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Una farfalla bianca al chiaro di luna
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Una farfalla bianca al chiaro di luna
E-book377 pagine5 ore

Una farfalla bianca al chiaro di luna

Di Luce

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Info su questo ebook

Arrivare alla soglia dei trent’anni e accorgersi che non si è mai stati pronti ad amare, non si è mai concessi a qualcuno perché di vista, e senza perderla mai, prendeva come esempio la storia d’amore dei propri nonni, quell’amore di una vita che raggiunge il per sempre, senza mai temerlo. Questa è la storia di Luna, un medico legale di altri tempi, innamorata della vita e della propria famiglia, così dedita al lavoro, tanto da assorbire il dolore dei familiari delle vittime, perse in eventi poco piacevoli alla mente umana.

Arriverà un momento, però, che il destino avrà voglia di prendersi gioco delle sue emozioni: quando arriveranno Diego e Mattia, a chi dovrà rinunciare nella sua vita di così importante? E lei, sarà pronta a fare una scelta d’amore tra il bel medico legale e il cupo ispettore quando si presenterà via mail un segno dal destino?
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2020
ISBN9788831691413
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    Anteprima del libro

    Una farfalla bianca al chiaro di luna - Luce

    andato."

    CAPITOLO 1

    SCRIVERO’ DI TE E DI ME

    Il mio primo giorno di dolore.

    Tutti ne hanno uno. Solo che io, per avere la certezza di non dimenticarlo mai, lo sigillerò qui. Su questa pagina bianca imbrattata di inchiostro nero bagnato da lacrime crudeli.

    Ma partiamo dal principio.

    Caro diario,

    mi chiamo Luna e il mio nome mi venne dato con l’augurio di essere bella e splendente come il satellite naturale che rischiara ogni notte terrena. Tranquilla e paziente, amo mostrare il mio fascino in modo garbato e sottile, attraverso un portamento elegante, lontano anni luce dagli abiti lussuosi visti nelle migliori vetrine, e con tutta la mia dolcezza, la quale dicono essere una caratteristica rara nei tempi che corrono. Sono un medico legale di altri tempi, innamorata della vita e della famiglia, così dedita al lavoro da assorbire il dolore dei familiari delle vittime, perse in eventi poco piacevoli alla mente umana.

    Perché assorbire il dolore di qualcun altro ed evitare il mio? Più volte mi sono posta questo interrogativo. Perché c’è chi è riuscito a sconfiggerlo, chi, purtroppo, ha perso la battaglia, chi ancora lotta. Ci sono sofferenze che, a prescindere dal risultato, si portano dietro come un bagaglio mai disfatto. E non soffre solo l’ammalato ma anche chi gli è vicino e, impotente, piange nel suo silenzio assordante, fingendo ugualmente che il peggio non esista e tutto vada bene nella vita. Ma confessiamolo pure: alle volte fa meno male pensare al male che ci affligge, evitandolo, rifiutandolo come qualcosa che non ci appartiene, o credendo, magari, che un giorno a noi non molto lontano il miracolo verrà a salvarci.

    Ci sarà un momento della mia esistenza, tuttavia, in cui sarò proprio io a incontrare il destino e sarà allora che la vita mi metterà a dura prova. Avrà voglia di prendersi gioco delle mie emozioni, dei miei sentimenti, delle cose che ho dentro e che nemmeno io conosco fino in fondo. E voi, voi siete certi di conoscervi, di conoscere alla perfezione la vostra parte migliore e quella un po’ meno buona? Le vostre debolezze, quei malumori che erigono una fortezza avanti al cuore, quei sorrisi dispersi nel baratro delle finzioni, perché tanto oggi si sorride ugualmente anche senza una valida ragione.

    Eppure, io ancora cerco quel sorriso per cui valga la pena sorridere sempre, quel sorriso unico in grado di far innamorare come nelle favole, quella nuvola di leggerezza al mio fianco capace di farmi sentire libera di volare in alto, come una farfalla con il dischiudersi delle ali. Ma quante volte abbiamo provato a volare?

