo a vedere che aveva ancora gli occhi aperti.

    «A quel tempo lì non viveva la nostra signora delle api, ma sua nonna. Nonno Kelly chiese alla signora Quigley se avesse del miele per curargli la gamba. La signora Quigley diede un’occhiata alla ferita e al viso di nonno Kelly, bianco come il cotone, poi si diresse verso gli scaffali per prendere un vasetto di miele. Era scuro, appiccicoso e denso. Quando capovolse il barattolo aperto sopra la gamba del nonno, ci volle un bel po’ prima che il miele colasse fuori. La signora Quigley lo spalmò su tutta la ferita con le sue mani delicate.»

    A quel punto Mylie aveva chiuso gli occhi, e le sue ciglia delicate le sfioravano le guance chiare. Tolsi la mano dalla sua schiena; lei non si mosse.

    «E la gamba di nonno Kelly guarì così in fretta e così bene che quasi non rimase la cicatrice e la sera stessa, prima ancora che il sole tramontasse, era già in piedi e camminava» sussurrai a me stessa; poi tornai nel mio letto e mi sdraiai sopra le lenzuola. Faceva troppo caldo per infilarmici sotto.

    Era una storia vera, quella del nonno e della sua gamba. Più di una volta mi aveva mostrato la sottile cicatrice bianca che andava quasi dal ginocchio alla caviglia. Diceva sempre che, se non ci fosse stata una signora delle api a Maryville, probabilmente avrebbe zoppicato per tutta la vita.

    Sospirai e mi girai su un fianco. Papà era tornato in camera loro mentre raccontavo la storia a Mylie, ma tendendo l’orecchio sentivo ancora il picchiettare dei semini sul tavolo.

    Chiusi gli occhi, cercando di dimenticare i semini di cocomero, la mamma che urlava e si comportava peggio di quanto non facesse da molto tempo; sperando che ci fosse qualcosa che potesse rimettere a posto la mente di mamma come era successo per la pelle di nonno Kelly.

    Che potesse guarirla completamente, con una piccola e innocua cicatrice come unico ricordo.

    La mattina seguente, mamma continuò a dormire per tutta la colazione e anche più tardi. «Lascia riposare tua madre» mi disse papà, mentre infilava a Mylie il vestito azzurro della domenica. «Non si sente bene. Tu e io possiamo cavarcela anche da soli, oggi in chiesa.»

    Annuii ma non dissi nulla, serrai soltanto le labbra fino a che non bruciarono.

    Papà aveva appena finito di pettinare Mylie e stava cercando di metterle una mollettina per toglierle i riccioli dal viso quando si rese conto di non avere le chiavi del furgone.

    «Della, hai visto il mio mazzo di chiavi?» chiese scandendo le parole con voce tesa. Diede un’occhiata all’orologio a muro, le cui lancette si avvicinavano inesorabilmente all’orario della funzione.

    «No» risposi, fermandomi nel corridoio prima di portare Mylie fuori e sistemarla sul seggiolino della macchina.

    «Accidenti» mormorò passandosi una mano tra i capelli e arruffandoseli tutti. Guardò dritto negli occhi Mylie. «Hai preso tu le chiavi, scimmietta?»

    Ci vollero circa dieci minuti per setacciare tutta la casa, prima di trovarle tra i cuscini del divano assieme a una manciata di Cheerios e al giocattolo preferito di Mylie, un piccolo telefono di plastica.

    «Piccola peste.» Papà prese gli occhiali da sole, ci sospinse fino alla porta e poi sul furgone.

    Arden, la mia migliore amica, era la maggiore di cinque fratelli, ma i bambini della sua famiglia, a sedici mesi, sgambettavano e ridacchiavano soltanto. Questo non valeva per Mylie. Chiunque la conoscesse sapeva che era nata con grandi idee per la testa e birichinate per le mani. Una volta il cellulare di papà era scomparso per quasi una giornata intera finché non ero uscita a prendere le uova e l’avevo scovato nel pollaio. Un’altra volta aveva preso la carta di credito argentata della mamma che, dopo una settimana di vane ricerche, aveva dovuto passare ore al telefono per convincere la banca a dargliene un’altra.

    «Stupida capretta» sussurrai agganciando le cinture del seggiolino. Mylie mi rispose sorridendo. C’erano molte cose che non le piacevano, ma se c’era qualcosa che la divertiva un sacco era andare in macchina, specialmente quando faceva caldo e papà abbassava i finestrini. Li abbassò anche quel giorno, lasciando che il vento investisse i nostri visi mentre percorrevamo la strada verso la città.

    Mi sedetti sul retro del furgone e guardai la nuca di papà. La mia bocca era piena di parole non

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