    Quante volte abbiamo preteso un cielo più grande perché l’infinito non bastava ai nostri occhi? Quante altre abbiamo avuto paura di lanciarci nella nostra stessa felicità, nell’unica cosa che ci avrebbe fatto respirare il cielo di primo mattino, a pieni polmoni? Quante volte siamo stati a un passo dalla felicità, a un passo dal cielo e con il primo aereo siamo volati via? Quante volte abbiamo preteso un segno dal destino, senza mai realizzare fino in fondo che buona parte di quella meravigliosa fatalità dobbiamo costruirla proprio noi? Con le nostre gioie, i nostri fallimenti, con la nostra fragilità, i nostri rimpianti. Con tutto ciò che ci ha reso migliori e con quella parte peggiore che fatichiamo ad accettare.

    Arriverà, dicono, il tuo momento, il tuo destino, perché a ognuno è assegnato il proprio. Ma a quale prezzo? A chi dovrò rinunciare nella vita di così importante per volare alto come le farfalle? Come se per ogni cosa, una piccola giustificazione della vita, ci sia una legge naturale a cui credere o dare ascolto. Una sorta di riparo quando il temporale ci circonda bagnando la nostra anima, già fragile e sola. Ed è in quel preciso istante che ci sentiamo più inquieti, anche se molti ci ripetono che non saremo soli mai. Essere in compagnia di cento volti, con i propri sorrisi più belli, non esclude la solitudine, quel senso di vuoto che non si può spiegare con le sole parole. Capite di cosa vi sto parlando? La conoscete quella sensazione di frastuono interiore, tipica di alcune bombe che annientano il vostro cuore!?

    Eppure credo che certe cose succedano perché devono succedere realmente, perché sono destinate a noi, probabilmente davvero a causa o per merito di quella famosa legge naturale. Sono quelle sorgenti di vita che non si possono cancellare, nemmeno se lo vogliamo con tutte le nostre forze. Accade e basta. Accade ogni cosa. Accadono le paure prima di saltare, accadono i timori per aver perso ogni tipo di equilibrio, accadono i raduni dei batticuore quando le sue mani mi sfiorano, quando perdo i suoi occhi nel buio della notte. Accadono i solchi di sorriso con la metà della luna, accadono e cadono tante di quelle lacrime che ho detestato io per prima.

    Accade tutto. La vita e la morte, la gioia e il dolore, la pace e il tradimento, la vittoria e la sconfitta. È la legge della natura che lo impone, il nostro sorriso, il nostro punto di non ritorno.

    Ed è allora che sospiri piano, cerchi nei suoi occhi il tuo sogno migliore, provi a capire se il per sempre possa esistere davvero e non solo per un misero frangente di tempo che non basta mai, se il sole possa splendere anche in un giorno di pioggia e la neve cadere quando non ci speri più. E poi ritorni, come se avessi fatto un viaggio verso una meta priva di destinazione e ti accorgi che a essere partita era solo la tua fervida fantasia, ormai stanca di restare in attesa, di aspettare che qualcosa possa cambiare nella vita per la prima volta. E torni, sì che torni. Torni a respirare piano quando il pensiero di non farcela diventa più grande di qualsiasi speranza appesa nell’armadio dei desideri.

    E a quel punto che si fa? Si parte davvero o si rimane inermi ad attendere che qualcosa cambi, che qualcuno passi a curare le tue cicatrici, che il dolore sofferto prenda le sue cose e torni da dove è venuto?

    Non sempre accade, non sempre va così.

    CAPITOLO 2

    CARO DIARIO…

    27 agosto 2019

    Caro diario…ma quale caro diario!

    Non c’è niente di caro in quello che sto per scrivere. Vedo solo nero attorno a me, solo la fine di tutto.

    È realmente alla fine di ogni cosa, di quell’angolo minuscolo e scrupoloso di eternità, che si percepisce il sapore e il disgusto dell’amaro in bocca, quel dominante interrogativo che tamburella la nostra mente con la solita domanda: si è fatto abbastanza? Abbastanza per rischiare, abbastanza per non perdere, abbastanza per ricominciare. Ecco perché la fine fa paura: solo allora la nostra coscienza ci presenterà su un piatto d’oro chi siamo stati e quanto abbiamo fatto per essere proprio noi.

    Ed ecco che torna ancora il sospiro rimasto a metà con l’interfacciarsi dell’eclissi lunare, di un impavido raggio di sole, perché la coscienza e il cuore si rivoltano anche quando una ragione non c’è, rimanendo eternamente in conflitto tra loro.

    Ti guardi indietro, cerchi attorno, rivedi nella mente quelle scene in bianco e nero che hai vissuto in un passato che ti sembra così lontano, provi a ricordare il più piccolo particolare, un gesto, le parole lanciate nel vento dell’eternità, ogni singolo sguardo prezioso da incastrare, come in un puzzle, con la ragione per cercare di reinterpretare tutto, di mettere finalmente in ordine gli sbagli, i sorrisi, i malintesi, le emozioni e dare un senso a tutte le cose alle quali prima non ne avevi dato. Un senso che, forse, non c’è. Non esiste. La fine sì. Certo che esiste.

    È proprio quando arriva che comprendi di non poter fare più niente, di non poter far altro. Nemmeno gli sbagli, tantomeno gli errori. Ti siedi con calma e la osservi mentre ti rendi conto che le cose vanno esattamente come devono andare, perché si è dato solo quello che ci si sentiva di dare e non sempre importa la ragione. Si è detto solo quello che abbiamo pensato in quel momento e non è vero che ci siamo fatti prendere dalla circostanza. Sono proprio queste cose a essere in grado di far fuoriuscire la nostra parte nascosta, ignara, magari, persino a noi. E si è fatto sempre e solo quello che comandava il cuore.

    In fin dei conti, ogni singolo passo, il più piccolo errore, ogni storia lasciata a metà e ogni forma di amore ci sono stati, sono esistiti, perché dovevano esserci. Era così che doveva andare. E la scelta… l’hai presa sempre e solo tu. Anche quando avvertivi di sbagliare, di ferire, di poter fare di più, di poter combattere più forte.

    Ed è sempre alla fine, sempre su quel punto di non ritorno che compare il rimpianto delle cose che avrei voluto fare. Probabilmente perché avrei potuto, ma non ho fatto perché non ho voluto.

    Cosa avrei voluto? Tutto quello che oggi rimpiango di non poter più fare.

    Quindi fatele le cose, correte nelle braccia che vi fanno sentire a casa, sentitele le emozioni, prendeteli i treni che passano una sola volta. Non rimanete fermi dietro quella linea gialla. Perché, io, oggi, posso solo dire avrei voluto …ma mi rendo conto che non posso più rimediare.

    CAPITOLO 3

    BENVENUTO SETTEMBRE

    Perdonare tuo padre

    E rimanere a parlare

    Così puoi dimenticare

    Che poi è meglio di dire, che poi è meglio di fare

    Settembre è un mese perfetto per ricominciare.

    Gazzelle, Settembre.

    A settembre, in qualche maniera, riprende la vita sigillata nei mesi estivi: i bambini tornano a scuola e i più con le lacrime agli occhi, le lezioni all’università riprendono rigorosamente con i calendari stabiliti dai docenti, gli uffici attivi a pieno regime, il lunedì sempre troppo tempestivo e la domenica sempre troppo breve; il traffico della città, i mezzi ininterrottamente affollati e mai puntuali, il tutto accompagnato da un rumoroso ritmo che proprio non vuole smettere di suonare: la sveglia è tornata allo svizzero orario delle ore sette del mattino.

    Strizzo gli occhi, ancora socchiusi dal sonno pesante che mi avvolge e con fatica mi avvicino al comodino per spegnere la sveglia.

    <> dico, mentre mi accoccolo nelle lenzuola di flanella, non considerando il fatto che qualcuno di inopportuno avrebbe potuto farmi sobbalzare dal sonno tenue ma profondo.

    <> rispondo alla prima di una lunga serie di chiamate giornaliere.

    <> sento urlare dall’altra parte del telefono.

    <> mento, portandomi giù dal letto. Le sue urla possono significare solo una cosa: è qui. Federica è già qui.

    <>

    <>

    <>

    Scendo in fretta le scale, quasi cado per dirigermi alla porta. Avrei dovuto immaginarlo ieri sera che sarebbe andata a finire così, quando mi ha scritto il messaggio della buonanotte.

    <> la saluto, aprendo la porta. Dal suo volto adirato capisco che ha aspettato parecchio e lei odia aspettare…me.

    <>

    La mia amica spiritosa è impeccabile come di consueto, anche di primo mattino. Indossa un pantalone in lino bianco e una camicetta rosa cipria con le maniche a trequarti, ma cammina così velocemente che non ho notato se è in cotone o in lino come il pantalone.

    <>

    Mi guardo allo specchio fissato alla parete del corridoio e in effetti noto che ha ragione. I miei ricci ribelli sono davvero un disastro questa mattina.

    <>

    La osservo dirigersi in cucina, bella e pimpante, già pronta per la sua trionfante settimana. Avete presente la classica storia della bella e la sfigata? Oppure, della prima e l’eterna seconda? Ecco, questo è il nostro ritratto. Ovviamente la prima tra le due è sempre stata lei. La più bella tra le due, la più corteggiata, la più astuta, la più puntuale. Però non mi posso lamentare. In fin dei conti sono pur sempre la migliore amica della numero uno.

    <> la seguo, raccogliendo i miei ricci in una coda.

    <> puntualizza, mentre serve i cornetti in tavola.

    <>

    <>

    <> rispondo, mentre continuo a stringere la moka per il caffè.

    <>, si guarda intorno per osservare se il caos lasciato nei giorni precedenti è ancora tra le stanze.

    <>, divento improvvisamente seria. Non mi va di tornare ancora su quell’argomento. Devo voltare pagina una volta per tutte, altrimenti non so come potrei fare a sorridere ancora o a conservare la bellezza di un sorriso per i momenti che necessitano meraviglia.

    <>, sospira, << dai, ora non pensarci.>>

    <> contesto, mentre servo il latte caldo nelle nostre tazze preferite, la mia celeste e la sua rigorosamente viola.

    <> si indica con entrambe le mani, usando un tono consolatorio.

    <> borbotto, soffiando nella tazza.

    <>

    <> curioso, con la bocca piena di cioccolato e sfoglia bagnata al latte.

    <> prova a strapparmi un sorriso e ci riesce.

    <>

    CAPITOLO 4 IL LAVORO DEI MIEI SOGNI…O QUASI

    Sono sempre i sogni a dare forma al mondo

    Sono sempre i sogni a fare la realtà

    Sono sempre i sogni a dare forma al mondo

    E sogna chi ti dice che non è così

    E sogna chi non crede che sia tutto qui.

    Luciano Ligabue, Sono sempre i sogni a dare forma al mondo.

    Un sole pazzesco di metà settembre irraggia questa struttura maestosa e antica che per anni ha accolto i ragazzi come degli specializzandi. Il tempo dei capelli baciati dalla salsedine e della pelle dorata è ormai un ricordo lontano per molti, già catapultati nella noiosa routine lavorativa. A ogni modo, anche il tempo delle lunghe corse nelle metro, sempre troppo piene di gente appiccicata l’una all’altra, di libri che cadono e mani che sudano, quell’odore sgradevole di sudore che fa strada nelle nostre narici è solo un ricordo.

    <<È sempre la stessa>>, pronuncia Federica, ammirandola.

    <> ammetto, pensando al mio ruolo in questo istituto.

    <> sorride, soddisfatta. Federica è sempre stata orgogliosa per il suo percorso universitario e oggi, sapendo di lavorare nella clinica dei suoi sogni, la sua euforia le dona un’aria ancora più raggiante di quello che avrei potuto immaginare.

    <>

    <>

    Una voce femminile, aguzza e scontrosa, si intromette tra noi, riportandoci agli albori del primo giorno, quando eravamo solo due numeri tra tanti affidati agli insegnamenti di Crudelia per apprendere qualcosa sulla nostra carriera.

    <> le rispondo con aria timorosa, come se fosse ancora la mia insegnante. La mia angoscia nel vederla subentra anche a causa del suo vestiario. È da quando la conosco che non l’ho mai vista indossare qualcosa di diverso dal nero. Federica ritiene che si veste così perché il nero snellisce e considerando le rotondità della professoressa probabilmente ha ragione.

    <>, bisbiglia Federica nel mio orecchio, solleticandomelo.

    <> biascica, iniziando a salire le scale. Non è ancora scattata l’ora per iniziare a lavorare che già è proiettata sul da farsi.

    <> rispondiamo all’unisono, correndo dietro lei. Saliamo quell’ enorme scalinata con aria incredula, fingendo determinazione. Ormai siamo entrambe un Medico Legale e non più delle specializzande. Caspita, non riesco ancora a crederci.

    <> un uomo sulla sessantina, con i baffi brizzolati, ci sorride vicino la finestra.

    Probabilmente ha davvero ragione Federica. È stata una fortuna sfacciata aver trovato lavoro entrambe nello stesso edificio che ci ha viste crescere e formarci. E nonostante Crudelia non cambi, ritrovarla qui, assieme al direttore, rende tutto più familiare. È un ritrovarsi a casa, anche quando casa non è.

    <> ricambiamo il suo saluto, una volta entrate nel suo ufficio.

    <>, sorride, mentre noi accenniamo un con il capo.

    <>, allunga la mano destra, indicandoci le poltrone poste difronte alla scrivania in legno massiccio. <>

    Ha l’aria di chi non vuole perdere tempo. Se il buongiorno si vede dal mattino, credo che quest’anno sarà un anno molto duro qui in clinica.

    <> risponde Federica, curiosa di iniziare.

    <>, sorride sotto i baffi, mentre ci passa alcuni documenti.

    <> chiedo, sbirciando uno dei fogli avuti.

    <>

    <> ironizza la mia nuova collega a voce alta.

    <>

    <> chiede, con aria bieca, la professoressa Elenia.

    <> rispondo timidamente, tornando sull’attenti.

    <> domanda Federica, cercando approvazione da uno dei due Capi.

    <> Il direttore si solleva dalla sua poltrona possente e sicura e allunga la mano per salutarci.

    <>, si rivolge a lui Federica, stringendogli la mano.

    <>, ringrazio prima di uscire.

    <> proferisce la professoressa, con occhio invidioso, una volta fuori.

    <> Federica le sorride con aria di sfida. Avrei dovuto immaginare che sarebbe accaduto. Mi ha sempre ripetuto che prima o poi le avrebbe risposto a dovere e oggi capisco che aspettava solo di diventare realmente un medico legale per permettersi di assumere con la professoressa un tono quasi alla pari. Ok, togliamo anche il quasi.

    <> rimarca la dose, aprendo con forza la porta e andando via, alzando i tacchi.

    <>

    Anche io non sopporto quell’aria altezzosa che assume ogni volta Elenia, ma non per questo mi salta in testa di dirgliene quattro.

    <>

    <> le faccio notare divertita, sebbene sino a qualche attimo fa ero intimorita dalla sua presenza.

    <>

    Fede si guarda attorno con aria ancora più entusiasta. Effettivamente il nostro ufficio è davvero grazioso. Le scrivanie sono poste una difronte all’altra, entrambe bianche e con un proprio computer. Speravo di trovare la sedia girevole e così è stato; ma mai avrei immaginato di godere anche di un bel divano grigio e delle tende da sole, a rendere più raffinata e signorile la stanza. Purtroppo la nostra vena curiosa viene stroncata sin da subito da qualcuno che bussa forte alla porta.

    <> chiede una voce femminile.

    <> rispondo, avvicinandomi alla porta.

    Una ragazza stupenda fa il suo ingresso. Resto colpita dai suoi lineamenti delicati: è bionda come me e ha gli stessi occhi verdi di Federica. È il nostro incrocio perfetto, se non fosse che lei ha i capelli corti mentre i nostri sono decisamente lunghi.

    <>

    <> risponde Fede, scrutandola dalla testa ai piedi. Ecco, ci risiamo, lo sta facendo ancora. Ha appena messo in moto la sua potente radiografia.

    <>, me li passa con garbo.

    <>

    <> confabula Fede, esagerando.

    <> risponde presentandosi. <> e indica con la mano il suo studio, proprio difronte al nostro ed entrambi situati in fondo al corridoio del piano terra.

    <> le sorrido, entusiasta di conoscere una nuova collega.

    <> saluta lei, destreggiandosi con aria sicura e superiore, soprattutto superiore.

    <> rimprovero la mia amica ribelle, una volta certa della lontananza di Alessia. <>

    <> sbuffa Federica mentre indossa il nuovo camice. Ha certamente dimenticato che anche io sono bionda, eppure sono sua amica da anni!

    <> scoppio a ridere, notando la sua faccia scocciata.

    <>

    Risate allegre mi abbracciano il cuore. È da tanto tempo che non rido così a crepapelle, quasi l’avevo dimenticato, il sapore di un sorriso autentico.

    Il mio primo giorno di lavoro è andato, ed io…sono davvero tanto felice.

    In fondo, credo che non può piovere sempre sul bagnato ed è per questo che mi sento pronta a spalancare le finestre del mio cuore e accogliere anche il più impavido raggio di sole.

    CAPITOLO 5

    IL PRIMO CASO

    Incubi.

    È tutto buio attorno a me e la macchina va talmente veloce da mettere paura a chiunque mi capiti a tiro. Ciononostante, non riesco ad arrivare alla mia destinazione. Come se alcune mete, seppur vicine, alle volte sembrino così lontane. E quando credi di essere quasi giunta, toc… c'è il solito imprevisto pronto a tagliarti la strada. E ricominci, ricominci di nuovo, stanca di essere sempre in corsa senza mai arrivare.

    <> dico, sussultando dal letto.

    E cosa c’è peggio di un incubo di primo mattino? Il suono del telefono che non smette di squillare.

    <>, parlotto ad alta voce, prima di rispondere. <>

    <>

    Devo ammettere che è sempre molto gentile e a modo, anche quando si parla di lavoro. Perché se mi chiama così presto è perché vuole parlarmi di lavoro, no?

    <> Che dovrei fare alle sette e mezzo, le sedute spiritiche?

    <>

    <> chiedo, alzandomi dal letto.

    <>

    E dal suono di queste parole mi assale il panico più totale. Sapevo che avrei dovuto lavorare direttamente sul campo, ma di certo non mi aspettavo di doverlo fare da sola, specie nella mia prima settimana di lavoro.

    <>

    A proposito! Dove cavolo è finito questo dottorino so tutto io? Di quanto tempo ha ancora bisogno per interfacciarsi con noi? E’ tutta colpa sua se il direttore è ricorso a me. Uffa! La settimana è andata così bene, non poteva terminare così?

    <>

    Ho alternative?

    <>

    Avrei dovuto dirgli che me la faccio sotto dalla paura? Sì, avrei dovuto!

    <>, riaggancia in fretta, prima che possa cambiare idea. Come se avessi altra scelta!

    La mia prima missione sul campo… da sola…come un vero medico legale. Sarà questo il pensiero tipico di alcune colleghe?! Cosa penso io, invece?! Penso che ho una fortuna sfacciata nell’avere in macchina tutto il materiale necessario. Merito di Fede, che programma tutto per due. È sempre stata lei quella puntuale e organizzata nella vita, sin da piccoline. Io, invece, continuo a essere piuttosto sbadata e distratta. Ecco perché poi mi ritrovo a correre a più non posso sulla strada, essendo, come al mio solito, eternamente in ritardo.

    Appena esco dall’auto, noto una gran folla attorno al cadavere. È circondato da ambulanze, poliziotti e alcuni familiari in preda alla disperazione. Non conosco nessuno, eccetto l’ispettore Barone, con il quale ho già lavorato negli anni in cui ero una semplice specializzanda.

    <> mi accoglie Giancarlo, venendomi incontro. Giancarlo è un uomo bassino e con la pancia, ma è dotato di un’intelligenza e una bontà smisurata. Conservo di lui un bel ricordo e poter lavorare oggi al suo fianco come medico legale è un onore che mi appaga e mi rende felice in egual modo.

    <>

    <>

    È adagiato sul marciapiede, vicino a un palo della luce, avvolto dal solito lenzuolo bianco, colore tipico di una morte funesta. Non è questo scenario a impressionarmi, quanto, piuttosto, la ragazzina quindicenne che con la vita non ha più nulla da condividere.

    <> esclamo, voltando lo sguardo in direzione degli occhi di quella che credo sia sua mamma. Proprio da una ragazzina dovevo iniziare? Cominciamo bene, accidenti.

    <

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